Il gioco dei perché

Il gioco dei perché

In questi giorni vi sono alcune notizie concomitanti: stato di crisi industriale in Liguria, soldi in arrivo, convegno degli industriali savonesi con amministratori ad assentire in prima fila.

Il gioco dei perché

 In questi giorni vi sono alcune notizie concomitanti: stato di crisi industriale in Liguria, soldi in arrivo, convegno degli industriali savonesi con amministratori ad assentire in prima fila.

E guarda caso, si risente la solfa del no. 

La famosa narrazione: noi avremmo idee, vorremmo fare investimenti, ma come si fa, che per ogni progetto ambientalmente compatibile (sic) spuntano i comitati del no? Troppo difficile, troppo faticoso.

Verrebbe da chiedere come misurano loro la compatibilità ambientale: in unità Ilva?

E il no a tutto, e il no a prescindere, e non nel mio giardino, e torniamo al carretto e cavallo…

L’assemblea annuale Unione Industriali a Savona

Le conosciamo tutte, le litanie. Prevedibilmente poi arrivano le risposte puntualizzanti e risentite di chi ritiene di avere, per i propri no, ragioni da vendere, oggettive, anche di buon senso ed economiche e strategiche e occupazionali di lungo periodo, oltre alla naturale esigenza di tutelare ambiente e salute. Risposte che ripetono l’ovvio, l’evidente, la realtà e la logica, ma lasciano il tempo che trovano, tanto nessuno risponderà mai sul punto.  Perché lo scopo non è il dibattito, lo scopo è inscenare un teatrino stucchevole, già visto e sentito tante volte, da non cascarci più, ormai, propedeutico alle pressioni psicologiche, sociali e dei media che saranno necessarie per far digerire, agitando come ostaggi lavoratori sempre più precari, casse integrazioni a lunga proroga e disoccupati certi,  qualsiasi lucroso devastante piano si abbia in progetto. Lo scopo è, come si dice, mettere le mani avanti.

Anche perché  attribuire alle giuste battaglie per il territorio, che di recente, grazie a una nuova consapevolezza e conoscenze tecniche, biologiche, epidemiologiche e sanitarie, sono cresciute nell’efficacia e nel sostegno delle persone,  le colpe di uno stato di crisi che invece ha ragioni profonde, radicate nel tempo e già insite nello stesso tipo di sviluppo, è pura disonestà intellettuale, per chiunque abbia occhi per vedere.

Sì perché le conseguenze di uno sviluppo malsano, malato, dei grandi investimenti passati condotti senza alcun rispetto del territorio, sono sotto gli occhi di tutti. Anche la crisi occupazionale, sociale ed economica ne fa parte.  Ed è irreversibile crisi di sistema, di cui Savona è solo un piccolo esempio. Attribuirne le colpe a fantomatici ambientalisti o signor no, è completamente fuorviante.

 
Tirreno Power e Acna di Cengio

Al tempo del carbone e dell’acciaio, e più tardi del petrolio, qualcuno decise che le nostre meravigliose coste erano il luogo ideale per installarvi le lavorazioni più devastanti e inquinanti. Sarà stato sviluppo, avrà dato lavoro e benessere in qualche modo, non andiamo a contestare il passato, io stessa lavoravo in una industria chimica, ma il fatto è che ora quell’epoca è tramontata, e si salva solo chi sa inventarsi rapidamente qualcosa di nuovo, nuovi modelli, nuove linee di sviluppo, che facciano di tecnologia ed ecosostenibilità dei punti di forza, non delle grane da affrontare, o meglio, come vorrebbero alcuni esponenti del mondo economico, da bypassare con leggi compiacenti.

Continuare così, appunto, sperando nella licenza di inquinare e perpetuando i cascami peggiori del passato, serve a un unico scopo: far arraffare guadagni facili a qualcuno, nell’immediato, dando ancora meno occupazione di prima, e ancor più precaria e sotto ricatto. Peggiorando i danni presenti e futuri, e perdendo tempo e soldi che sarebbero invece preziosi per investimenti mirati, saggi, a lungo termine. Tempo ne abbiamo già perso, e tanto, quando la nostra classe imprenditoriale si baloccava con la riduzione costi, con aperta complicità dei sindacati, in un insostenibile tentativo di competere con le economie emergenti, invece di valorizzare le nostre, di peculiarità, che le economie emergenti non hanno, e ricavarsi una propria nicchia.

Riduzione costi che aveva e ha il fiato cortissimo, spremendo le persone, riducendo il personale ed esternalizzando, cancellando le tutele dei lavoratori, cercando di ottenere regole più flessibili in campo ambientale, ottenendo sussidi pubblici a fondo perduto per poi delocalizzare e chiudere. In nome del profitto, che per carità, è continuato allegramente e si è anche accresciuto. Ma a spese di chi? Di tutti e di tutto il resto, delle enormi disparità sociali e anche del futuro.

Eppure il disastro persiste e insiste. Finché i flussi economici seguono una certa direzione, a vantaggio di pochi impoverendo gli altri, sarà ancora così. Ormai è scontro, a tutti i livelli e nell’intero Paese. Ed è scontro di base, sul modello da seguire e sulle possibilità.

 
Il caso Orsero

Dunque invece di spiegare perché il no ha senso, quando le poche proposte, fino a una auspicabile e tanto attesa prova contraria, (che riceverebbe, garantito, un coro unanime di sì) sono una più terrificante dell’altra e sempre le stesse, iniziamo col dire che non esiste, in generale, da queste parti, una classe imprenditoriale che possa salire su un pulpito e dare lezioni agli altri.

Che non è in grado di farle, le proposte veramente ecocompatibili, non ne ha la lungimiranza e la capacità, oppure non le vuole perché non abbastanza facili, non abbastanza remunerative nel breve periodo, da un comodo punto di vista unicamente speculativo, che non tiene affatto in conto le esigenze vere della società e del territorio. Perché richiederebbero investimenti e ricerca e progetti mirati a lungo termine.

Una classe imprenditoriale che non rischia quasi mai di suo, ma pontifica sulla base di finanziamenti pubblici e appoggi compiacenti delle banche, riuscendo a destinarli alle opere più devastanti e obsolete in partenza, oppure a sprecarli. O in qualche caso anche peggio, se è vero quanto starebbe emergendo sul caso Orsero. Classe che ha alle spalle fallimenti e disastri e scelte sbagliate, con conseguenze sotto gli occhi di tutti.

Posso dire, per esempio, e ne sono assolutamente certa, che insistere come modello di sviluppo sulla logistica a ogni costo, ipertrofica, che devasta larghe porzioni di territorio e porta pochissimi rientri economici e occupazionali, ci porterà in futuro a macerie ancora peggiori di quelle lasciate dall’era industriale, e del tutto irreversibili? Posso dire che diventare obbedienti schiavi dediti al consumo forzato e frenetico di merci importate di bassissima qualità, è una strategia che avrà il fiato corto, che già adesso mostra la corda con i primi crolli di colossi e la crisi di altri? Pertanto occorrerebbe saper cogliere i segnali e cambiare rapidamente strada, non insistere nei diabolici piani sovradimensionati.

 
Le Officine e il molo884

Ai tempi del carbone e dell’acciaio forse non c’era molta scelta, oggi sì. Inoltre gli allarmi seri si moltiplicano, e il rischio di devastare per sempre il nostro habitat ormai purtroppo più che rischio è realtà concreta. Siamo a un bivio senza ritorno, forse abbiamo già imboccato la strada sbagliata.

Posso ricordare a questi signori pontificanti (ma per loro è retorica insignificante, ambientalismo patetico) che bevono la stessa acqua, respirano la stessa aria dell’ultimo della Terra, e il denaro non li salverà dal patirne le conseguenze, come tutti? Né li salverà dire sì a tutto, come non si salveranno neppure quelli del no, se non ascoltati? Sarà democratica catastrofe.

Allora, usciamo dalla sterile contrapposizione sì/no. Ci sono domande, a volte, che richiedono risposte più articolate, per esempio quelle che iniziano con perché.

Facciamone qualcuna, rivolta a esponenti dell’industria, del commercio, della portualità,  ai sindacalisti del sì , oltre che ai politici ossequiosi e celebranti a cui, peraltro, qualche volta le rivolgiamo già. Facciamo questo gioco.

Perché, (qui mi rifaccio a una giusta osservazione dell’ing. Cuneo) se l’economia, il rilancio industriale sono così importanti, si è lasciato che le preziose aree industriali dismesse della città, anche quelle a filo di banchina come l’ex-Omsav, si convertissero in sterile residenziale o in ipertrofici e sovrabbondanti centri commerciali, anziché mantenere una destinazione produttiva?

Perché il deposito auto e le attività portuali correlate si trovano, sacrificate, nelle aree sotto il Priamar, invece di occuparne altre più consone, dove appunto si è costruito tutt’altro? Perché  si è seguito il progetto Bofill per filo e per segno, ma non dove prevedeva che quelle aree sottostanti la fortezza fossero restituite alla città con destinazione pubblica? Perché, per motivi di sicurezza e di incompatibilità portuale, non si è neppure potuto ottenere il passaggio per la passeggiata panoramica a mare del Priamar, costringendo ad altre soluzioni più impattanti?

 
Crescent e nuova sede AP

Perché sono stati spesi diversi milioni di euro, dieci o più, per realizzare la nuova sede dell’Autorità Portuale, quando fra poco vi sarà l’accorpamento con la nuova legge dei porti? Perché non si è pensato a investire, per esempio, nell’elettrificazione delle banchine, che potrebbe essere, in un futuro inevitabile di leggi ambientali più stringenti, un punto di forza e di innovazione per il piccolo porto di Savona?

E a proposito di Autorità Portuale: tutte le forze politiche in coro hanno continuato a lanciare allarmi sull’accorpamento con Genova, rischio di essere fagocitati, ridimensionati, e fin qui ci sta, ma…perché si insiste su una proroga, e di punto in bianco si chiarisce che deve essere finalizzata al completamento della piattaforma Maersk? Se davvero fosse quell’investimento favoloso, epocale che tutti dicono, foriero di sviluppo e occupazione, dato che è già costruenda e finanziata, non dovrebbe forse non correre rischi, anche in caso di accorpamento? Non è forse, verrebbe da pensare, che le recenti dichiarazioni di Toti siano una chiara ammissione dell’inutilità di fondo dell’investimento da proteggere, inutilità che balzerebbe subito agli occhi di un qualunque commissario esterno non coinvolto e super partes?

  
Aurelia bis e piattaforma Maersk

Ossia, pensateci bene: in pratica Toti ha ammesso implicitamente quel che sostengono i cattivoni ambientalisti: che non serve a niente, non è giustificata né dai traffici in calo pauroso né dalla necessità di potenziare la disponibilità di spazi e attracchi, ma ormai s’ha da fare comunque.

Come l’Aurelia bis, altro spreco di soldi e di territorio a fondo perduto.

Ma continuiamo. Perché, per la gestione dei rifiuti, smaltimento e riciclo, non si può privilegiare una rete di imprese e piattaforme di lavorazione e trasformazione sul territorio, basso impatto e altissima occupazione, sfruttando le aree dismesse disponibili? Perché anche per il compostaggio non si potevano prevedere piccoli impianti anaerobici delocalizzati, che producono davvero concime facilmente utilizzabile in sinergia con l’agricoltura locale,  e non inquinano, invece del grande biodigestore aerobico che, in nome di una risibile e pretesa produzione energetica, produce in realtà anche fumi, odori, e fanghi a loro volta da smaltire, spacciati per compost mentre non lo sono? Forse perché nel nostro sistema deviato i finanziamenti statali non vanno alle piattaforme virtuose, ma ai mega impianti inquinanti, come gli inceneritori la cui idea ostinatamente “riciccia” anche sul nostro territorio già duramente provato?

Perché ogni volta che una impresa abbandona un territorio dopo avervi abbondantemente lucrato e distribuito profitti agli azionisti fino all’ultimo, non è mai responsabile della bonifica conseguente?

Perché anche queste bonifiche, che a loro volta darebbero occupazione, magari reimpiegando il personale esistente, non sono mai finanziate adeguatamente e quasi mai risolutive?

E continuando sul tema, perché, mentre si lasciano al loro destino aree critiche da recuperare e bonificare, il vero affare non sembra essere creare nuova impresa e attività, ma spostare le esistenti, consumando ulteriore suolo senza contropartite di crescita e aumento occupazionale, anzi a volte purtroppo chiudendo comunque dopo poco? 

 
Ex maneggio di Ferrania dove sorgerà la Zinox

Piccolo caso emblematico: perché a Ferrania, con tutte le aree già industriali a disposizione e capannoni dismessi, la Zinox si è dovuta trasferire da Savona Vado (appunto) proprio sulle uniche aree verdi dell’ex-maneggio, che erano state virtuosamente recuperate e bonificate anni fa? Forse perché chi è proprietario delle aree deve lucrare sino in fondo e il vero guadagno sta solo nel costruire?

Per non parlare del movimento terra. Non dimentichiamo il movimento terra, altro grande motore del profitto. Inventarsi buchi da scavare, pagare per scavarli, pagare per smaltire la terra, buona o inquinata che sia, far guadagnare ulteriormente chi la smaltisce utilizzandola per altre opere a loro volta inutili o pretestuose.

Ecco, un tentativo di risposta già l’ho dato. Ciascuno trovi i rimanenti, e poi, a conti fatti, valutiamo se la colpa della crisi di questo territorio è proprio tutta dei no dei cattivoni bastian contrari.

In attesa di meravigliose idee a cui dire sì, tutti insieme appassionatamente.

  Milena Debenedetti  Consigliera del Movimento 5 stelle

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