Il paradosso dell’antifascismo senza il fascismo …

Il paradosso dell’antifascismo senza il fascismo
 a che serve e a chi fa comodo

 Il paradosso dell’antifascismo senza il fascismo
a che serve e a chi fa comodo
In una delle sue uscite più infelici il presidente emerito della repubblica ebbe a sentenziare, a proposito di fascismo e resistenza, che ogni tentativo di revisionismo sarebbe “intollerabile”. Qualcuno avrebbe dovuto ricordare al vecchio militante comunista che è proprio questo il compito dello storico: il revisionismo. Lo storico, come il filosofo, come lo scienziato, non è il custode di verità rivelate e immutabili ma un provocatore che rimescola le carte, mette in dubbio, non dà niente per acquisito, ripercorre i passi degli altri attento agli errori di percorso in cui sono incappati e alle indicazioni che li hanno messi fuori strada. Se la tradizione vuole che Caligola sia stato uno psicopatico che aveva insignito il proprio cavallo della dignità senatoria, lo storico si chiede come nasce questa tradizione, cerca documenti, testimonianze, formula delle ipotesi, arriva a conclusioni che altri metteranno in dubbio e può anche essere che alla fine della turbolenza che egli ha provocato si finirà per concludere che la tradizione aveva ragione. Ciò che non può essere falsificato non è né vera scienza né vera filosofia né vera e onesta storiografia ma è dogma e tutta la nostra civiltà, la civiltà occidentale, nasce e si sviluppa demolendo i dogmi.

Lo storico fruga nella spazzatura del passato, è un ruminante che rimastica in continuazione le notizie e ci rimugina sopra, non cerca conferme o giustificazioni per il presente, non costringe i fatti nel letto di procuste dei suoi schemi mentali, è un cercatore d’oro e non un falsario. La sua opera è meritoria quando è disinteressata, quando non è viziata da pregiudizi ma è tesa a smascherarli, quando a spingerlo sono la curiosità e l’amore per la ricerca, non, come accadeva nell’Unione sovietica e come accade anche ora dalle nostre parti, le direttive del partito o il servilismo. Lo storico non è un “intellettuale impegnato”; se lo fosse si può essere certi che il suo scopo non sarebbe la verità ma la manipolazione della verità, l’addomesticamento dei fatti. Lo storico è Lorenzo Valla che denuncia l’imbroglio della donazione di Costantino sul quale i papi pretendevano di fondare la legittimità del loro potere; l’intellettuale impegnato è il frate che quel falso testamento aveva costruito per compiacere ai suoi committenti.

Lo storico riporta in vita e rimette sulla scena i protagonisti del passato ma guarda alla loro umana miseria con occhio distaccato e bonario, ne osserva le debolezze, gli errori, le passioni senza giudicarli, non conosce torto o ragione, non parteggia ma comprende. Il suo compito non è quello di raccontare belle storie o storie edificanti ma semplicemente storie. Per questo i contemporanei sono sempre pessimi storici, più impegnati a nascondere che a rivelare; dopo di loro bisognerà strappare i veli, togliere le scorie degli interessi di parte, eliminare le distorsioni prospettiche, cercare nuovi testimoni. Tutto sine ira ac studio.


Il 25 luglio del 1943, nel corso della sua ultima seduta, il suo organo supremo decretò la fine del fascismo. La mattina successiva il Duce rimise il suo mandato nelle mani del re, che poco dopo lo fece arrestare. Sono passati da allora qualcosa come 74 anni; dai turbolenti anni seguiti alla fine della Grande guerra che ebbero il loro esito nella marcia su Roma ne sono passati quasi 100; il prossimo 28 aprile saranno 72 anni dalla morte di Mussolini, che se fosse vivo avrebbe oggi 134 anni. Di fronte a questi dati l’idea che un giudice ti possa condannare se tendi il braccio in segno di saluto o se gridi “Viva il Duce!” è raccapricciante. Si dirà: ma è la Costituzione che lo impone, facendo un torto ai costituenti che non credo intendessero attribuire a norme dichiarate transitorie una durata temporale illimitata rendendole ridicole e rendendo ridicoli essi stessi.

Il fatto è che a causa di gente come il presidente emerito il fascismo nell’immaginario collettivo non è mai morto perché l’antifascismo l’ha mantenuto in vita.

Come possano essere considerati un pericolo per la democrazia o per lo Stato liberale un fantasma del passato che si continua ostinatamente ad evocare o qualche minuscola formazione politica ispirata al programma di Sansepolcro o che fa propri parole d’ordine e simboli del ventennio è un mistero. Il regime fascista nacque dal potere personale di Mussolini e non viceversa. Senza il Duce non c’è fascismo e, se ci guardiamo d’intorno, non si vedono aspiranti dittatori né pericolosi capipopolo. Semmai si è visto un imbonitore uscito dal Pd, il partito erede del Pci, che per tre anni ne ha recitato la parte buttandola in burletta.  Una burletta che per l’Italia è stata una tragedia.

La vicenda del partito fondato da Benito Mussolini, intrecciatasi con la tragica conclusione della guerra, si concluse con l’autodistruzione. Il sapiente giocatore di scacchi sbagliò l’ultima e decisiva mossa condannando se stesso, il suo partito, la monarchia e l’Italia tutta. Ma, paradossalmente, della sua rivoluzione, la rivoluzione fascista, si è salvato tutto. L’impianto istituzionale delle Stato attuale, dalla scuola al sistema pensionistico a quello previdenziale ai colossi pubblici in ambito energetico e industriale non ha messo fra parentesi il ventennio fascista ma ne ha assunto l’eredità e ne ha rappresentato la continuazione. Semmai si può riconoscere che di quella rivoluzione si è perso il senso e lo slancio, che col passare del tempo molti nodi sono venuti al pettine e ai pescecani del regime si sono sostituiti molto più micidiali piccoli pirañas.


E allora si pone la domanda: che cosa è, che cosa è stato, tolto il potere personale del Duce, il fascismo contro il quale continua a mobilitarsi l’antifascismo? Sembrerebbe ben poca cosa, poco più che un’allusione, un mito talmente vago e sfumato da dissolversi in un’aerea inconsistenza. Di sicuro non connotano il fascismo la presenza dell’uomo forte o il prevalere del potere esecutivo, che caratterizzano regimi genericamente autoritari. Sotto questo aspetto, anche nelle movenze e nello stile oratorio, Renzi è stato la caricatura dell’uomo forte, senza, ahimè, averne né il carisma né il consenso. Quanto al parlamento, è difficile immaginare un organo legislativo più asservito al governo di quello che abbiamo avuto il dispiacere di subire in questi anni. Ma allora che cosa, in concreto e non solo in Italia viene qualificato come fascismo e come tale combattuto?

Provo ad elencare:

l’eliminazione dei partiti e delle consultazioni elettorali, il partito unico; il sindacato unico controllato dal partito; il razzismo e la xenofobia; l’intolleranza e la repressione nei confronti degli oppositori; lo squadrismo; il nazionalismo; ci metto di mio, tanto per abbondare, l’imperialismo, il colonialismo, l’autarchia.

Il partito unico. Il parlamentarismo screditato e la confluenza dei partiti nell’unico contenitore del listone alle elezioni del 1924 furono le premesse per l’affermazione del partito unico, il partito nazionale fascista, ovviamente incompatibile con la concezione dello Stato e della democrazia liberali. Elezioni come quelle del 1929 in cui l’elettore doveva scegliere se votare sì, approvando la lista unica già compilata, o no, respingendola, sono indubbiamente una farsa, non dissimile però da quella che nell’Urss a Paolo Robotti, il cognato di Togliatti, pareva il paradigma della democrazia. Se quel tipo di suffragio caratterizza il fascismo anche quello sovietico era un regime fascista? Chiediamolo ai nipotini di Gramsci. Gli elettori, ohibò, non potevano scegliere i loro rappresentanti. Ma perché oggi, in Italia, lo possono fare? Però, si può obiettare, nell’Italia del ventennio, come in tutta la storia dell’Urss, la lista era una sola, mentre da noi oggi, deo gratias, di liste ce ne sono tante quanti sono i partiti. Quindi il problema non è la lista ma la pluralità dei partiti, proprio come nell’Unione sovietica. Ma da noi i comunisti venivano arrestati, il Pc d’Italia era stato dichiarato fuori legge: questo è il fascismo, dicono i compagni.  Bene allora anche gli Stati Uniti, nello stesso periodo, erano un Paese fascista perché dal 1918 i comunisti americani erano costretti alla clandestinità e nel 1954 con un voto del Congresso il partito comunista venne formalmente messo fuori legge.  E se fascismo significa mettere fuori legge un partito sgradito, i comunisti nostrani erano fascisti quando negli anni Cinquanta e Sessanta chiedevano che il Msi fosse messo fuori legge.

 Il principio del partito unico, il partito della Nazione, è incompatibile con la democrazia ed è sicuramente condannabile ma è terribilmente simile a quanto sta accadendo ora nel nostro Paese , con telegiornali e carta stampata che trasmettono l’idea che le vicende interne al Pd esauriscono la dialettica democratica, che la democrazia coincide con l’eredità dei comitati di liberazione nazionale raccolta dal partito democratico, ultima trasformazione del Pci, che fuori del Pd e delle sue propaggini ci sono solo formazioni estranee alla democrazia, populismo e, naturalmente, fascismo. La differenza sostanziale fra il partito unico del ventennio, il PNF, e il partito unico di fatto, in attesa di esserlo di diritto, chiamiamolo PND, partito nazionale democratico (già comunista), è che il primo godeva di un consenso plebiscitario, il secondo può contare su un’opposizione altrettanto plebiscitaria e su un consenso che non supera il 10% dei potenziali elettori. Non stupisce che i compagni fremano perché venga approvato al più presto lo ius soli, da cui si aspettano da subito un milioncino di voti.

Il sindacato e i diritti dei lavoratori. Calpestare i diritti dei lavoratori, attentare al diritto di sciopero e alle libertà sindacali: questo è fascismo. Notoriamente nella patria del socialismo il sindacato, unico ovviamente, era espressione diretta dei lavoratori. Ma non c’è bisogno di scomodare l’Unione sovietica. Anche nell’Italia repubblicana il sindacato era originariamente uno e comunista e anche dopo che le correnti socialdemocratica repubblicana e democristiana imboccarono la loro strada l’egemonia della Cgil è rimasta incontrastata. E quanto beneficio ne hanno tratto i lavoratori italiani lo dimostrano il loro tenore di vita, la forbice retributiva e il tasso di disoccupazione.

Razzismo e fascismo, un binomio indissolubile per molti compagni e non solo. L’esempio classico di razzismo in Occidente l’hanno però offerto inglesi e francesi. Dello spirito multietnico inglese ne sanno qualcosa in India e in Sudafrica dove il frustino traduceva in pratica la superiorità dell’uomo bianco, col fondamento scientifico fornitogli da Galton in concorrenza col francese Gobineau, che assai prima di Hitler e in maniera molto più esplicita teorizzava l’esistenza di una presunta “razza ariana” dominatrice. Ma se questo è un passato troppo remoto l’idea americana del WASP (White-AngloSaxon-Protestant) contrapposta non solo a indiani, neri, ispanici ma anche a irlandesi, polacchi e italiani, non ha qualcosa di xenofobo o razzista? E che dire delle scimmie gialle del cinema holliwoodiano dalla guerra di Corea al Vietnam? In questo quadro gli italiani, id est i fascisti, con “faccetta nera” sono una nota stonata.

Sull’intolleranza è istruttivo il comportamento degli inglesi verso gli irlandesi, in casa degli irlandesi, beninteso. E, se non basta, si potrebbe riflettere sul trattamento riservato ai cattolici, fino a tempi recenti esclusi, fra l’altro dall’insegnamento. Sull’altra sponda dell’Atlantico gli anarchici Sacco e Vanzetti prima e i Rosenberg dopo avrebbero qualcosa da dire sul modo in cui venivano trattati i sovversivi veri o presunti. E se in Italia, durante la guerra, inglesi e americani venivano espulsi, negli States gli italiani, come i giapponesi, venivano deportati e rinchiusi in campi di concentramento. È fascismo anche questo?

Certo, rimane la macchia delle leggi “a difesa della razza” varate nel novembre del1938 che discriminavano i cittadini di religione ebraica. Ma nulla hanno a che fare col partito fascista né col programma politico di Mussolini, la cui amante ufficiale nonché biografa era per l’appunto ebrea, come ebrei erano molti protagonisti del regime fino dalla marcia su Roma. Quelle leggi, la cui responsabilità va spartita in parti uguali fra il Duce e il re che le promulgò, furono la conseguenza di due fattori convergenti: l’atteggiamento ostile verso il regime da partedelle lobbies ebraiche internazionali e la pressione esercitata dall’alleato germanico. E bisogna pur dire che furono favorite dal silenzio complice non solo dell’opinione pubblica italiana, della quale si potrebbe dire che non aveva voce, ma dei comunisti e dei fuorusciti tutti, pendenti dalle labbra di Stalin che dal canto suo anticipava il Führer nel dare la caccia all’ebreo, e dalla chiesa che non fece una piega. Ma non si dimentichi che, mentre nella Francia da loro occupata i tedeschi li rastrellavano col sostegno della polizia francese, gli ebrei trovavano rifugio e protezione nella zona controllata dalle autorità italiane, cioè fasciste. L’antisemitismo è stato per secoli una vergogna dell’Europa, una vergogna che non ha risparmiato l’Italia, e in particolare Roma, ma attribuirlo al fascismo è semplicemente un falso storico.

  

Si identifica spesso il fascismo con la violenza politica e lo squadrismo. La base storica di questo giudizio è rappresentata ovviamente dai fatti accaduti negli anni che precedono e seguono immediatamente l’ottobre del 1922, culminanti con l’assassinio di Matteotti. Ma il partito, che pure aveva pesanti responsabilità nelle violenze che avevano insanguinato il Paese, non sminuite da quelle di anarchici e socialisti, si presentava come restauratore dell’ordine, invocato dalla grande maggioranza del popolo italiano. Il consenso plebiscitario ottenuto dal Duce non ha avuto bisogno di violenze, e, d’altronde, il consenso non si ottiene mai con la violenza o con un regime di polizia.

Una lezione, questa, che il Pci prima e il Pd dopo non sono riusciti a imparare. Per mettere a tacere gli avversari e chiunque tenti di dar voce al Paese reale i compagni scatenano non solo i media, pressoché tutti sotto il loro controllo, ma ricorrono sistematicamente alle squadracce, non improvvisate come quelle di un secolo fa, ma organizzate in modo permanente e pronte all’ordine del partito, il Pd, ovviamente. Si guardano con la lente di ingrandimento lavoratori che vedono minacciata la loro attività e manifestano senza le bandiere della Cgil e se si riesce a intravedere un tirapugni nelle mani di uno di loro la democrazia è in pericolo mentre si lasciano indisturbati antagonisti, casseurs, militanti dei centri sociali, vecchia emanazione della Fgci, che massacrano poliziotti, spaccano vetrine, rapinano bancomat e puntualmente impediscono o cercano di impedire che le opposizioni si facciano sentire. Hanno cominciato impegnandosi a non far parlare i fascisti; ora nemmeno i leghisti possono parlare e le professioni di fede partigiana dei seguaci di Bossi non sono servite a nulla; domani toccherà anche ai Cinque stelle. A questo serve l’antifascismo militante.

Forse per fascismo si intende il nazionalismo, il senso di appartenenza, la Patria. Sicuramente il Pd e la sinistra, sono ferocemente ostili alla nazione, alla Patria, all’Italia. L’hanno ampiamente dimostrato quando nelle feste dell’Unità esaltavano l’armata rossa, l’eroico popolo sovietico – non russo – quando l’Unità usciva listata a lutto per la morte del piccolo padre, il compagno Stalin, quando tessevano una rete di spionaggio a favore dell’Urss e organizzavano quinte colonne in previsione di un attacco militare da est  delle forze del patto di Varsavia, quando avrebbero voluto consegnare alla Iugoslavia non solo Trieste e la Venezia giulia ma anche Udine e il Friuli. Lo dimostrano ora col loro europeismo ventotetano, col loro sostegno ai no borders, con l’affare sporco dell’invasione incoraggiata e sfruttata.


Ma se il nazionalismo, il senso di appartenenza, la Patria sono espressione del fascismo tutta l’Europa è fascista tranne l’Italia. I governi spagnolo, francese, tedesco, per non dire del bieco Orbán, perseguono pervicacemente l’interesse dei loro Paesi, cercano di interpretare e soddisfare i bisogni dei loro popoli, chiudono le frontiere, respingono gli ospiti indesiderati. Tutti fascisti?

Ma allora contro cosa combattono le vestali della resistenza, gli antifascisti in servizio permanente? Avevo aggiunto l’imperialismo, il colonialismo, l’autarchia, non perché creda davvero che si tratti di caratteristiche proprie del fascismo ma perché so che scattano nel pensiero debole dei compagni dei riflessi condizionati che le associano ad una presunta cultura fascista. L’imperialismo definisce la politica britannica dal diciottesimo secolo alla seconda guerra mondiale, quando la Gran Bretagna è costretta a consegnare lo scettro agli Stati Uniti.  Fra Ottocento e Novecento tutti i Paesi europei sgomitano per farsi spazio, compresa l’Italia. Mussolini non fece altro che proseguire con maggiore energia la politica dei suoi predecessori, dai quali, fra l’altro, aveva ereditato le patate bollenti della Libia e del corno d’Africa. I compagni dileggiano il colonialismo italiano come “fuori tempo”, quando i francesi si sono ostinati a tenere in pugno l’Algeria fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. Semmai andrebbe detto che il colonialismo italiano fu meno feroce di quello belga, inglese o francese ed ebbe un carattere più “popolare” (“la grande proletaria si è mossa”, dichiarava solennemente Giovanni Pascoli, che non era certo un protofascista, nel novembre 1911). Rimangono l’autarchia e il protezionismo, la prima congiunturale, e salutare: basta pensare alle fibre di vetro o al risparmio energetico; il secondo teso in certi momenti storici a proteggere gli interessi nazionali e praticato da tutti i Paesi indipendentemente dai regimi politici.

E allora, di nuovo: qual è l’obiettivo dell’antifascismo? Qualche canzonetta? Il saluto romano? O cos’altro? O non sarà un pretesto per impedire che si formi un’opposizione vera, non di comodo, non addomesticabile, che non sia interna al sistema ma rappresenti la minaccia di mandarlo in frantumi?

Un’altra storia

Si dirà: ma lo stragismo nero negli anni Settanta? E gli opposti estremismi? Pongo una domanda semplice semplice, dopo aver premesso che, per avere un senso, le azioni devono avere uno scopo. Qual era, e qual è, lo scopo perseguito dalle brigate rosse prima o dai gruppi antagonisti e dai centri sociali dopo? Sul loro rapporto con la sinistra parlamentare non ci sono dubbi; semmai si può decidere se si tratti di compagni un po’ irrequieti, “compagni che sbagliano” o, più verosimilmente, del braccio armato del partito. Che con la versione militare e clandestina abbiano favorito l’ascesa al potere della sinistra è un fatto come è un fatto che in quella piazzaiola, con o senza cappuccio, si adoperino in tutti i modi per farcela restare. Lo scopo della violenza rossa era quello di portare al governo il Pci e di far fuori chi si opponeva a questo progetto. Ma qual era lo scopo della violenza nera? La presa del potere del Msi? Viene da ridere solo a pensarlo. Restaurare quel fascismo che si era volatilizzato trent’anni prima? Resuscitare il Duce? Sciocchezze. In realtà i nuovi camerati non si muovevano nelle ombre del passato, non evocavano fantasmi in gara con i sacerdoti dell’antifascismo; agivano nel presente per il presente e il loro scopo era simmetrico rispetto a quello del terrorismo rosso: impedire la sovietizzazione dell’Italia, tenere il Pci alla larga dalla stanza dei bottoni. E non mi stupirei, né mi scandalizzerei, se per ottenere questo risultato godessero di qualche copertura e di qualche sostegno anche oltre Atlantico. Dove, purtroppo, implosa l’Unione sovietica, qualcuno si è accorto che i compagni, alla ricerca di un altro Stato guida, potevano essere i migliori alleati per cloroformizzare l’Italia.

  Pier Franco Lisorini

Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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