Il mestiere di poeta

IL MESTIERE DI POETA

        Così Cesare Pavese intitolava la sua introduzione a

Lavorare stanca

IL MESTIERE DI POETA

 Così Cesare Pavese intitolava la sua introduzione a Lavorare stanca, (1936, Firenze, edizioni di Solaria), una raccolta di poesie scritte tra il 1930 e il 1934, quindi tra i suoi ventidue e ventisei anni, a significare come, per lui, scrivere poesie fosse il suo vero mestiere, l’ attività a cui dava tutto se stesso negli  anni della sua giovinezza: “La composizione della raccolta è durata tre anni. Tre anni di giovinezza e di scoperte, durante i quali è naturale che la mia idea della poesia e insieme le mie capacità intuitive si sian venute approfondendo.


 E anche ora, benché questa profondità e quel rigore siano molto scaduti ai miei occhi, non credo che tutta, assolutamente tutta, la mia vita si sia appuntata per tre anni  nel vuoto…”. Eppure qualcuno può ritenere  proprio che dare il meglio di sé per tre anni alla poesia invece che ad altre attività più remunerative e utili alla società sia una perdita di tempo. A che cosa servono la poesia e i poeti? E, già che ci siamo, a che cosa serve l’arte in generale? E la filosofia serve a qualcosa oltre a costruire castelli in aria e a sballare le menti impressionabili dei giovani (e di qualche anziano pensionato che non sa come meglio impiegare il poco tempo che gli rimane)? Ma procediamo con ordine: è vero che, come già sapeva il poeta latino Orazio, Carmina non dant panem, tuttavia è anche vero che la musica e il canto, quindi la poesia, esistono fin dalle più antiche civiltà e anche prima: per Giambattista Vico, il primo linguaggio umano è un linguaggio  poetico, essendo quegli uomini primitivi  come dei fanciulli, in quanto davano senso e passione alle cose inanimate “ed è proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate tra le mani e, trastullandosi, favellarvi, come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologica-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti”.


 Anche  secondo Giovanni Pascoli i fanciulli sono naturalmente poeti, come poeticamente racconta nella prosa intitolata Il fanciullino (la cui lettura consiglio ai cosiddetti “uomini del fare” che disdegnano il perdere tempo prezioso dietro alle farfalle e alle visioni poetiche del mondo).  Di qui una  domanda fondamentale da porre a chi considera la poesia e le arti in generale come qualcosa magari di piacevole, per carità, ma di cui si potrebbe benissimo fare a meno a tutto vantaggio del lavoro produttivo di beni necessari alla vita di tutti e di ciascuno: secondo voi, che mondo sarebbe mai un mondo senza l’incanto  dell’infanzia e senza il canto dei poeti? Che mondo sarebbe un mondo senza l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, la Divina Commedia, L’Orlando furioso, la Gerusalemme liberata, i Canti del Leopardi, le Odi barbare del Carducci, le Myricae e i Canti di Castelvecchio del Pascoli, l’Alcyone del D’Annunzio, gli Ossi di seppia, le Occasioni e la Bufera di Montale…? Che mondo sarebbe senza la musica di Bach, di Haydn, di Mozart, di Beethoven, di Verdi, di Puccini…? Che mondo sarebbe senza Giotto, Brunelleschi, Masaccio, Donatello, Michelangelo, Raffaello, Leonardo, Bernini, Caravaggio, Van Gogh, Cézanne, De Chirico, De Pisis…? Tutti artisti la cui mancata nascita avrebbe impoverito il mondo che, invece, hanno arricchito con opere di inestimabile valore. Già, valore per chi (oltre che per il mercato dell’arte)?

Ma per chi ne sa apprezzare i valori plastici, formali, espressivi, in una parola: poetici. Conosco l’obiezione comune: non tutti sono in grado di apprezzare la poesia dei bronzi di Riace o del Marco Aurelio a cavallo al centro della Piazza del Campidoglio disegnata da Michelangelo o l’Estasi di Santa Teresa scolpita da Gian Lorenzo Bernini; cioè non tutti hanno studiato storia dell’arte o filologia classica. Vero, questo non toglie che le opere d’arte esistano concretamente e che si distinguano da tutte le altre cose per la loro finalità non utilitaristica ma estetica (quando non religiosa). A questo punto il discorso volge al filosofico, ahimè; e il discorso filosofico ha come sua caratteristica di essere un discorso sopra gli altri discorsi, cioè, con termine più tecnico, un metadiscorso, vale a dire che adopera il linguaggio per dire che cosa è il linguaggio, o che cosa è il bello o il brutto e, naturalmente, il cattivo. In altri termini il filosofo indaga sui significati delle parole usate normalmente dai parlanti o dagli scriventi in una determinata lingua e sulle idee che queste parole presuppongono o suggeriscono. Tra queste parole alcune sono più indagate di altre, per esempio: bene, male, conoscenza, verità, saggezza, vita, essenza, esistenza, materia, spirito, persona, mondo, libertà, giustizia, necessità, ragione, realtà, atto, potenza, essere, divenire, causa, effetto, fine, piacere, dolore, felicità, morte…

E già questo breve elenco dovrebbe smentire l’opinione, o meglio, il preconcetto  corrente che la filosofia riguardi solo quei perditempo dei filosofi di mestiere (appunto) o accademici e non tutti i comuni mortali. E tuttavia una distinzione va fatta: come giustamente osserva il critico (cinematografico) di Trucioli Savonesi, Biagio Giordano, in un suo breve commento all’articolo di Silvio Rossi indirizzato al sottoscritto, “Una risposta al Poeta”, uscito domenica scorsa su questa rivista “Un conto è conoscere quanto è stato prodotto nel campo della poesia, della filosofia etc. che presuppone organizzazioni anche scolastiche e accademiche, un altro è esercitare l’arte del poetare, del filosofare, del pensare che mi sembra che tutti gli esseri umani, di fatto intelligenti per natura e sensibili alla meditazione per esperienze esistenziali intense, possano esercitare, magari con linguaggi diversi”. E’ vero che ogni essere umano (ogni “animale parlante e politico”, direbbe Aristotele), essendo dotato di intelletto, oltre che di sensibilità e di sentimenti, non può non porsi domande, ad esempio, sul dolore e sulla morte, dal momento che nessuno può sfuggire all’uno e all’altra, e, nel momento in cui si pone le domande, che sono le stesse che si pongono i filosofi, diciamo così, di mestiere, è anch’egli filosofo; la differenza, tuttavia si ha nelle risposte: se le risposte sono di tipo mitologico-religiose non si può parlare propriamente di filosofia; se invece le risposte consistono nel porre altre domande e nell’indagare sul significato delle risposte mitologico-religiose, allora si fa filosofia, che, come è noto, è parola greca composta da philìa e sophìa, amicizia (o amore) e sapienza; quindi se il filosofo è amico (o amante) della sapienza significa che non è sapiente ma tende alla sapienza di cui è innamorato, se fosse già sapiente non avrebbe più niente da chiedere.

 Fulvio Sguerso

 

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