IL PRINCIPIO PASSIONE

IL PRINCIPIO PASSIONE
Parte seconda

IL PRINCIPIO PASSIONE

PARTE SECONDA  

    Prima di passare in rassegna i miti sull’origine del mondo, le antiche cosmogonie che  rispondono poeticamente al bisogno di  cercare e, ancor più, di trovare il principio dell’Universo, e quindi di tutto quello che era, che è e che sarà dal primo momento della sua comparsa  dal nulla al momento finale della sua scomparsa – in un altro nulla per gli atei, nell’eterno presente di Dio (sicut erat in principio ) per i credenti –  Mancuso vuol rispondere a un’obiezione “che di certo sarà già sorta nella mente di qualche lettore”. 


Questo bisogno di trovare un punto fermo, un punto d’appoggio, una causa prima, non sarà un inganno della nostra mente, un fantasma, o un idolo  nato dal nostro desiderio di vivere in un cosmo ordinato che non sia figlio  del caso ma di un disegno intelligente che dà senso e significato a tutto quello che esiste, quindi anche alla nostra esistenza, che non vorremmo fosse gettata qui, in questa valle di lacrime,  alla cieca e senza scopo, ma voluta da un Creatore amoroso, previdente e provvidente? Non è angosciosa l’idea che la domanda sull’origine e sulla fine (e sul fine) dell’Universo non ha senso, perché non c’è nessun principio da scoprire? Mancuso, nel paragrafo conclusivo del capitolo sulla ricerca del principio dell’Universo,  cita di nuovo, per confutarne la tesi della casualità dell’esistenza del mondo – e, di conseguenza, anche della nostra –   Steven Weinberg, Nobel per la fisica nel 1979: “Negli esseri umani c’è un’esigenza quasi irresistibile di credere che noi abbiamo un qualche rapporto speciale con l’Universo, che la vita umana non sia solo il risultato più o meno curioso di una catena di eventi accidentali risalenti fino ai primi tre minuti, che la nostra esistenza fosse in qualche modo preordinata fin dal principio”. Per Weinberg – come  per tutti coloro che “il mondo a caso” pongono – non c’è nessun senso preordinato, nessun principio trascendente, nessuno scopo nell’Universo; nondimeno questa mancanza di senso non deve farci disperare: “Ma se non c’è conforto nei risultati della nostra ricerca, c’è almeno qualche consolazione nella ricerca stessa. Gli uomini e le donne non si accontentano di consolarsi con miti di dei o di giganti o di restringere il loro pensiero alle faccende della vita quotidiana; costruiscono anche telescopi e satelliti e acceleratori, e siedono alla scrivania per ore interminabili nel tentativo di decifrare il senso dei dati che raccolgono. Lo sforzo di capire l’Universo è tra le pochissime cose che innalzano la vita umana al di sopra del livello di una farsa conferendole un po’ della dignità di una tragedia” (I primi tre minuti. Una visione moderna dell’origine dell’Universo, 1977).

Steven Weinberg

Come dire che la maggior parte dell’umanità, che certo non siede alla scrivania o non scruta il cielo dagli osservatori astronomici “per ore interminabili nel tentativo di  capire l’Universo”, è condannata a una vita farsesca? Nel leggere queste parole di Weinberg, giudicate “molto belle” da Mancuso ma, dal suo punto di vista,  per niente persuasive, mi  viene in mente un famoso  monologo del Macbeth shakespeariano: “Domani e poi domani e poi domani, / il tempo striscia, un giorno dopo l’altro, / a piccoli passi, fini all’estrema sillaba / del discorso assegnato e i nostri ieri / saranno tutti serviti  a rischiarar / la via verso la morte a dei pazzi. / Spegniti, breve candela! / La vita è solo un’ombra che cammina, / un misero attore sussiegoso / che si agita su un palcoscenico / per il tempo assegnato alla sua parte, / e poi di lui nessuno udrà più nulla: / è un racconto narrato da un idiota, / pieno di grida, di strepiti e di furia, /  che non significa nulla” (Atto V, Scena V). Se avesse ragione Weinberg (e con lui Leopardi, Camus, Sartre, Cioran, e tutti i nichilisti convinti come Macbeth, come il Jaufré Rudel carducciano, ma anche come il biblico Qohelet, che la vita sia vanitas vanitatum o “un’ombra che cammina” o “l’ombra d’un sogno fuggente”), non si spiegherbbe, annota Mancuso, “come da un Universo senza senso siano potuti sorgere dei grandi cercatori di senso come gli esseri umani”; come tutti gli esseri umani, quindi, e non solo quelli che ‘siedono alla scrivania per ore interminabili nel tentativo di decifrare il senso dei dati che raccolgono’. “Com’è possibile, prosegue Mancuso,  che un Universo del tutto insensato abbia generato esseri così affamati di senso?”. A questa domanda si può rispondere dicendo che è anch’essa insensata, perché presuppone arbitrariamente che un senso ci sia, ma è una presupposizione del tutto infondata e gratuita, e questa è la risposta nichilista di Weinberg. Oppure si può pensare che la fame di senso che caratterizza gli esseri uman “sia già una proprietà dell’Universo che nella mente umana trova la più alta manifestazione conosciuta” come pensa appunto Mancuso, che presuppone un rapporto organico tra soggetto conoscente e mondo conosciuto, o, se si preferisce, tra mente e mondo (e si potrebbe continuare con le diadi; psiche-soma, interno ed esterno, intrepretante e interpretato, lettore e testo, occhio che vede e cosa vista, immagine acustica e suono, percepiente e percepito, materia e forma…). Ora, tutto si potrà dire riguardo a questo pensiero di Mancuso meno che sia arbitrario e gratuito, dal momento che si basa sulla tradizione millenaria di quelle “visioni filosofiche e religiose che sostengono la comune derivazione del mondo e dell’uomo da un processo chiamato creazione”.


Vito Mancuso

A meno che non si considerino senza fondamento le visioni filosofiche e religiose che sostengono la creaturalità del mondo e dell’uomo; dopotutto, possiamo senz’altro essere certi che esiste il mondo e che esiste l’uomo, ma come si può essere certi che ci sia stata la creazione, e, secondo il Catechismo, anche ex nihilo? Qui, si può obiettare,  siamo sul terreno delle credenze religiose non su quello della scienza; ma sembra che il caso (o la provvidenza) giochi a favore della tesi  di Mancuso, il quale annota che “l’epilogo del libro di Weinberg appartiene a una disciplina diversa rispetto a quella che aveva guidato la stesura dei capitoli. Nell’epilogo infatti la fisica cede il posto alla filosofia, alla prospettiva globale con cui Weinberg interpreta i dati fisici esposti in precedenza. Dai medesimi dati però può derivare una visione del mondo molto diversa, compatibile con la fede in Dio e con una filosofia all’insegna non dell’assurdo ma del senso”. Ed ecco ora in azione la mano della provvidenza: “accanto a Weinberg, a Stoccolma, tra i premiati con il Nobel per la fisica del 1979 vi era Abdus Salam, primo pakistano nonché primo musulmano a ricevere l’insigne premio, sincero credente in Dio, tanto che nel discorso della cerimonia non esitò a citare il Corano”. Dunque si può esere scienziati e credenti: “Weinberg e Salam vedevano la vita e il suo senso in modo del tutto diverso, chiara attestazione dell’antinomia cui la ragione teoretica è dolorosamente destinata. In questa prospettiva si spiega come per alcuni non abbia alcun senso porsi alla ricerca del principio perché ritengono che principio non c’è, mentre per altri la ricerca della logica fondamentale alla guida dell’essere-energia costituisca un richiamo insopprimibile, un bisogno radicale della mente e del cuore, perché sentono che un principio di tutte le cose esiste e intendono indagarlo”. Attenzione ai verbi: Mancuso scrive “sentono” non “sanno” che un principio di tutto esiste. Come è possibile passare dal sentimento di una cosa alla conoscenza di quella cosa?  E’ quello che cercheremo di capire nella prossima puntata.

FULVIO SGUERSO

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