Il de profundis per l’Italia

 

Il de profundis per l’Italia

Il de profundis per l’Italia

O tempora, o mores! Il grido di dolore di Cicerone risuona nell’antichità nel moralismo di Giovenale, col non immacolato Seneca, nella nostalgia di Tacito, nel martirio di Boezio. Si ripete con le invettive di Dante, nell’amarezza di Francesco Petrarca, nello sconforto di Machiavelli, torna col giovane Leopardi e si rinnova in ogni tempo nello smarrimento dell’anziano che vede derise e calpestate le ragioni che ne avevano ispirato la vita. Tutti costoro hanno davanti a sé lo spettacolo di un mondo in declino, tutti avvertono un senso di perdita, tutti rimpiangono un passato migliore, più giusto, più sicuro, più umano. E tutti hanno buoni motivi per farlo. Eppure, se “oggettivamente” la storia dell’uomo fosse posta su un piano inclinato e la testa mozzata di Tullio segnasse un cammino senza ritorno, noi non saremmo qui a parlarne, ci dovremmo aggirare come bestie selvatiche in un mondo anch’esso inselvatichito.

Si dovrà allora riconoscere che la storia non procede meccanicamente ma ha una propria intima intelligenza, una interna capacità di riorganizzarsi. Che sia l’hegeliana astuzia della ragione, un circuito di retroazione o la divina provvidenza, sta il fatto che di male in male, di corruzione in corruzione e con le continue vittorie dei cattivi la civiltà non solo non ne è uscita distrutta ma ha tesaurizzato e messo a frutto l’eredità del passato. Tant’è che Cicerone, Seneca o Boezio sono ancora tra noi e quello che loro davano per perduto è stato ritrovato e custodito. Se in questo riorganizzarsi continuo niente è più come prima e ciò che si perde non può ritornare, nel male apparente al quale si va incontro misteriosamente rifioriscono quei valori che si intendevano smarriti per sempre. Questa spirale si è finora applicata su scale diverse: gli unni di Attila non hanno portato, come si poteva temere alla fine dell’Occidente, la civiltà cinese è sopravvissuta ai mongoli e a radicali trasformazioni, Israele è presente oggi più di duemila anni fa. Ma la storia non è solo una spirale: è anche una macina che polverizza popoli e culture che l’astuzia della ragione considera ormai inariditi e già morti. Sta a loro, se hanno ancora della linfa vitale e se morti non sono dimostrare di non esserlo.

Ma per l’Italia mala tempora currunt (atque peiora parantur). Conclusa la lunga marcia del Pci ora Pd verso il potere si è consumata la distruzione sistematica del nostro Paese, della nostra povera Patria. Sopravvissuta ad una unificazione mal realizzata, ad un piemontesismo duro e ottuso, alla retorica fascista, a due guerre rovinose, al regime clericale, agli intrallazzi del quadripartito, al lupanare berlusconiano, quando è finita nelle mani degli eredi di Gramsci e Togliatti l’Italia è stata svenduta, umiliata, stuprata. Ha perso in un quinquennio quanto, nonostante tutto, l’energia, l’intelligenza, la laboriosità del suo popolo era riuscito a mantenere e incrementare. Ha perso ogni dignità, ogni credibilità, è diventata la pattumiera dell’Europa, la base logistica del terrorismo islamico, il bengodi di banchieri furfanti, di manager incapaci, di politici inetti e avidi. Qualunque cosa abbiano toccato gli uomini e le donne del Pd lo hanno distrutto. Tronfi, parolai, bugiardi, pessimi allievi di una scuola nefasta nella quale, a tratti, si avvertiva una qualche tensione ideale di cui ora non c’è traccia, hanno tagliato i ponti con il Paese reale, guardano altrove, non vogliono questa Europa ma guai a metterla in discussione, schifano la gente comune, e quando parlano di diritti si riferiscono alle famiglie alternative, all’utero in affitto, al suicidio di Stato. Hanno messo in soffitta la lotta di classe, non sanno più che cosa fosse la berlingueriana via italiana al socialismo, hanno smesso di rivolgersi “ai lavoratori, ai giovani, alle donne” come facevano fino alle soglie del nuovo millennio, hanno ereditato dai radicali la prospettiva transnazionale e sono in  ambasce per i poveri del mondo come madre Teresa di Calcutta ma di fronte ai poveri di casa nostra si girano da un’altra parte e gareggiano col Vaticano nel favorire un’invasione dall’Africa che sarà la rovina del Paese.


Cosa vogliano e dove vogliano andare è un mistero: i loro stessi militanti e quegli anziani signori compostamente in fila per partecipare alla farsa delle primarie sembrano disperati, vedono un partito allo sfascio, senza idee, senza programmi, senz’anima e ci rimangono aggrappati per non rinnegare se stessi e le proprie illusioni. Della tradizione comunista hanno mantenuto l’odio verso la nazione, senza però quella prospettiva escatologica che, se non lo assolveva, in qualche modo poteva giustificarlo. C’era la patria socialista, c’era il mito del riscatto sociale, c’erano anche l’invidia e l’accanimento contro i padroni, c’era utopia, c’erano passioni contrastanti, c’era tutta la miscela di idealità, buoni sentimenti, ferocia che caratterizza i grandi movimenti di massa e un’ideologia nella quale la nazione non aveva posto. Ora non c’è nulla. Un chiacchiericcio insulso che copre interessi familistici, di lobby, di cordate, un unico collante che è il potere, quello del denaro, un denominatore comune che è l’avidità, e, come conseguenza, un impressionante vuoto intellettuale e culturale. Non ho nessuna difficoltà a riconoscere che è stato Berlusconi a sdoganare l’improvvisazione, l’ambizione non sorretta da idee, la corruzione e l’incompetenza e ad aprire le porte della politica a cani e porci ma resta il fatto incontrovertibile che quegli stessi che, in Italia, in Europa e oltre Atlantico ne hanno determinato la caduta e hanno spianato la strada alla banda che ci governa hanno impedito che si mettesse a frutto ciò che di buono il suo governo aveva cominciato a fare, nella politica estera, nella spinta all’economia, nel sostegno alle famiglie, nella scuola. Soltanto un ipocrita o un fazioso può disconoscere la distanza siderale fra il modo in cui Bertolaso gestì le conseguenze del terremoto dell’Aquila e la goffaggine, l’inconcludenza, la risibile incapacità che si sono viste all’opera, si fa per dire, ad Amatrice e dintorni, con la storia agghiacciante delle casette sorteggiate. E Napoli ricoperta dalla spazzatura, con la sindaca che si affidava a San Gennaro, Berlusconi lo avrebbe elevato alla gloria degli altari per averla ripulita. Tanta scena, come l’aver voluto il G7 all’Aquila martoriata o la decisione di prendere casa a Lampedusa ma anche un po’ di sostanza, come l’interruzione del flusso di migranti grazie all’accordo con Gheddafi vanificato da Sarkozy. E se Renzi per la scuola non ha fatto altro che spalancare le porte a decine di migliaia di aspiranti insegnanti, come la moglie, senza un piano, senza una selezione, senza criterio e ha lasciato che continuasse la deriva dell’università e della ricerca, il successore incaricato di tenergli il posto ha piazzato al ministero una sindacalista tessile la cui unica preoccupazione è stata finora quella dell’educazione di genere, come se nella scuola, ormai tutta nelle mani del gentil sesso, ci fosse qualche corsia preferenziale per i maschi. Ma l’istruzione non interessa al Pd che semmai bada molto all’educazione, intesa come brain washing, per inculcare il pensiero unico in materia di sessualità, intesa come omosessualità, di multiculturalismo, perché si chiudano gli occhi di fronte all’invasione, di ecumenismo, per sradicare l’idea sovversiva di patria. E anche su questo chi non è accecato dalla faziosità politica deve riconoscere che con tutti i loro limiti, le incertezze e qualche passo falso la Moratti e la Gelmini quantomeno il problema della scuola – e degli insegnanti – se l’erano posto. A distanza di anni quanti avevano avallato le chiassate contro la riforma Moratti, senza che si capisse che cosa contestavano, si dovrebbero vergognare per il silenzio tombale loro e dei sindacati di fronte a porcherie come la chiamata diretta, la presunta meritocrazia, i soldi pubblici che i dirigenti distribuiscono senza passare dalla contrattazione e la latitanza di un contratto che aspetta di essere rinnovato da quando il Pd ha preso il controllo del Paese.


Un Paese può sopravvivere tranquillamente senza governo in condizioni normali- È capitato al Belgio, è capitato alla Spagna e non c’è stata nessuna catastrofe, la società civile non ne ha sofferto alcun danno, le istituzioni hanno retto tranquillamente, sicurezza, istruzione, sanità non ne hanno risentito. Qualcuno forse si ricorda di Giuseppe Giusti, il poeta toscano ormai sparito dai programmi scolastici, e la sua scanzonata presa in giro del potere impersonato nel Re Travicello. Il sistema, quando funziona e se non ci sono fattori di disturbo è come un treno che non ha bisogno del manovratore. Non dico Renzi, che lo farebbe comunque deragliare, ma un qualunque Gentiloni potrebbe stare ai comandi, con l’impegno di non toccare nulla. Ma quando c’è un’emergenza c’è bisogno di un governo e noi ora viviamo un’emergenza che questo governo, questo partito, questa generazione di politici non sono in grado di affrontare anche perché sono loro ad averla creata. Mi riferisco ovviamente all’invasione dall’Africa.

Il 17 marzo del 1861, al termine di un processo confuso, fra slanci patriottici, interessi dinastici, paure e compromessi, venne proclamato il regno d’Italia. Il nuovo Stato si scrollò immediatamente di dosso la tutela di Francia e Inghilterra che per un loro calcolo politico e in disaccordo fra di loro ne avevano favorito la nascita, e cominciò subito a scalpitare per entrare nel novero delle grandi potenze. Negli anni Ottanta la guerra commerciale e la rivalità coloniale con i cugini d’oltralpe rischiò di innescare un conflitto armato, a cavallo fra i due secoli il giovane Regno non cessava di sgomitare per trovare un suo spazio in Africa pestando i piedi alle due tradizionali potenze coloniali e nel frattempo compensava la carenza di materie prime col lavoro la tenacia, la frugalità e l’intelligenza del suo popolo e celebrava il suo successo con l’esposizione universale del 1906 continuando a giocare un ruolo decisivo nello scacchiere mondiale fino alla seconda guerra mondiale. Reagisce alla terribile disfatta militare, cambia veste istituzionale, diventa una delle punte di diamante dell’alleanza atlantica e fino agli anni novanta del secolo scorso è al quinto posto fra le potenze industriali del pianeta. Insomma, in regime di austerità o di spese facili, fra conflitti sociali aspri e brevi periodi di pacificazione, nonostante gli scandali finanziari, i pescecani e i padroni delle ferriere, con un’altalena di governi autoritari e liberali, pacifisti e guerrafondai, l’Italia è stata protagonista della politica mondiale fino agli anni dei tre B, Blair, Bush, Berlusconi, bersagli della sinistra mondiale. Poi sono arrivati loro, i compagni, e sappiamo com’è finita. Berlusconi, con la presidenza Obama e il rafforzamento dell’asse franco-tedesco, era ormai un’anatra zoppa e non poteva impedire che la Francia di Sarkozy attaccando Gheddafi desse un colpo mortale al nostro Paese. Ai tanti che si nutrono di retorica e frasi fatte sull’amicizia fra i popoli, che si sentono cittadini dell’Europa e smaniano per abbattere le frontiere è bene ricordare che la politica degli Stati obbedisce a leggi di equilibrio geopolitico che hanno poco a che fare con le ideologie o i sistemi di governo: la Russia degli zar, quella di Stalin o di Putin continua a perseguire i propri interessi lungo le stesse identiche direttrici e la Francia al di là delle ricorrenti dichiarazioni amicizia rimane il nostro peggiore nemico: anche per questo non mi pare il caso di scaldarsi troppo per il duello fra Macron e la Le Pen. Quando dieci anni fa si contendevano l’Eliseo Ségolène Royal e Il franco-polacco gli italiani orientati a destra, compreso il sottoscritto, tifavano ingenuamente per quest’ultimo vagheggiando un continente a guida moderata e naturalmente affiancato all’Italia; si è visto com’è andata.


Ma è sciocco imputare ai francesi o ai tedeschi il tracollo dell’Italia. E anche il larvato colpo di Stato studiato oltre oceano, preparato a Berlino ed eseguito al Quirinale non avrebbe avuto l’effetto di buttar via l’acqua sporca – il Cavaliere – col bambino – l’Italia -, se non avessimo avuto la disgrazia di avere in casa nostra un partito antinazionale, oltre tutto caduto nelle mani di una classe politica inetta e irresponsabile, al quale, sotto le mentite spoglie del governo tecnico e in un clima di emergenza è stato consentito di prendere il potere con un’operazione che ha proiettato a palazzo Chigi il sindaco di Firenze.

Ora che l’Italia è affondata in questa palude di chiacchiere, di malaffare, di ipocrisia, di totale inefficienza, che cosa ci aspetta? Certi guasti sono irreversibili e, se il Paese sopravvivrà, ci vorranno generazioni per attenuarne le conseguenze.

Se la Lega e Fratelli d’Italia intendono davvero allearsi con Berlusconi lo scenario è da incubo. Il Pd uscirà stracciato dal voto popolare ma in suo soccorso arriveranno le truppe cammellate forziste. Il partito di Berlusconi avrà avuto buon gioco nel beneficiare della coalizione per poi sfaldarsi, come è successo due volte, per dar vita ad un partito della nazione col compito di impedire ai grillini di formare un governo. Se, com’è probabile i Cinque stelle, anche senza premio, dovessero raggiungere la maggioranza relativa nelle due camere e con essa l’incarico di formare il governo c’è il rischio concreto di una immediata bocciatura se si ripeteranno gli stessi errori nella compilazione delle liste, col risultato, anche in questo caso, di consegnare il Paese ai compagni. Il problema è che il movimento è tutt’altro che compatto. Se ne possono facilmente identificare tre componenti: il vertice, costituito da Grillo e Casaleggio con Di Maio, Battista e pochi altri che uniscono affidabilità e competenza; la palude dei parlamentari, fra i quali molti, anche per la dabbenaggine, sembrano usciti dalle fila del Pd o da quello che era il partito di Vendola, e gli elettori, che sono gente esasperata che vuole fare piazza pulita di tutto il marcime che infesta il Paese, gente esasperata in cui si ritrovano vecchi simpatizzanti della sinistra disgustati dalla cloaca che è diventata la politica e quegli elettori di destra che hanno determinato la vittoria del movimento nei ballottaggi e non si fidano più di Berlusconi. È la stessa gente che vota per la Lega, che diffida però del perdurante nordismo, che Salvini non è riuscito a sradicare del tutto, e non dimentica la metamorfosi di tanti personaggi quando sono entrati nei palazzi del potere.

Se avessimo tempo e il nostro Paese non stesse franando rovinosamente si può essere sicuri che quella sovrapposizione fra elettorato leghista e grillino finirebbe per dar luogo automaticamente ad un’unica coerente formazione politica in grado di seppellire definitivamente tutto il quadro politico uscito dalla seconda guerra mondiale, compreso l’aborto bipolare. Se avessimo tempo ma tempo non ce n’è più. Nei mesi che ci separano dalle elezioni l’invasione continuerà con una costante accelerazione; difficilmente il centrodestra riuscirà a impedire, ammesso che voglia farlo, che passi lo ius soli, di cui la sinistra ha un disperato bisogno per assicurarsi un serbatoio di voti; la demolizione della nostra struttura industriale e finanziaria continuerà fino a raggiungere un punto di non ritorno e quando, a meno di un miracolo, il Pd pur uscendo perdente dalle urne rimarrà saldamente al potere chi potrà farà bene a fare le valigie. Vorrà dire che ci saranno tante “piccole Italie” nelle quali tenere acceso il fuoco della nostra memoria, finché non ne resteranno che le ceneri.

Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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