il cibo sacro

Il cibo sacro
I nostri nonni, talvolta anche i nostri genitori, ci hanno insegnato che il cibo non si butta e non si spreca. 

IL CIBO SACRO

I nostri nonni, talvolta anche i nostri genitori, ci hanno insegnato che il cibo non si butta e non si spreca. Ce lo hanno insegnato proprio nell’età in cui per distrazione e per voracità di tante cose, non solo alimentari, ci si distrae facilmente da quel che si ritrova nel piatto. Fino a tutta l’adolescenza, soprattutto noi maschi, non riusciamo a costruire un rapporto equilibrato con il cibo: mangiamo di tutto, tanto, rapidamente, casualmente, soprattutto se soddisfa il palato, soprattutto se è un gusto inedito, ancora soprattutto se stupisce o inorridisce il genitore che ci guarda. L’età e i visceri ancora nuovi, l’energia e l’attività sportiva riescono a fare un po’ d’argine a questa alimentazione scomposta ed esagerata, propria di un’età in cui non si sa ancora se giocare o fare sul serio.


Ma l’insegnamento di una nonna c’è, c’è stato. E non va perduto. Torna a galla dopo gli anni in cui abbiamo sprecato tempo, spazio, sentimenti, sonno, intelligenza, vino e cibo (perché ne avevamo troppo, e perché era giusto sprecarlo) e ci ritroviamo con tutti quei piccoli consigli di buon senso che ci piace onorare, perché ce lo hanno detto, ce lo hanno insegnato, insieme a un flusso di benevolenza e di affetto.

Il pane, prima di tutto. Non si getta via il pane. A me personalmente vedere del pane nella rumenta dà un fastidio pari a vedere della rumenta sulla tovaglia dove mangio. Torco la testa e non guardo. Ma è orribile lo sfilatino mordicchiato gettato tra cartacce e scatolette. Pure le briciole non si possono buttare: dalla tovaglia alla paletta, dalla paletta al secchiello delle galline, delle anatre o dei pesci nel fiume.

Nella mia famiglia per le feste si facevano i ravioli, quintali di ravioli. E si arrivava a inforchettarli quando avevamo attraversato laghi di tonnato e monti di insalate russe, lastre di salame, pancette, peperoncini sotto’olio, come funghi, come melanzane, carpaccio e poi fonduta. Ma dal raviolo non ci si esime: appena scolato, ridente e turgido, lucido, mollemente adagiato, come languidamente stanco dal troppo bollire, tinto dal bel sugo che accompagnerà l’arrosto. Un primo piatto è prammatica. Il secondo comincia a far sentire il suo peso. Il terzo veniva conferito dalla zia, la stessa autrice dei ravioli. “Ma no, zia, non ce la faccio mica…”. “Ma va! Figurati! Alla tua età! Via, su, senza pane!”.


Ma come “Senza pane”? Uno scoppia, è satollo e ripieno da non poterne più, e lei ti dà questa speciale deroga che non si darebbe mai, in nessun caso. Proprio come se fosse una sacra sacerdotessa (come di fatto è) della tavola: “Noi, con l’autorità avuta dalle generazioni di zie e nonne e matrone dai tempi delle caverne in poi, ti concediamo di non mangiare il pane con i ravioli. Per stavolta eh!”.

Se uno prova a fare un poco il contadino, anche solo per sé e a livello sperimentale, comprende meglio qual è il valore del cibo. E comprende subito che ridurlo unicamente a prodotto commerciale, a merce, innesca un meccanismo perverso, che ci allontana dalla realtà.

Doversi sostenere con la propria terra, le proprie braccia e i propri semi, ti espone innanzi tutto alla carestia. In un tessuto sociale debole (come risorse) ma forte (come legami) com’era la società contadina, se un elemento andava in crisi, rischiava di portarsi dietro tutti gli altri. Poiché dovrebbe essere normale e ordinario che chi ha da mangiare ne fa parte al vicino che non ne ha.

La società attuale è molto forte (come risorse, direi illimitate) e molto debole (come legami), e questo non ci fa pronti a fronteggiare carestie, disastri, fasi difficili comuni.


Inoltre le verzure coltivate o gli animali allevati hanno un prezzo. Si, per carità, è merce. Ma quel prezzo non può sottostare solo alla nota legge di mercato. Ci devono essere dei limiti per evitare che ci sia chi s’arricchisce e chi muore di fame. Non per buonismo o per carità cristiana, ma più semplicemente perché si vive meglio in un mondo in cui tutte (tutte quelle che si possono raggiungere) le persone stanno decentemente bene. Mi pare inutile avere molti soldi, e dover vivere in una villa blindata per paura degli altri.

Il cibo è sacro, comunque la si pensi come orientamento religioso. Non è un prodotto come gli altri: non è un minerale, una crema di bellezza, un carburante per motori, un contenitore, un detersivo, un giocattolo, un tessuto. Forse assomiglia un poco al libro, sacro da tempo immemore per l’uomo, perché sia uno che l’altro, a chi sa leggerli, portano cultura, storie, informazioni e danno la vita, nel senso più semplice.


Stiamo perdendo questa sacralità. E questo è normale, perché le società, i comportamenti cambiano e si aggiornano. Mi par di notare che quel che si perde, in questi tempi nostri affrettati, non vada quasi mai verso il cambiamento, ma perso del tutto. Mi ci ha fatto pensare anche Massimo Angelini:

“… Un tempo il cibo si benediceva: oggi si sceglie, si giudica, si guarda con sospetto come una minaccia per la linea o la salute, si sciupa: nel tempo della carenza, invece, si teneva di gran conto e si benediceva con gratitudine.”[1]

Si benediceva il cibo, perché era comunque nutrimento e salvava la vita. Benedicendolo si scacciavano da esso gli influssi del maligno. Anche De Andrè, ne racconta, nella “Cimma”:

Cè serèn tèra scùa
carne tènia nu fàte nèigra
nu turnà dùa
e ‘nt’ou nùmme de Maria
tùtti diài da sta pùgnatta
anène via.

Quasi come a scongiurare la possibilità che quel cibo potesse far male. E la storia racconta di quanto fossero frequenti i casi di intossicazione alimentare, tanto per cattiva conservazione, parassiti, funghi o contaminazioni.

Infine tutte le domeniche, i cattolici ascoltano la benedizione dell’offertorio, che non suscita più nessuna emozione:

Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo:

dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane,

frutto della terra e del lavoro dell’uomo;
lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna.

Superate scientificamente e tecnologicamente le paure legate alla tossicità e alla carestia, il cibo è diventato un prodotto come un altro. Si può buttare. Anzi: si deve buttare. Perché i supermercati devono essere abbondanti. Tanto da sprecare la merce, perché noi consumatori compriamo in maniera più disinvolta dove c’è tanta merce, ci sembra di essere più ricchi, di poter disporre, di poter sprecare. E invece siamo sempre più poveri, sempre più deboli.

ALESSANDRO MARENCO


[1] Massimo Angelini, Acqua Benedetta, In Participio futuro. Dalla terra alla bellezza, per tornare al simbolo. Pentagora, Savona 2015.

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