Il formaggio che salta

Prima che venissero codificate e unificate le maggior parti delle attività umane, i lavori da compiere presso la propria casa o sui propri campi erano semplici e faticosi. Sarebbe stato troppo dispendioso, per il padrone, assumere personale più o meno specializzato. Da tempo immemore si ricorreva ad un contratto, un accordo non scritto ma consueto, che si chiamava agriman, dove si intende che, ad esempio, Luigi, Alberto, Mario e Carlo andranno per due, tre giorni, o per il tempo che occorre, ad aiutare Giovanni, padrone della casa, che sta rifacendo il tetto.

 

Non c’è pagamento, non c’è specializzazione. Giovanni si ricorderà dell’aiuto dato e sarà disponibile, a sua volta, ad aiutare gli intervenuti.

Mancano, in questo assieme, in questa brigata, un geometra, un geologo, un tecnico dei materiali, un disegnatore, un architetto, un addetto al decoro del paesaggio. Mancheranno sicuramente transenne, ponteggi a norma. Tutto il lavoro era praticamente un covo di senza legge, in cui senza contratto e senza le disposizioni antinfortunistiche previste, riadattavano un tetto.

Il tetto, in genere, riusciva, tenuto assieme dalle madonne e dagli improperi dei lavoranti, dai pettegolezzi fatti a danno dell’assente ritardatario, delle focacce e vin buono offerti (ma solo a fine giornata, per evitare capogiri indesiderati).

Un lavoro caratteristico che richiede l’agriman è la trebbiatura del grano. Una volta fissato il giorno giusto con il padrone della trebbia e relativo trattore, altro non resta che tirare il collo a una bella gallina, piumarla e sottoporla a lunga bollitura. La stagione non permette ancora di addentare i pomodori dell’orto, ma il prezzemolo è abbastanza lungo da poterne fare bagnetto, la verde, imprescindibile salsa, mai uguale a sé stessa: per ogni focolare c’è la sua ricetta: olio, aglio, aceto, pane, uovo sodo, capperi, tanto prezzemolo… Poche variazioni, ma il risultato cambia. E nessuno può protestare un disciplinare, un modello standard ortodosso e indefettibile. Come per il tetto, come per piazzare la trebbia, come per fare il bagnetto o il minestrone, non ci sono istruzioni per l’uso. O se si, sono approssimative. Ci vuole la mano. Dicono. Ma il legislatore, talvolta, preso da impeto legislativo, vorrebbe mettere ordine, e stabilire un legame inossidabile tra una sostanza e il suo nome. Ma l’uomo, l’umanità, non è digitale. Per ora, perlomeno, è analogica, ampiamente analogica. E pur riconoscendo il dovere della legge di mettere ordine, di dare delle direttive, di fissare dei punti invalicabili, altrettanto va riconosciuto il rischio che la legge stessa soffochi i cittadini con piccoli cavilli e lacciuoli, impedendogli di coltivarsi un orto, allevare due galline, tagliarsi la legna utile per l’inverno, dare una mano a vicini e parenti, nei lavori più pesanti.

Dopo il lavoro comune, ad esempio come anzidetto la trebbiatura, si invitano i lavoranti in casa, per mezzogiorno, poiché quella tale gallina che fin dalla sera prima aveva finito il suo turno di razzolar per il mondo, ora si presentava scassata e lasca, sopra una capace fiammanghilla, contornata da vasetti di bagnetto. Tutto fermo sul tavolo in cucina. Prima un poco di antipasto, di cui non starò neanche a parlare. Poi i capelletti in brodo (o minestrone), e poi finalmente la gallina. Tutto in presenza cospicua di bottiglie nere di vino e brocche o litri d’acqua fresca.

Si ricompone il lavoro, si riparla di qualità, resa, errori fatti, motteggi, lazzi. La padrona mangia con loro, ma non a tavola: tiene il piatto in mano, sta in un angolo. Qualcuno le fa posto: no, per carità che ho da andare. I giovinastri guardano tutto e mangiano tutto quello che vedono: con gli occhi e con la bocca, senza smettere di masticare, fra le palpebre e fra i denti.

Poi c’è il formaggio, almeno due o tre formaggette, nominate, a titolo di curiosità, col nome del produttore. Si assaggia e si degusta. Ottima occasione pure per sciaguattarsi in gola un altro sorso di vino (che tra l’altro è un barberone appena stappato, vecchio, asciutto e iroso).

Alla fine la padrona, quasi chiedendo scusa, butta sul tavolo senza riguardi un vaso cilindrico di terra cotta. È coperto con un foglio di carta velina, da un lato spunta un bastoncino bianco che la tradizione vuole di ginepro.

In genere si mette la velina sul formaggio per difenderlo dagli agenti esterni. In questo caso la velina serve per difendere l’esterno dal formaggio, visto che ha un odore penetrante e spesso è dotato di alcuni squadroni di cavalleria molto esuberanti, che saltano allegramente fuori dal vaso, alla scoperta dell’universo mondo. I buongustai sorridono e chiamano questi insetti sotarèi (come dire saltarelli) insegna innegabile della bontà del formaggio.

Il formaggio in questione sarebbe brus l’insieme degli scarti di formaggio ben rimescolati e portati a fermentazione con artifici diversi da casa a casa. La crema in questione (anche non avesse i sotarèi ) è piccante quanto basta per condire una fetta di polenta abbrustolita con pochissima sostanza. In ciò sta il suo pregio: è companatico economico, e con poco, soddisfo molto. Una specie di formaggio concentrato.

Oggidì, e ormai dagli anni Cinquanta, è squisitezza da mostra mercato, dono pregiato di amico pastore, sorpresa dei vecchi per i figli o i nipoti, abituati a formaggini bene educati, poliuretanici e perfetti.

E ogni volta che si porta a tavola il formaggio con i saltarelli o con i vermi c’è qualcuno che si ritrae, schifato, mentre altri s’attardano a catturare sulla tovaglia gli invertebrati derogati dalla fetta di pane che tosto si sarebbero silurati in bocca, con il coronamento di un bel bicchiere di quello nero che dicevamo prima.

La legge dice che tale formaggio non è commerciabile. Non che non si può produrre o offrire o regalare: non se ne può far vendita, perché i vermetti o i saltarelli, sono i degni figli di una mosca e in quanto tale, non proprio l’animale più pulito che ci sia. La Piophila Casei è specializzata nel deporre le sue uova nel formaggio grasso, morbido, dove poi evolvono in quei simpatici vermetti saltarelli, capaci di portare trasformazioni organolettiche significative al prodotto.

Disgraziatamente possono pure portare altri problemi, tale per cui la vendita di tali formaggi (casu marsu in Sardegna, punto in Puglia…) è vietata. Il rischio c’è davvero. Ma non capisco perché si ammettano i millecinquecento morti all’anno per la circolazione stradale, e non si possa tollerare il rischio d’essere infestati o avvelenati da un insetto, peraltro in modo curabile (il rischio è molto basso, peraltro).

Anche qui l’istituzione cerca di dirti cosa puoi o non puoi mangiare, cosa può o non può servire la padrona di casa agli uomini che stanno facendo un agriman.

I commensali, dinanzi al vaso, spalmano e mangiano come se non avessero mangiato ancora nulla: bisogna vederli. E invariabilmente comincia il solito discorso sul formaggio: si, ci sono i vermi, ma sono vermi che nascono dal latte, è proprio il latte che fa quei vermi lì e non possono far male. Non è vero, io penso, ma resisto e non dico nulla. La mia saccenteria scientista qui e ora è fuori luogo. Si, quei vermi sono del latte; si, sono figli dello stesso universo che ha generato voi, qui a tavola, la gallina bollita, il legno e le tegole sulla casa, il fieno nei campi, le gazze sui rami, le stesse stelle che vedremo nella notte o le stesse nuvole che ce lo impediranno. Quei vermi sono della stessa sostanza della benedetta pioggia sulla terra arsa, del fagiano libero nel bosco, del sudore, dell’amicizia, del pettegolezzo, perfino delle parole che non servono per dire cose che non pesano.

Lo stato non riuscirà a codificare e a normalizzare tutto questo. Se lo farà, lo cancellerà. Ma tutto questo non vale niente, e nessuno lo sa. Unica speranza perché tutto continui minutamente a sopravvivere, ancora per qualche anno

Alessandro Marenco

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