Il manifesto degli intellettuali fascisti

Il manifesto
degli intellettuali fascisti

Il manifesto degli intellettuali fascisti

 Questo Manifesto, redatto da Giovanni Gentile e pubblicato il 21 aprile (data simbolica del “Natale di Roma”, solennità istituita l’anno prima) del 1925 su “il Popolo d’Italia” e sugli altri quotidiani, dopo il congresso a Bologna degli intellettuali fascisti, è un documento prezioso e ineludibile – insieme alla voce “Fascismo” dell’Encilopedia italiana – per la comprensione dell’ideologia fascista iuxta propria principia, dell’immagine  ideale che il fascismo intendeva dare di se stesso, della sua concezione dell’uomo  e dei miti su cui farà leva la propagenda di regime, nel momento in cui il Partito Nazionale Fascista, superata la crisi seguita al delitto Matteotti e dopo il il discorso del 3 gennaio in cui Mussolini si assumeva la piena “responsabilità politica, morale e storica” di quanto era accaduto, e stavano per essere varate le “leggi fascistissime” che avrebbero trasformato il fascismo da movimento a regime dittatoriale. Val quindi la pena leggerlo attentamente e in controluce, anche come modello retorico illustre di interpretazione strumentale  a fini politci ed apologetici della Historia rerum gestarum.


 Anzitutto il Gentile dà la sua definizione del fascismo: “è un  movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia dalla Nazione italiana, ma non privo di significato ed interesse per tutte le altre”.

E’ qui evidente l’intenzione di idealizzare e quasi ipostatizzare il fascismo quale  carattere originario e perenne dello “spirito” nazionale italiano, dando per scontato quello che sarebbe da dimostrare, cioè l’esistenza di uno spirito comune degli italiani, così come di una loro coscienza identitaria nazionale, e in più sottintendendo l’esistenza di una sorta di predestinazione, o missione storica che finalmente ha trovato il modo di avverarsi. “Le sue origini prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e risoluti a combattere energicamente la politica demosocialista allora imperante”.

Per la verità, nel programma-manifesto dei Fasci italiani di combattimento, fondati da Mussolini nel 1919, nella sede del circolo degli industriali, in piazza San Sepolcro, a Milano, erano enunciati, accanto a  rivendicazioni patriottico-nazionaliste, anche obiettivi  tipicamente “demosocialisti” come il suffragio universale e il voto e l’eleggibilità delle donne con rappresentanza proporzionale, l’abolizione del Senato, la convocazione di un’Assenblea Nazionale costituente, la giornata di otto ore lavorative, l’imposta straordinaria  e progressiva su tutte le ricchezze, addirittura il sequestro dell’85% dei profitti di guerra e  la confisca dei beni ecclesiastici…


Di questi obiettivi rivoluzionari si sono perse le tracce, e non senza motivo, nel Manifesto  del 1925, che così prosegue: “La quale (politica demosocialista), della grande guerra da cui il popolo italiano era uscito vittorioso ma spossato,  vedeva soltanto le immediate conseguenze materiali e  lasciava disperdere, se non lo negava apertamente, il valore morale rappresentandola agli italiani da un punto di vista grettamente individualistico ed utilitaristico come somma di sacrifici, di cui ognuno per parte sua doveva essere compensato in proporzione del danno sofferto, donde una presuntuosa e minacciosa contrapposizione dei privati alla Stato, un disconoscimento della sua autorità, un abbassamento del prestigio del Re e dell’Esercito, simboli della Nazione soprastanti agli individui ed alle categorie particolari dei cittadini, ed un disfrenarsi delle passioni e degli istinti, fomento di disgregazione sociale, di degenerazione morale, di egoistico e di incosciente spirito di rivolta ad ogni legge e disciplina”. Sono ravvisabili qui alcuni tratti distintivi dell’ideologia di destra in generale e della destra fascista in particolare: la guerra come “lavacro di sangue” (D’Annunzio) e “sola igiene del mondo” (F. T. Marinetti); l’avversione dichiarata nei confronti del gretto utilitarismo, dell’economicismo, del materialismo e dell’individualismo; la sottomissione della volontà dei singoli e delle “categorie particolari di cittadini” all’autorità dello Stato (la parte sottomessa al tutto); la devozione ai simboli della Nazione  (il Re, l’Esercito, la bandiera, i monumenti ai caduti, l’Altare della Patria, i sacrari…); il rispetto e l’accettazione incondizionata delle gerarchie sociali e l’obbedienza “cieca, pronta e assoluta” agli ordini dei superiori…E questo perché l’individuo che si oppone allo Stato è: “espressione tipica dell’aspetto politico della corruttela degli animiinsofferenti di ogni superiore norma di vita umana che vigorosamente regga  e contenga i sentimenti ed i pensieri dei singoli”. Come dire che gli uomini, abbandonati a se stessi, tendono a badare solo ai loro interessi personali e a soddisfare i loro gusti, bisogni e desideri egoistici, seguendo ciascuno il proprio codice privato a scapito del bene comune e di quelle istanze superiori e universali dello Spirito senza le quali ben presto si tornerebbe alla legge della giungla e a uno stato di natura prepolitico in cui varrebbe solo la legge del più forte e del più prepotente;  di qui la necessità di un potere indiscusso sovraindividuale che abbia facoltà e mezzi per correggere, reggere e contenere, se del caso con la forza, le eventuali intemperanze, fantasie o pretese di singoli cittadini, isolati od organizzati in consorterie privatistiche in difesa di interessi particolari contro altri interessi particolari, quindi pericolose per la civile convivenza e per l’ordine pubblico.

 “Il Fascismo pertanto alle sue origini fu un movimento politico e morale.


 La politica sentì e propugnò come palestra di abnegazione e sacrificio dell’individuo ad una idea in cui l’individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà ed ogni suo diritto; idea che è Patria; come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà, ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal  restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine  da attuare, tradizione perciò e missione”. Strano l’uso del passato remoto per dire che cosa fu, sentì e propugnò il fascismo; escluso che non sia, non senta e non  propugni più quegli ideali di abnegazione e di sacrificio della parte (l’individuo)  per il tutto (il Movimento, il Partito, la Patria, lo Stato, la Tradizione…) al tempo in cui il Gentile redige il Manifesto, non è chiaro il senso di quel “fu alle sue origini”; a meno che quelle origini non debbano intendersi non in senso storico ma etico: il fascismo nasce da una scelta etica, dalla volontà di superare la propria individualità e soggettività in qualcosa di più alto, che sopravviva alla inevitabile morte del singolo, come, appunto, “una idea in cui l’individuo possa trovare la sua ragione di vita”, questa idea è quella di una Patria che non muore, una Patria spirituale “che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi”. Ma una tale Patria assomiglia di più a una divinità  che a un sentimento o a un ideale umano; e  difatti il Gentile aggiunge al politico e al morale un altro carattere a quel movimento “recente e antico dello spirito italiano”: “Di qui il carattere religioso del Fascismo”. Ora, questa stravagante commistione di politica, morale e religione messa in opera nel 1925, nella patria del Machiavelli, da parte di un filosofo come Giovanni Gentile, il cui pensiero  si forma, si radica  e si sviluppa nell’alveo dell’hegelismo interpretato in Italia dal laicissimo e anticlericale Bertrando Spaventa, avrebbe dell’ incomprensibile se non fosse evidente, anche qui, il suo impiego strumentale per motivare e giustificare, paradossalmente, la violenza, l’odio e i veri e propri crimini perpetrati dalle “squadre d’azione” fasciste contro gli avversari politici, gli operai, i sindacalisti socialisti e comunisti e persino contro i contadini cattolici:


 “Questo carattere religioso e perciò intransigente, spiega il metodo di lotta seguito  dal Fascismo nei quattro anni dal ’19 al ’22. I fascisti erano  minoranza, nel Paese e nel Parlamento, dove entrarono, piccolo nucleo, con le elezioni del 1921. Lo Stato costituzionale era perciò, e doveva essere, antifascista, poiché era lo Stato della maggioranza, ed il Fascismo aveva contro di sé appunto questo Stato che si diceva liberale, ed era liberale, ma del liberalismo agnostico e abdicatario, che non conosce se non la libertà esteriore. Lo Stato che è liberale perché si ritiene estraneo alla coscienza del libero cittadino, quasi meccanico sistema di fronte all’attività dei singoli”. Lo Stato fascista non ha quindi niente a che vedere con lo Stato “guardiano notturno” del liberalismo classico, semmai ha qualche (presunta) affinità con lo Stato etico hegeliano, in cui soltanto il cittadino può realizzare concretamente la propria libertà. Gentile fa però riferimento allo Stato “la cui idea  aveva potentemente operato nel periodo eroico italiano del nostro Risorgimento, quando lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze, forti della forza di una idea alla quale gl’individui si erano in diversi modi piegati e si era fondato col grande programma di fare gli italiani, dopo aver dato loro l’indipendenza e l’unità” . Vediamo qui l’idea di uno Stato autoritario, organico, ideologicamente orientato  ed educatore; ma che cosa c’è  di religioso in tutto questo? Ecco: “Contro tale Stato (agnostico ed abdicatario)  il Fascismo si accampò anch’esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un numero rapidamente crescente di giovani (come dopo i moti del ’31 da analogo bisogno politico e morale era sorta la ‘Giovane Italia’ di Giuseppe Mazzini)”.

Si può ben comprendere, di fronte a un uso così strumentale e “politico” del termine stesso di “religione” (oltre alle forzature storiche “risorgimentali” e “mazziniane”) la reazione indignata del laico e liberale Benedetto Croce, che così ha risposto nel Manifesto degli intellettuali antifascisti, pubblicato su “il Mondo” il primo maggio dello stesso anno: “E lasciamo da parte le ormai note e arbitrarie interpretazioni e manipolazioni storiche. Ma il maltrattamento delle dottrine e della storia è cosa  di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell’abuso che si fa della parola  ‘religione’; perché, a senso dei signori intellettuali fascisti,  noi ora in italia saremmo allietati da una guerra di religione,  dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte la quale le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; e ne recano a prova l’odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani”. Il Croce rileva e demistifica puntualmente il tentativo  gentiliano di nobilitare a guerra di religione la lotta per il potere e il conflitto intestino della borghesia tra la vecchia classe politica demoliberale e l’arditismo  fascista (improvvidamente accreditato e appoggiato da Giolitti in funzione antisocialista e nell’illusione di neutralizzarne in seguito la violenza e la carica  eversiva. Ma su questa gravissima responsabilità del vecchio statista piemonteseil Croce sorvola):  


 “Chiamare contrasto di religione l’odio e il rancore che si accendono contro un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere di italiani e li  ingiuria  stranieri, e in quell’atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come  straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono propri di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l’animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto persino ai giovani delle università l’antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri  in sembianti ostili; è cosa che suona, a dir vero, come un’assai lugubre facezia”.

E lugubre, oltre che poco convincente, suona l’apologia gentiliana dello squadrismo: “Giovani risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare un nuovo Stato. Lo squadrimo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e finalmente osò l’insurrezione del 28 ottobre 1922, quando colonne armate di fascisti, dopo avere occupati gli edifici pubblici delle province, marciarono su Roma”. Ma per conferire  il crisma dell’eroismo e della religiosità allo squadrismo erano necessari dei martiri: “La Marcia su Roma, nei giorni in cui fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti,  soprattutto nella Valle Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale, si compì dapprima fra la meraviglia e poi l’ammirazione ed infine il plauso  universale”. E qui è persino superfluo sottolineare l’enfasi e il retorico “crescendo”: “Onde parve che ad un tratto il popolo italiano avesse ritrovato la sua unanimità entusiastica della vigilia della guerra, ma più vibrante per la coscienza della vittoria già riportata e della nuova onda di fede ristoratrice venuta a rianimare la nazione vittoriosa sulla nuova via faticosa della urgente restaurazione delle sue forze finanziarie e morali”. Lo squadrismo rivoluzionario” ha quindi spianato la via alla restaurazione non solo dei valori morali ma anche di quelli pecuniari!


Il Manifesto prosegue esaltando la forza insieme stabilizzatrice e propulsiva del “Fascismo, i cui Capi – a cominciare dal supremo – hanno tutti vissuto l’esperienza socialista, intendono conciliare due termini finora sembrati irriducibilmente contrari: Stato e sindacato”.  Di qui l’inutilità delle opposizioni e della lotta di classe: borghesia e proletariato saranno finalmente riconciliati nell’unità nazionale del Regime, e il Manifesto così si conclude: “Allora la presente crisi spirituale italiana verrà superata. Allora nel seno stesso dell’Italia fascista e fascistizzata matureranno lentamente e potranno in fine venire alla luce nuove idee, nuovi programmi, nuovi partiti politici. Gli intellettuali italiani aderenti al fascismo, convenuti a Bologna per la prima volta a Congresso (29 –30 marzo) hanno voluto formulare questi loro  concetti, e ne vogliono rendere testimonianza a quanti, in Italia e fuori d’Italia,  desiderano rendersi conto della dottrina e dall’azione del Partito Nazionale Fascista”.

(Al Manifesto aderirono, tra gli altri: Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello, F. T. Marinetti,  Giuseppe Ungaretti, Salvatore Di Giacomo, Ardengo Soffici, Bruno Barilli, Ildebrando Pizzetti, Ugo Spirito, Ernesto Codignola, Curzio Malaparte, Pericle Ducati, Giacchino Volpe…)

 FULVIO SGUERSO

               

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