Il mulino

Il mulino

Il mulino ha accompagnato la vita dell’uomo, forse da sempre. Da quando era solo una pietra azionata dalle braccia e macinava grossolanamente semi da far cuocere, ad oggi, strumento tecnologico sopraffino. Ma non solo: il mulino è simbolo, emblema, è macchina per antonomasia, visto che la stessa parola deriva proprio da macina, quella azionata per ottenere la farina…

Il mulino

 

 Il mulino ha accompagnato la vita dell’uomo, forse da sempre. Da quando era solo una pietra azionata dalle braccia e macinava grossolanamente semi da far cuocere, ad oggi, strumento tecnologico sopraffino. Ma non solo: il mulino è simbolo, emblema, è macchina per antonomasia, visto che la stessa parola deriva proprio da macina, quella azionata per ottenere la farina.

Nonostante questo marchingegno sia tanto complesso, risulta però comprensibile, forse addirittura costruibile con le cose che ci troviamo attorno: pietra, legna, corde, forza motrice (sia acqua, muli, vento, vapore o energia elettrica).


È talmente radicato che si presta perfettamente per formare delle metafore: “Mangiare a quattro palmenti” o “Pesante come una macina”. O per i detti popolari: “Chi va al mulino s’infarina”, “Acqua passata non macina più”.

Il mugnaio stesso appare oggi quasi come un personaggio delle fiabe. Si tratta, in effetti, di uno di quei tipi noti da sempre, come a dire il pescatore, il vasaio, il fornaio, il vetraio. Tutti mestieri antichi come l’uomo, appunto, eppure attuali.

Concludiamo questi cenni con la citazione di un testo che gli appassionati di Storia dovrebbero tener caro sulla loro scansia più accessibile: “Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500” di Carlo Ginzburg, Einaudi, 1976. Si tratta della contestualizzazione delle carte di un processo per eresia a carico di un mugnaio friulano, Menocchio, e della sua personale visione dell’universo.

Non poteva mancare la pubblicità, evidente e pedante invenzione di questi ultimi decenni, soprattutto nella versione televisiva, tanto pervasiva e semplificante.


Negli anni Novanta aveva ottenuto grande successo uno spot legato ad una famigliola numerosa e felice, residente in un antico mulino. Lo slogan arcinoto recitava: “…Quando i mulini erano bianchi…”. Se non ricordo male vi era una serie di diversi episodi, brevissimi (il tempo di uno spot) in cui si cantavano le lodi della vita agreste, semplice e serena. Il padre era uno scrittore impegnato alla macchina per scrivere. La mamma, ancorché appena pubere, era casalinga dedita e madre di due bimbi bellissimi, bravissimi, affamatissimi. Vivevano nel vecchio mulino anche i nonni, mi pare. Quantomeno il nonno, impegnato a riparare una vecchia moto. Resta da chiarire chi attendesse al duro lavoro della macina… Ma non si può pretendere troppo dalla pubblicità. In ogni caso la madre, dea di giovinezza e bellezza, era la regina dell’azione, con la sua vita, il suo lavoro, il suo sacrificio, il resto della famiglia viveva. Tutti intorno alla tavola della prima colazione (dalla luce diffusa si direbbe non prima delle dieci del mattino) si godevano biscottini e merendine della nota ditta. Tutti sorridevano, mangiavano e poi partivano per la scuola e per il lavoro (a quell’ora?! Mah…).

Sono passati anni. Le note gallette imperversano sempre dagli scaffali dei supermercati. Sono, in effetti, buonissime, sia detto per correttezza. Il mulino è cambiato. Si trova ora in una vasta pianura perennemente coltivata a grano. Le immagini mostrano talvolta una enorme macina che gira. Già qui ci sarebbe da ridire: la macina che viene mostrata può macinare olive, calce, forse altri semi, ma non è una macina da cereali. La macinazione del grano avviene fra due mole parallele, una fissa e una rotante. Ma non possiamo pretendere che un regista televisivo si documenti su come è fatto un mulino. C’è un altro mistero: nello stesso edificio del mulino c’è il forno. Parrebbe, e dico parrebbe, che il prodotto del mulino sia prontamente impastato e cotto, a produrre i noti biscotti o certe pagnotte di pane in cassetta, che però ha nomi fantasiosi e affascinanti. Non si capisce tutta questa fretta nel produrre, per poi far circolare per mesi questi prodotti tra magazzini e scaffali… Ma anche qui, sorvoliamo. Ho lasciato per ultimo il protagonista dello spot: il noto Banderas, sul cui fascino, naturalmente, non ho proprio niente da dire. Parla abitualmente con una gallina che egli chiama “Rosita”, se la porta sul tetto a guardar le stelle, le spiega le ricette, la consola quando viene abbandonata dal galletto… Una storiella simpatica, leggera, che si presta a porgere un messaggio rassicurante tipico della pubblicità.


 

Cosa è cambiato da quegli anni Novanta? Da quella famiglia felice (sia pure per antonomasia)? Se è vero che la pubblicità è attentamente costruita per centrare un target di riferimento, se è vero che si spendono cifre considerevoli per realizzarla, val la pena chiedersi ad esempio come mai nella vecchia edizione la protagonista era una misconosciuta casalinga, regina della casa, e ora è il bell’Antonio.

Nella prima versione il target era la madre di famiglia. Qualsiasi madre di famiglia doveva aspirare e sperare di avere una famiglia così, un marito così, figli così, un fisico e un sorriso così, anche a settant’anni. E doveva identificarsi con quell’immagine, con quell’idolo. Per avviare il processo di identificazione e realizzazione avrebbe dovuto cominciare a comprare quei biscotti: lo avrebbe fatto innanzi tutto per il bene della sua vasta e giovane famiglia, identificando la loro felicità (estetica) con la sua personale realizzazione.

Il centro del target non è cambiato, oggi. Ma le nuove mamme devono essere blandite da un testimonial affascinante. È ora lui che (apparentemente) coltiva, macina e produce pane e biscotti. È un semidio che vive in questo eterno crepuscolo estivo non violento, sereno, vegetariano, naturale, rassicurante. È lui che sorride sornione alla gallina, la incoraggia e la convince. Non c’è più processo identificativo (a meno che una donna ambisca a identificarsi nella gallina di Banderas, e può essere che succeda…) non c’è nessun atto volontario a favore della famiglia.

La conclusione che traggo è amara: la condizione della donna è peggiorata. Mentre fino a pochi anni fa compiva un atto atavico (dava da mangiare alla famiglia) sia pure in modo perverso (e cioè ammannendo dolciumi industriali) era però soggetto dell’azione. Ora è utente passivo. Non compare in nessun caso, se non come gallina, bestia da allevamento in batteria, che, in virtù della bontà del bell’Antonio, si trova a disquisire col protagonista, sia pur sempre da volatile.

Non ha un senso: non è madre, moglie, nuora o figlia. È individuo: “Io valgo” recita un altro famoso slogan, abusando del pronome.


Si calmino gli animi femministi: non ho mai detto che il posto della donna sia in casa o ai fornelli o altre scempiaggini del genere. Non c’è bisogno di riassumere tutto quel che è già stato detto sulle capacità femminili. La questione è che la donna, in questo spot, è proprio sparita, scomparsa, non c’è per nessun verso, ovvero c’è come consumatrice, come fosse un uomo negli anni Settanta, che guatava allupato i calendari dei meccanici o dei barbieri.

Non ci sono contromisure. La massa continuerà a comprare i noti biscotti, a guardare con cupidigia il bell’Antonio, oppure, su fronte opposto, la bellona di turno. Noi uomini abbiamo però una protezione in più: continuiamo ad avere pochissime responsabilità. La spesa la fanno le donne, noi, tutt’al più, spingiamo il carrello con aria contrita e proponiamo acquisti inutili e insalubri che ci fanno guadagnare dalle nostre donne uno sguardo di commiserazione.

Credo che il processo di emancipazione dell’essere umano (di qualsiasi orientamento sessuale sia) debba passare per la consapevolezza. In primo luogo del cibo, di cos’è, di come è fatto, da dove proviene. E in secondo luogo del senso critico: perché un messaggio è porto in una certa maniera.

Non è quindi  per puntiglio che mi soffermo sulla macina mostrata nello spot di Banderas: poche persone sanno ormai come è fatta una macina, poche persone sanno da dove viene il grano (si guardassero intorno: vedono campi di grano? No? Però i negozi sono pieni di prodotti a base di grano…), ancora meno hanno idea di come si alleva una gallina, un maiale, una vacca. E infine mi piace ripetere un pensiero già visto e letto molte volte: “Quando i mulini erano bianchi…”, ebbene, caro regista o autore di spot, ricordati che i mulini, bianchi, non lo sono stati mai, così pieni di ragnatele, polvere e topi. Ma forse meglio di certi mulini attuali pieni di antimicotici, anticrittogamici e insetticidi…

ALESSANDRO MARENCO

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