IL CORPO

DAL CORPO COME STRUMENTO

AL CORPO COME MODO DI ESSERE AL MONDO
Sabato 15 ottobre 2011, alle ore 18 presentazione del libro
Appunti e contrappunti di Fulvio Sguerso

DAL CORPO COME STRUMENTO
AL CORPO COME MODO DI ESSERE AL MONDO
La più antica e diffusa concezione del corpo è quella strumentale: il corpo è visto quale strumento della volontà, o come oggetto o fonte di piacere (o di dolore), o come mezzo per la riproduzione della specie, o come macchina – o meglio bestia – da soma e da lavoro. Ora, uno strumento, in quanto tale, può essere apprezzato per la sua “virtù”, cioè funzionalità adatta allo scopo, o agli scopi a cui serve; o criticato e disprezzato perché difettoso o perché implica limitazioni, impedimenti e condizionamenti di vario tipo.

L’una e l’altra sorte è toccata al corpo nella storia del pensiero occidentale, dove troviamo sia la condanna totale del corpo quale prigione o addirittura tomba dell’anima, secondo la visione orfica e platonica, sia la sua esaltazione celebrata da Nietzsche in Così parlò Zarathustra: “Colui che è desto e cosciente dice: sono tutto corpo e nulla all’infuori del corpo”. La dottrina della strumentalità domina l’intero pensiero della scolastica medievale: per S. Tommaso “Il fine prossimo del corpo umano è l’anima razionale e le operazioni  di essa. Ma la materia esiste (anzi, pre-esiste) in funzione della forma, e gli strumenti ci sono in vista dell’azione dell’agente.” Il quale, appunto, agisce sulla materia per mezzo di strumenti fornitigli o dalla natura (idest da Dio) o dall’arte e dall’ingegno dell’ homo faber. Con il dualismo cartesiano e la netta separazione tra res cogitans e res extensa si presenta un problema  nuovo e sconosciuto alla concezione classica del corpo come strumento dell’anima e dell’anima come forma o ragion d’essere del corpo: come è possibile il rapporto tra le due res? Come e perché le due sostanze separate e indipendenti si combinano a formare la persona umana che è una realtà unica (una “unitotalità”)? La risposta che il pensiero contemporaneo ha dato a questo problema consiste nel considerare il corpo come una particolare forma di esperienza o come un modo  che ha un suo carattere specifico accanto ad altre esperienze e ad altri modi di essere.

Per Edmund Husserl “Il mio corpo si distingue da tutti gli altri per una particolarità unica: è il solo corpo che non è soltanto un corpo tra gli altri, ma è il solo corpo di cui dispongo in modo immediato”,  e che mi identifica nel differenziarsi dagli altri corpi.

Neanche per  Merleau-Ponty il corpo può ridursi a semplice oggetto, a cosa tra le cose, dal momento che la coscienza di essere al e nel mondo non sarebbe possibile se non comprendesse la percezione del corpo come rapporto originario con il mondo in una determinata situazione storica e sociale: “Sia che si tratti del corpo altrui sia che si tratti del mio, non ho altro modo di conoscere il corpo umano che quello di viverlo, cioè assumere in prima persona il dramma che lo attraversa.” Senza il mio corpo non potrei né esistere né avere coscienza di esistere, dunque il mio corpo è quella parte di me stesso che mi permette di essere al mondo, e di comunicare con gli altri soggetti, quindi con gli altri corpi. E’ ormai nozione corrente il fatto che trasmettiamo e riceviamo continuamente messaggi e segnali, volontariamente o meno, con il linguaggio muto del corpo. Messaggi e segnali, spesso “subliminali”, che riguardano prevalentemente le emozioni, i desideri, i bisogni primari. Prendiamo, ad esempio, il bisogno di contatto fisico: è un bisogno  che ci portiamo dietro dalla nostra prima infanzia, quando non sapevamo ancora parlare: l’interazione diretta  con la madre è, per il bambino, una questione vitale. Secondo l’etologo Desmond Morris “se vogliamo comprendere i modi svariati e talora bizzarri, spesso fortemente inibiti, con cui stabiliamo i nostri contatti fisici da adulti, dobbiamo tornare al principio, quando non eravamo che embrioni nel ventre materno.

 Edmund Husserl

 Le intimità prenatali, che non prendiamo in considerazione quasi mai, ci aiuteranno a capire quelle dell’infanzia, che tendiamo a ignorare perché ci sembrano fenomeni scontati, e a loro volta le intimità dell’infanzia, viste con occhi nuovi, ci aiuteranno a capire quelle della vita adulta…” (Cfr. Il comportamento intimo, Mondadori, 1986). Varrà la pena, allora, seguendo la traccia di Morris, soffermarsi un poco sulle sensazioni provate dagli esseri umani prima ancora di venire, come suol dirsi, alla luce.

Le primissime impressioni che riceviamo come esseri viventi, mentre fluttiamo dolcemente fra le pareti protettive dell’utero materno, sono  sensazioni di intimo contatto fisico.

  A questo stadio, l’attivazione del nostro sistema nervoso centrale in via di formazione assume soprattutto la forma di sensazioni tattili, di pressione e di movimento. L’intera superficie epidermica dell’embrione è immersa nel caldo liquido amniotico della madre. Poi, mano a mano che il feto cresce e il suo corpo preme con più forza contro i tessuti materni, il tenero, avviluppante abbraccio dell’utero diviene di settimana in settimana più stretto e più saldo. Intanto, il feto è sottoposto alle variazioni di pressione causate dal ritmico contrarsi e dilatarsi dei polmoni materni e al dolce, regolare dondolio che la madre gli imprime camminando. Infine, negli ultimi tre mesi della gestazione, il bambino è in grado di percepire sensazioni uditive.

Questo significa che il bambino è ormai in grado di udire il battito costante del cuore materno, che gli resterà nella memoria come il principale segnale sonoro della sua vita uterina. Ricapitolando: le nostre prime esperienze corporee sono:

 1) fluttuare in un liquido caldo;

2) sentirsi stretti in un abbraccio totale;

3) percepire le oscillazioni di un corpo in movimento;

 4) udire il battito di un cuore che pulsa. Questa condizione di beatitudine intra-uterina viene poi bruscamente e rudemente troncata da quella che rimarrà una delle esperienze più traumatizzanti della nostra vita: la nascita. Il bambino appena nato ha quindi bisogno di essere confortato dal contatto rassicurante con la madre (vengono in mente alcuni versi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Nasce l’uomo a fatica, / ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena e tormento / per prima cosa; e in sul principio stesso / la madre e il genitore /

Il prende a consolar dell’esser nato.”) La nostra vita comincia – o dovrebbe cominciare – dunque entro un rapporto di stretta intimità fisica (quindi anche affettiva) con le nostre madri. Via via che cresciamo, ci avventuriamo nel mondo esterno per esplorarlo, ritornando però di quando in quando alla protezione e alla sicurezza dell’abbraccio materno. Infine ci distacchiamo da questo abbraccio che, se protratto oltre i termini giusti, può diventare soffocante, e ci incamminiamo “con le nostre gambe” nel mondo adulto; ma ben presto avvertiamo il bisogno di un nuovo abbraccio, e così cerchiamo un nuovo legame con una persona amata, che rappresenti anche una base affettiva sicura da cui eventualmente potersi allontanare per nuove esplorazioni…Ma può accadere, in qualunque stadio di questa sequenza, che i nostri rapporti intimi ci sembrino inadeguati; può accadere che non riusciamo a fronteggiare le durezze e le avversità della vita, e allora ripieghiamo su intimità sostitutive: animali, possesso di beni più o meno durevoli, idoli vari, oggetti simbolici, sesso mercificato e talora, purtroppo, alcool  o altre sostanze psicotrope. Osserva Morris che, se nel tipico essere umano adulto contemporaneo permane un così forte bisogno di contatto fisico, allora forse dovrebbe arroccarsi meno in se stesso e aprirsi di buon grado ai rapporti amichevoli, autentici, non strumentali, e non rifuggire dall’intimità con altre persone; magari per la paura di perdere la propria autonomia affettiva, o forse di rivelarsi per quell’essere fragile e appeso a un filo che noi tutti siamo.

Fulvio Sguerso  

 

 

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