Il mito del lavoro

 Il mito del lavoro

Il mito del lavoro

 In questi giorni c’è l’ennesima grancassa sul lavoro che manca, i disoccupati e i precari ai massimi storici, gli appelli da varie sedi istituzionali, sindacali e confindustriali a “creare le premesse per nuovi posti di lavoro, per la crescita, per il rilancio dei consumi”.

Parole, vuote di significato. Gli unici a non unirsi a questo vacuo coro sono i dirigenti del M5S, con una proposta ripescata dal ’68: 30 ore settimanali per tutti. Cioè, “lavoriamo meno, lavoriamo tutti”. Col corollario di una decrescita felice, ottenuta attraverso una vita più sobria e risparmiosa: quella che i movimenti ecologisti predicano, appunto, dal ’68.

 Questa proposta di ridurre le ore lavorative prende atto del fatto che i profitti conseguiti dalle grandi imprese attraverso la meccanizzazione, l’automazione e l’informatizzazione, che hanno come fine primo la progressiva riduzione del personale umano, non sono stati distribuiti tra i lavoratori, facendone altrettanti consumatori, ma sono stati trattenuti da chi di tali aziende occupa i vertici o ne è azionista. La “manodopera” costa sempre di più, vuoi per più o meno giuste rivendicazioni sindacali, vuoi per il crescente gravame di tasse e contributi, giunti a livelli ormai insostenibili. Il tutto, mentre si aprono i confini e si permette la selvaggia importazione di merci da Paesi schiavisti e senza coscienza ambientale, nonché il flusso inverso di competenze, maestranze e “cervelli” oltre le ex-frontiere.

Si tratta ormai di una matassa aggrovigliata al punto che nessuno sembra sapere da dove cominciare. Chi vive ai limiti di sussistenza, o anche sotto, non è, né può essere, un consumatore. E questa fascia di indigenti non fa che aumentare. Se si contraggono i consumi, e gli impianti esistenti sono già esuberanti e sotto-utilizzati, come si può pensare che le aziende investano e assumano? Si sentono proporre incentivi fiscali a chi assume giovani precari. Ma assumerli per fare che cosa? Per produrre merci invendute? Per far crescere ancor più il numero di aziende che chiudono o falliscono?

Si propone anche, in stile keynesiano, di far intervenire la mano pubblica a creare lavoro. Ma ancora una volta, per fare cosa? Il ponte sullo stretto o la TAV? Così accrescendo ancor più il debito pubblico? In alternativa, si propone il reddito di cittadinanza. Ottima cosa, per attenuare lo sfaldamento sociale. Ma, di nuovo, con quali soldi?

 
Lo iato tra Stato e privato sta mostrando tutte le sue contraddizioni; col privato che tende a tagliare posti di lavoro e lo Stato che cerca di supplirvi assumendo pletore di impiegati fini a se stessi. La Regione Sicilia ne è il simbolo più vistoso.

Per creare lavoro ai giovani non resterebbe, in via emergenziale, che toglierlo ad una classe che al lavoro ha avuto accesso da poco più di mezzo secolo: le donne. Naturalmente, questo è impraticabile, visto che le odierne costituzioni sanciscono la parità tra i sessi.

Altra soluzione: togliere lavoro alle macchine e ridarlo alle persone. Questo comporterebbe una maggior fatica, fisica e mentale. E sarebbe bocciato da qualsiasi sindacato.
Il fatto è che della modernità si vogliono tenere solo i vantaggi, dimenticando che tutto ha un prezzo. E il prezzo dei nostri agi, delle nostre comodità, dei nostri mancati risparmi in termini di consumi, è proprio quello che si cerca di creare: il lavoro umano.

Quand’ero adolescente, lavoravo d’estate nella piccola fabbrica di mio nonno, che produceva “sospensioni per lampadari”, in pratica catene. Il ciclo lavorativo era in buona parte manuale: il mio compito era inanellare le singole maglie a formare la catena finale. A fine anni ’50 un concorrente cominciò a fare l’intero ciclo a macchina, con un notevole abbassamento di costi, quindi di tagli del personale. Mio nonno non resse a lungo questa concorrenza e fu posto davanti alla scelta: chiudere o automatizzarsi. Per sopravvivere, scelse la seconda opzione. Con il conseguente licenziamento di alcuni operai. Creò così, già nel suo piccolo, disoccupazione.

Lo stesso è avvenuto in migliaia di attività, agricole e artigianali, scivolate nell’illusione dell’industria: i laboratori divennero fabbriche, i campi distese di monocolture chimicizzate e meccanizzate. L’abilità e la resistenza fisica erano diventate obsolete, mentre ex contadini, in Italia e altrove, lasciavano le loro terre per ammassarsi in grigie periferie e farsi inghiottire dieci ore al giorno in squallidi capannoni industriali. Questo movimento fu battezzato come progresso; e quello inverso regresso.

Ora il ritorno nei campi e in piccole attività artigiane richiede sforzi, anche culturali, notevoli. E si deve cominciare tutto daccapo, perché le competenze sono andate perse con la graduale sparizione di chi deteneva le tecniche e avrebbe potuto tramandarle ai giovani d’oggi. Così, di colpo, il medio evo sembra essere quello che stiamo vivendo, mentre il connotato negativo che si usa dare al termine dovrebbe valere per la breve stagione delle illusioni, crollate nel giro di un quinquennio. Coi vecchi che percepiscono una pensione,  spesso da fame, ma non hanno nulla da tramandare per la sopravvivenza di coloro che col loro lavoro dovrebbero pagargliela. Perché il lavoro è stato di fatto distrutto, nel passaggio da dovere morale a diritto sociale.

Prevedo una traumatica transizione ad un sistema in cui lo Stato sarà costretto a creare moneta, invece che lavoro pubblico, ripudiando il debito stoltamente accumulato verso banche e fondi stranieri. In tal modo comincerà col pagare quanto deve alle imprese che gli hanno fornito beni e servizi, ridando linfa vitale al circuito produttivo e sfatando la leggenda diffusa ad arte che “non ci sono soldi”: uno Stato degno del nome i soldi li fabbrica, senza dir grazie a nessuno. Unici limiti la spesa oculata e il bilancio commerciale con l’estero in pareggio o avanzo. Senza impicci di UE, BCE, FMI e altre compagini parassitarie internazionali al soldo dei grandi banchieri. Uscire da quei cappi al collo, ma in fretta, prima che l’Italia si sfasci del tutto.

 

Marco Giacinto Pellifroni                            3 marzo 2013

 

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