Il fondamento della democrazia…

Il fondamento della democrazia:
la sacralità del consenso popolare
Non c’è gioco che funziona se non si rispettano le regole

Il fondamento della democrazia:
la sacralità del consenso popolare

Non c’è gioco che funziona se non si rispettano le regole

 Se non si rispettano le regole il gioco, come qualsiasi sistema, si interrompe e o si cade in una condizione di anomia, di caos, o si cambia gioco e si costituisce un nuovo sistema. 

La democrazia è un sistema politico basato sul consenso, vale a dire su decisioni prese a maggioranza e sostenute dalla maggioranza, che ricadono sulla totalità della popolazione. Il problema nasce quando quella maggioranza non c’è, non c’è più o non c’è mai stata. Riguardo alla minoranza, è interesse della maggioranza tutelarla, altrimenti il sistema entra in crisi: non è per il rispetto di valori sovrastrutturali o addirittura trascendenti (diritti o valori assoluti) ma è per la necessità di far funzionare il sistema, evitando disordini, guerre civili o semplicemente una condizione di tensione continua che compromette il regolare svolgersi delle attività per le quali il sistema esiste. Nelle cosiddette democrazie popolari lo Stato controlla di fatto stampa scuola e circolazione delle idee perché il consenso su cui si reggono è ottenuto e mantenuto con l’imbonimento e con la paura: è un consenso passivo e non attivo, simile a quello al quale mirava la sinistra italiana. Le opposizioni sono comunque una spina nel fianco delle maggioranze (una loro funzione di stimolo, propositiva e costruttiva esiste solo nella testa di certi teorici della politica; in questo momento, nel nostro Paese, gli oppositori al governo gialloverde sanno dire solo di no e sono unicamente impegnati a cercare di scardinare l’alleanza di governo); ma a neutralizzarle ci deve pensare il consenso attivo e consapevole della maggioranza, non una legge liberticida o la censura. Quanto alla scuola, all’editoria, all’informazione, esse non sono democraticamente elette, non sono interne alla politica ma la trascendono; in altre parole devono godere di una libertà assoluta, al pari della magistratura.


Un sistema democratico non è un sistema acefalo; al contrario, la leadership, soprattutto nel momento aurorale del sistema, può essere carismatica e caratterizzata da un investimento emotivo del capo, con i cittadini che si presentano come seguaci. Del resto il confine fra un’autorità carismatica, un’autorità tradizionale e un’autorità burocratico-razionale (Weber) è poco più che una convenzione. Ciò che conta è che, quale che sia la sua connotazione, l’autorità provenga dal popolo, che si esprime attraverso il voto. Quanto maggiore è il consenso, tanto più forte è l’autorità, cioè la forza dell’investitura. 

Sistemi diversi, forme diverse di associazione, per esempio sul modello della famiglia o dell’azienda, sono teoricamente possibili e per molto tempo sono state la norma; di fatto non sono compatibili con la struttura odierna della società civile, quantomeno in occidente.

Ma la democrazia e il potere della maggioranza sono un valore in sé? Assolutamente no e non a caso la personalità che campeggia all’alba della nostra civiltà, Socrate, è una vittima della democrazia: il giusto, scrive Platone, sarà deriso, sbeffeggiato, percosso, impalato col voto popolare; lo stesso destino del Nazareno. In una società di disuguali, disuguali sotto il profilo spirituale, etico e intellettivo, la guida deve rimanere saldamente nelle mani dei migliori, ammesso che lo siano. Non è l’equipaggio che decide la rotta di una nave ma il nocchiero. Ma se l’equipaggio fosse composto da nocchieri, sarebbero loro a scegliere il pilota e a decidere la rotta.


 La democrazia non è un valore; un valore sono la sicurezza, il benessere, la tutela della vita e dei beni dei membri della comunità. Il potere del popolo non è un traguardo né il frutto di una conquista rivoluzionaria, che in realtà camuffa la violenza cieca della piazza scatenata da una minoranza legittimata dalla piazza stessa in un perverso circolo che si autoalimenta. Non è né un diritto né un ideale; è qualcosa di più, non qualcosa di meno: è la semplice e necessaria conseguenza dell’evoluzione della società. La democrazia americana è stata l’espressione politica di una società sradicata dall’ordine sociale europeo fondato sulla disuguaglianza di status. Non si deve confondere l’uguaglianza di status con l’uguaglianza nel possesso di beni: un giocatore di pallone, come un gladiatore nell’antica Roma, può accumulare una fortuna sterminata, che però non dà loro alcun potere speciale. L’uno e l’altro restano quello che sono: un giocatore di pallone e un gladiatore. La stessa cosa si può dire di un boss che controlla il business dell’invasione: ricchissimo ma socialmente ininfluente, anzi bersaglio morale e giudiziario. 

La forza fisica, la forza delle armi e quella del denaro sono fattori di disuguaglianza e di asservimento e quando una società si costituisce sulla loro base non ha senso parlare di democrazia. La forma politica che una società assume è di norma coerente con la sua struttura interna. Ma non si diventa liberi e uguali in forza di un disegno divino o di una volontà esterna. L’uomo è un animale culturale, sia nel senso ristretto dell’uso di utensili sia in quello più ampio della dimensione spirituale, ed è la cultura – in tutta l’accezione del termine – che lo rende libero e uguale, uguale davanti alla legge, uguale per la comune umanità, uguale nel reciproco riconoscimento e nel rispetto della diseguaglianza, vale a dire delle specificità di ogni individuo. In ciò è riposto il significato dell’espressione: uno vale uno. 

La plutocrazia, il potere finanziario, non può imporsi come tale, a meno che non sia in grado di farlo col sostegno di corpi armati dello Stato: deve mascherarsi, occultarsi, nascondersi dietro la maschera della democrazia e della difesa dei ceti più deboli. In Italia la sinistra si è affermata per assolvere questo compito, come, con maggiore accortezza, aveva fatto la democrazia cristiana. Ma è una maschera destinata a cadere e cadendo impedisce a quel potere di mantenersi compatto e di perseguire gli stessi fini, finendo per divenire ininfluente a causa delle proprie interne contraddizioni. 

In una società di uguali il potere appartiene necessariamente alla maggioranza

La società occidentale è caratterizzata dall’accentramento della ricchezza nelle mani di una minoranza che si restringe all’aumentare della ricchezza stessa, secondo la curva seguente:


L’intelligenza, al contrario è distribuita in modo normale sulla popolazione: lo sapeva bene Cartesio (Le bon sens est la chose la mieux partagée)ma con le moderne tecniche statistiche se n’è avuta ampia conferma. Questo grafico (curva di Gauss) descrive la distribuzione sulla popolazione complessiva di una grandezza come il QI, il quoziente di intelligenza:

Il problema è che senza l’accesso agli strumenti della cultura il potenziale intellettivo rimane sostanzialmente inespresso. Le grandi masse prive di quegli strumenti rimangono in condizioni di minorità e solo quando sono sobillate o si sentono minacciate danno luogo ad esplosioni di collera collettiva. In Italia, con la diffusione dell’istruzione e la scomparsa dell’analfabetismo, le cose cominciarono a cambiare fino al punto che a cavallo delle due guerre mondiali si costituì un ceto medio colto che fu definito a ragione “la spina dorsale del Paese”; che però lasciava fuori dalla libera circolazione delle idee il proletariato urbano e contadino indottrinato da preti, anarchici e bolscevichi. Rotte le paratie che tenevano il proletariato fuori dalla cultura alta, umanistica, tecnica e scientifica, il Paese è diventato omogeneo, la cittadinanza ha cessato di essere una finzione e la curva di Gauss non descrive ora solo l’intelligenza ma vale per la capacità critica, l’autonomia di giudizio, la partecipazione al know howdella collettività, non più chiuso nelle accademie.

Un effetto non previsto della proletarizzazione del ceto medio: la diffusione dell’autorità

Ed è proprio questa circostanza che rende ridicole le pretese dei compagni da salotto, convinti di essere l’ombelico del mondo, il sale della terra e gli alumbradosdel nostro tempo. La proletarizzazione del ceto medio è stata causata dall’arroganza del potere sostenuto dalla sinistra, che ha dato via libera ad una dissennata politica sindacale, ma si è rivelata un boomerang proprio perché ha posto fine alla concentrazione dell’intelligenza, della cultura e delle competenze. In via puramente ipotetica si può ragionevolmente convenire che, almeno fino all’avvento della rivoluzione industriale, queste caratteristiche non fossero distribuite in modo normale sulla popolazione ma identificassero sub popolazioni nettamente separate, di cui rimane traccia in espressioni linguistiche spregiative come bifolco, zotico, villano e così via. Sul piano del costume questa circostanza si esprimeva nella deferenza, nella soggezione, nel timore reverenziale, nel sentimento diffuso di un’autorità su base sociale. Oggi questi atteggiamenti non hanno più senso, nemmeno nei confronti del mondo accademico. Non solo per quello che è successo dopo il ’68, con l’occupazione militare delle cattedre universitarie da parte di partiti e partitini, ma per il venir meno della distanza, di status e culturale, fra l’accademia e l’uomo della strada. Con la politica questo fenomeno è più accentuato, e non mi riferisco solo alla sinistra. 


Analisi più dettagliate possono isolare sub popolazioni all’interno delle quali intelligenza, cultura, competenze si presentano con una moda o con una media che si discostano da quelle della popolazione generale ma che non si sovrappongono alla curva della distribuzione della ricchezza, delle posizioni di potere o dei ruoli ufficializzati. In buona sostanza: in una società medioevale era poco probabile che un colono potesse tener testa a un notabile per padronanza linguistica, capacità logiche e accesso agli strumenti che garantiscono il potere sostanziale; nella nostra società non c’è da sorprendersi se l’erede di un impero finanziario o industriale è uno sprovveduto percepito come tale o se uno studentello di liceo può fare le pulci a un giornalista di successo (come l’inviato della Rai convinto che il 14 luglio del 1789 in Francia sia stata proclamata la repubblica). In ogni campo, dalla medicina all’alta tecnologia alla ricerca, non solo non c’è alcuna correlazione o c’è addirittura una correlazione negativa fra potere professionale e potere economico ma lo stesso potere professionale non coincide più col ruolo perché è diventato una questione squisitamente personale: in questo senso la nostra è una società democratica, una società di eguali. Bene: il modo migliore per proiettare nello Stato una simile società è la democrazia politica, lo Stato democratico, il potere del consenso e della maggioranza. 

Gli intellettuali non hanno alcun ruolo perché non esistono intellettuali

Una società di uguali non è una società di cloni ma di individui diversi l’uno dall’altro in cui le differenze sono distribuite in modo casuale, non si concentrano e non danno luogo automaticamente a posizioni privilegiate. La legittimazione del tentativo dei detentori della ricchezza di acquisire il controllo politico passa invece dalla costruzione di un apparato di signori della conoscenza, giornalisti, scrittori, gente di spettacolo, investiti di un’autorità che consente  loro di pontificare attraverso la rete, la televisione, la stampa. Ma è un apparato sgangherato, lontano anni luce da quella classe di intellettuali alla quale Gramsci attribuiva il ruolo di persuasori, di creatori del consenso, organici al potere della classe dominante ma anche strumento essenziale per l’affermazione del partito, quello comunista. Non si è capito che in una società di uguali non esistono più, se mai sono esistiti, “intellettuali” e che politici e governanti non hanno titolo alcuno a svolgere una funzione pedagogica. In una società di uguali non esistono guide, saggi,  maîtres à penser.


L’aristocrazia ha senso se esiste all’interno della popolazione una popolazione di migliori. Ma nei salotti, nelle banche, nei consigli di amministrazione, nelle stanze del potere burocratico ci sono forse i migliori, c’è gente che possa guardare dall’alto in basso un cittadino preso a caso? C’è anche un solo minimo fondamento alla spocchia di villani rifatti e scrittori semianalfabeti infastiditi dal potere della maggioranza, che si spingono fino a sostenere che dove c’è consenso si afferma il peggio della natura umana? Il problema, per loro, è che, come l’intelligenza, nella società democratica l’auctoritas si è diffusa, è diluita in tutta la società civile, si esprime in forme private e nelle relazioni interpersonali e chi si arroga il diritto di esercitarla istituzionalmente si copre di ridicolo. Nessuno, insomma, è in condizione di pontificare e la cosa migliore che possono fare quanti per merito o per fortuna occupano posizioni prestigiose è mostrarsene consapevoli. Meno spocchia, quindi, perché nessuno se la può permettere. E non lo dico solo guardando verso sinistra, verso editorialisti e direttori dei giornali di regime, cioè tutti, verso nani della cultura come il signore che ha fatto fortuna con un romanzetto di pseudo inchiesta; lo dico pensando anche a un Veneziani che vede un popolo disperso, privo di ideali e capace solo di aggregarsi contro un nemico (i migranti). Veneziani forse confonde il popolo con quelle decine di persone che frequentano compulsivamente la rete e con una dozzina di nicka testa riempiono di commenti i quotidiani on line. Il popolo è altrove  e a dispetto di Veneziani non è solo bile, invidia, rancore e frustrazione; il popolo, nella quotidianità del lavoro, dello studio, delle difficoltà e delle asprezze dell’esistenza, è capace di passione, di guardare al futuro, di nutrire speranze: è il popolo che il 4 marzo ha mandato a casa la sinistra, ha imposto il superamento dello steccato fra due schieramenti contrapposti per finta e, lo dico sommessamente, è il popolo che non si fa irretire da ideali di cartapesta ma pretende di imporre la propria sovranità. Con la retorica abbiamo già dato, e subìto, a destra e a sinistra.

P.S.

Evidentemente anche in quel che resta della destra politica e di quanti continuano a orbitarle intorno sfugge il pericolo assolutamente reale e incombente dell’invasione. Non è strumento di propaganda o di bassa politica: è in gioco il destino dei nostri figli, della nostra civiltà, delle nostre istituzioni; i popoli europei ne hanno preso coscienza, i politici pare di no. Anche fra i barbari c’erano donne incinte e neonati: ci sono voluti dieci secoli all’Europa per riprendersi dopo il crollo dell’edificio politico e culturale greco-romano. Ha ragione il primo ministro ceco: spalmare gli invasori su tutti i Paesi europei – la stessa strategia che i compagni hanno adottato per l’Italia – “spalanca la porta dell’inferno”.  

 Pier Franco Lisorini

   Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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