Il latino lingua morta?

IL LATINO LINGUA MORTA?

IL LATINO LINGUA MORTA?

 La questione dell’insegnamento del latino nelle scuole medie e superiori  della Repubblica Italiana può sembrare a qualcuno un reperto archeologico o una  discussione oziosa sul sesso degli angeli adatta a chi non ha questioni più serie di cui occuparsi, oggi, nell’era di Internet  e del mercato globale anche della cultura, la cui lingua comune è l’inglese. Eppure il latino, pur essendo una lingua morta, cioè non più parlata nemmeno nella Chiesa Cattolica Romana, può, anzi, deve assolvere alcune importanti funzioni formative, etiche, estetiche e, come vedremo, anche politiche.


 Secondo il professor Pier Franco Lisorini, ad esempio, l’insegnamento del latino andrebbe reso obbligatorio, oltre che nelle scuole medie, anche in tutte le scuole superiori e non solo nei Licei, in quanto, come si può leggere su “Trucioli Savonesi” di domenica 4 dicembre (“Difendiamo l’insegnamento del latino”) lo studio della lingua latina – sfrondato dal filologismo e dal grammaticismo – va ben oltre un  pur auspicabile  arricchimento culturale e un quanto mai necessario ampliamento della prospettiva storica dei nostri studenti altrimenti destinata ad appiattirsi su un presente che appare  senza capo né coda (cioè senza passato e senza futuro): ”Con  lo studio del latino [si badi, non del greco] si riannoda il filo che ci lega a Rutilio Namaziano, se ne raccoglie il testimone, si guadagna una prospettiva che ci consente non solo di vedere in una nuova luce gli autori classici ma di apprezzare la palingenesi del nuovo latino in Dante e Petrarca fino a riconoscerlo nella prosa tesa di Leopardi e nell’ultimo grande che ‘mostrò ciò che potea la lingua nostra’, Gabriele D’Annunzio”.


Rutilio Namaziano 

E qui sono opportune alcune chiose per comprendere appieno il discorso del professore livornese: Rutilio Namaziano è un poeta pagano della tarda latinità, autore del poema De reditu suo, in cui si trova il cosiddetto “Inno a Roma” che finisce con ii famoso verso  “Urbem fecisti, quod prius orbis erat” (hai fatto una città di ciò che prima era l’universo), da cui si evince il destino imperiale di Roma, destino che già il vecchio Anchise aveva predetto ad Enea disceso agli inferi con la Sibilla: “Tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes), pacisque imponere morem, /parcere subiectis et debellare superbos” (Tu, o Romano, ricordati di dominare i popoli (queste saranno le tue arti), di imporre le norme della pace, di risparmiare i sottomessi e debellare i superbi), di qui la consegna che viene trasmessa al Dante del De monarchia, al Petrarca della canzone “Italia mia benché il cantar sia indarno” al Leopardi della canzone “All’Italia” e di qui, con volo pindarico, al D’Annunzio dei “Canti della guerra latina” e dei discorsi patriottici. Qui, quasi a dimostrare come la tradizione latina non si sia mai interrotta, Lisorini applica al D’Annunzio l’elogio  che Sordello da Goito fa del suo conterraneo Virgilio, nella seconda balza dell’Antipurgatorio: “O gloria de’ Latin, disse, per cui / mostrò ciò che potea la lingua nostra, / o pregio eterno del loco dov’io fui…”. La funzione principale dello studio del  latino è dunque per il prof. Lisorini quella identitaria e patriottica: “Lo studio del latino insomma non si chiude all’interno di uno schema grammaticale definito ma si apre nelle due direzioni retrospettiva e prospettica.

 Nella prima si ripercorre a ritroso il cammino della nostra civiltà attraverso la lettura di chi ce ne ha fornito testimonianza. Una lettura che riporta nel presente un passato di cui ci dobbiamo riappropriare se vogliamo recuperare la nostra dignità di nazione. Nella seconda la civiltà latina indica il cammino della nostra modernità, si apre verso di noi anche nelle strutture linguistiche e rivive nella sua trasformazione: l’italiano”. Se questo è vero, il latino non è più una lingua morta, ma una lingua che vive dentro un’altra, quella che parliamo quotidianamente. Senonché, al professore livornese, più che la lingua interessa chi la parla, o meglio, chi la parlava, cioè l’uomo romano. “Il nostro popolo deve poter  riconoscere dentro di sé l’antico romano, deve incarnare di nuovo la fierezza di una gente che ha portato nel mondo la luce della civiltà e dell’intelligenza, il seme dell’arte, della ragione, del diritto. Era questa la strada imboccata all’indomani dell’unità ed era la strada annunciata dai nostri poeti e scrittori, non inventata ma semplicemente ripresa durante il ventennio sotto la guida di Mussolini e abbandonata dopo la guerra dai vecchi nemici della patria italiana, cattolici e comunisti, con la complicità di quanti hanno confuso il fascismo e la retorica di regime con la coscienza nazionale, buttando, come spesso accade, il bambino con l’acqua sporca”.


 Qui, ammetto, non ho capito bene quale sia il bambino e quale l’acqua sporca: sembrerebbe che il bambino sia la coscienza nazionale e il fascismo e la retorica di regime l’acqua sporca, ma nella visione del prof. Lisorini fascismo e coscienza nazionale “sotto la guida di Mussolini” sono una cosa sola. O mi sbaglio? Comunque non mi pare che strumentalizzare lo studio del latino e la lezione dei classici ai  fini di una nuova politica nazionalistica, neocolonialista e, in prospettiva, imperialista sia un’operazione  filologicamente corretta. Ah, dimenticavo che per il prof. Lisorini la filologia va messa da parte se si vuole far vivere una lingua morta. Diversa è la visione del prof. Ivano Dionigi, il quale, da filologo classico, difende il latino non per salvaguardare la nostra identità nazionale ma la nostra identità umana (Il presente non basta. La lezione del latino , Mondadori, 2016). Infatti chi stacca la spina  della storia e della memoria ha una sola alternativa: l’ignoranza e la negazione di sé. Per questo lo studio della lingua latina è importante, non solo perché nell’italiano corrente ci sono più latinismi che anglicismi, ma anche perché il latino continua malgrado tutto a trasmettere all’Europa e all’Occidente (quindi, caso mai, più che di identità italiana si dovrebbe parlare di identità europea e occidentale) tre insegnamenti fondamentali: 1) il primato della parola, 2) la centralità del tempo, 3) la nobiltà della politica. Si tratta di tre latini diversi ma complementari: il primato della parola richiama il latino biblico, a cominciare da quel “In principio creavit Deus caelum et terram”, cui fa eco l’incipit del Vangelo di Giovanni: “In principio erat Verbum” (In principio era la Parola). La centralità del tempo si riferisce alla filosofia stoica di Seneca: “cotidie morimur” (ogni giorno moriamo un poco), e a quella epicurea di Orazio: “carpe diem” (cogli l’attimo fuggente), e ai diversi modi di narrare i fatti accaduti: lo stile di Cesare è diverso da quello di Tito Livio, come quello di Svetonio differisce da quello di Tacito. Riguardo al terzo insegnamento, cioè quello sulla dignità della politica, il riferimento è a Cicerone e alla sua mirabile capacità di far vivere le idee filosofiche nella realtà quotidiana. Ivano Dionigi raccomanda di far cogliere agli studenti sia la differenza tra il tempo e lo spazio, sia la necessità della coabitazione tra l’hic e il nunc e tra l’ubique e il semper. Infine ricordarsi sempre che “ le frasi che mai si udirono sono fatte con le parole che tutti dicono” (Concetto Marchesi).

  FULVIO SGUERSO

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