I RACCONTI DI AVVENTURE

 
 
I RACCONTI DI AVVENTURE  di Franco Ivaldo

TRISTE SEPARAZIONE  TRA

GLI EQUIPAGGI DI DUE CARAVELLE

  RACCONTI DI AVVENTURE di Franco Ivaldo 

 

TRISTE SEPARAZIONE  TRA  GLI EQUIPAGGI DI DUE CARAVELLE

 

Il distacco tra quei due equipaggi in quell’estremo lembo di terra avviene tra le lacrime, insolito spettacolo tra gente di mare. Ma i corpi sono esausti, le volontà fievoli lumini che il soffio della sventura rischia di spegnere. Sulla Victoria sono in quarantasei. Comanda, ma con ben poco merito e parecchie incertezze, Juan Sebastian Elcano, neppure un comandante ma una sorta di primo inter pares.

 
Stessa situazione sulla Trinidad , dove “comanda” Gomez de Espinosa, condividendo le responsabilità con il genovese Giambattista Poncero, che aveva salito rapidamente la scala gerarchica divenendo “governador de la armada”. Ma entrambi, nei momenti più difficili, si rivolgeranno ad un solo uomo: Leon Pancaldo, il nocchiero più esperto di tutta la flotta, il marinaio che tutti ammiravano e quasi, segretamente, invidiavano per la sua distaccata sicurezza in ogni difficile circostanza. L’uomo che si fonderà quasi misticamente con la propria nave, conoscendone ogni segreto, ogni difetto, ogni pregio.

 

Era stato lui ad avvertire i comandanti: “La Trinidad, così com’è ridotta, non può farcela. Fermiamoci a Timor e ripariamola!” Un consiglio religiosamente ascoltato.

 Resteranno  cinquanta   uomini d’equipaggio. Alcuni di loro dovranno rimanere a terra per garantire i diritti della corona di Spagna sulle Molucche. Su Tidor e Ternate. Ma quali diritti ? Secondo la spartizione del Trattato di Tordesillas, colmo dell’ironia, le Molucche e le Isole delle Spezie, erano senz’ombra di dubbio nella sfera di proprietà del Portogallo, documento sancito dalla Chiesa di Roma, come un appendice della Donazione di Costantino. con il Trattato di Tordesillas. Da qui, i guai che aspettano dietro l’angolo delle Molucche l’equipaggio della Trinidad. Ma Spagna e Portogallo risolveranno le loro apparenti controversie, con l’esborso di corone sonanti. Carlo e Manuel, niente paura, sapranno mettersi d’accordo. Ubi major

Prima che la Victoria salpasse, gli equipaggi si erano scambiati saluti calorosi. Coloro che rimanevano avevano affidato ai partenti messaggi per le famiglie lontane. Chi sapeva scrivere aveva vergato frettolosamente qualche lettera. Gli altri si erano affidati alla parola.

Pancaldo aveva salutato tutti i compagni, particolarmente Pigafetta e de Judicibus.

“Martino, se arrivi a Savona vai dalla mia sposa Teresa e dille che tornerò. In qualche modo, tornerò.. Consegnale questo messaggio che ho scritto per lei. Non so scrivere molto bene. Ma in questa lettera c’è tutto il mio amore per lei.”

Pigafetta era commosso fino alle lacrime. Martino de Judicibus promise che sarebbe tornato a Savona ad informare la sposa di Pancaldo di come si erano dovuti separare ed in quali circostanze. De Judicibus mantenne la promessa, ma neppure lui, per lunghi anni, seppe più nulla di cosa fosse realmente accaduto a quelli dell’equipaggio rimasti sulla Trinidad.  

Ecco, dunque, che la Victoria  scioglie gli ormeggi e con un vento favorevole si allontana. Quelli della Trinidad  non si risolvono a staccarsi dai marinai dell’altra caravella. L’accompagnano con battelli e piroghe. Poi le barche fanno ritorno a terra, mentre dalla nave che si allontana – estremo saluto a chi rimane – partono salve di artiglieria

Erano trascorsi due anni e mezzo dalla partenza da San Lucar di Barrameda, il 20 settembre dell’anno di grazia 1519.

Per Leon, l’odissea, ricominciava. O per meglio dire, un’odissea prendeva termine, per lasciare il posto ad un’altra, forse, ben più crudele; durerà quasi tre anni.

Eseguite le riparazioni necessarie, in un cantiere del tutto improvvisato, con l’ausilio di tutti i  marinai, Gomez de Espinosa, assumendo il comando, decise che era tempo di issare le vele della caravella e di riprendere il cammino nell’Oceano, puntando verso Nord. La meta , era ovviamente la costa messicana, perché se da Panama si era visto l’Oceano Pacifico, costeggiando verso Settentrione, si doveva necessariamente trovare quel punto da dove si era affacciata la spedizione di Vasco Nunez de Balboa. Da lì sarebbero potuti tornare in Spagna, seguendo le rotte ormai abituali sull’Atlantico. Naturalmente, con un’altra imbarcazione, ma quella era terra conquistata dalla Spagna e, quindi, sicura.

 
Vasco Nunez de Balboa

 

La nave salpò. Non andarono, in verità, molto lontano. Si lasciarono alle spalle l’isola di Cyco, puntando verso Nord. 

I portoghesi stavano, del resto, erigendo una fortezza sull’isola di Ternate e quelle acque pullulavano delle loro caracche da guerra. Avevano il diritto di fare prigionieri.

La navigazione della Trinidad , uno scafo ormai insicuro, anche se la falla nella chiglia era stata riparata alla meno peggio, era molto lenta. Evidentemente, in quei luoghi privi di veri lavoratori del legno, la calafatura della nave non era stata eseguita bene. Travi, tavole, legname più piccolo per le riparazioni: Magellano aveva davvero pensato a tutto. Ma i cantieri non erano quelli di Siviglia o di San Lucar de Barrameda.

 

Soffiavano tremendi venti contrari. Le vele rischiavano di rompere gli alberi sotto quelle raffiche. Ogni giorno ed ogni notte, la perizia di Pancaldo aveva modo di manifestarsi in pieno sotto gli occhi atterriti dei compagni che, ormai, pensavano che tutto fosse perduto e che la caravella sarebbe andata ad infrangersi contro quelle rocce che venivano giù a picco sul lato destro della rotta. Le gomene scricchiolavano in modo sinistro; i segni di croce tra i marinai si sprecavano.

 

“Leon sei per noi l’inviato dalla provvidenza “ gli aveva detto Gomez de Espinosa, constatando che quell’uomo di mezza età asciutto, un po’ chiuso e taciturno, amante  della solitudine, con quell’aspetto dimesso e poco imponente, era in realtà un genio della navigazione, un maestro alla barra  della nave, un uomo-pesce come l’avevano ribattezzato , per celia, i compagni, tanto si sentiva perfettamente a suo agio su ogni mare, in quell’elemento liquido che, alla lunga, terrorizzava i più indomiti e coraggiosi.

Un pesce, che sapeva cogliere ogni sfumatura del mare, interpretare correttamente l’intenzione di ogni onda, la sua capacità di trasportare o di nuocere, di rovesciare, di perdere o di salvare.

Ed era anche un gabbiano, se è per questo. Non vi era vento che non anticipasse, portando la prua nella giusta direzione, profittando con un colpo d’occhio, quasi con un colpo d’ala nelle vele, dei mutamenti , per gli altri misteriosi, nelle condizioni del tempo. Osservatore acuto, lavoratore instancabile, abituato a sopportare condizioni di vita inenarrabili. Una forza della natura, un marinaio oscuro ma degno del massimo rispetto; infatti, chi lo conosceva di rispetto gliene tributava. Sempre. Era il nocchiero giusto al posto giusto: pronto ad affrontare le difficoltà del momento, con un distacco ed una freddezza quasi incredibili . Lui ce l’avrebbe fatta contro onde e maree.

Ma la Trinidad, al contrario del suo nocchiero, non ce la faceva più. Come una vecchia matrona gloriosa che ha allevato tanti figli, ma non riesce più a sorreggerli ed a malincuore si arrende.

 

 
La trinidad
 

Intanto, le provviste scarseggiavano a bordo. Ogni settimana, moriva di stenti un marinaio, come tanti erano morti, per le atroci difficoltà, in quella lunga agonia che era stata la traversata del Pacifico, agli ordini, di Magellano, uno dei pochi -assieme a Pancaldo –  a sopportare con stoicismo privazioni di ogni genere, spinto com’era dal sacro fuoco della ricerca di una gloria che per lui costituiva una rivalsa, anzi una vera e propria vendetta nei confronti dei cortigiani di Lisbona e del loro sovrano che lo aveva  crudelmente sottostimato.  

Magellano, in effetti, era stato mal ripagato per i suoi impegni marziali in Asia ed in Africa.

 Re Manuel lo guardava sprezzante ed incredulo per il fatto che un semplice uomo di mare potesse tener alta la fronte e non prostrarsi dinnanzi ad una corona. La tragedia per Magellano si era compiuta, restavano gli uomini dei suoi equipaggi, ostaggi di una sorte crudele. 

“Torniamo a Timor . Non può andare avanti così.” consigliò Leon a de Espinosa. Quest’ultimo si guardò bene dal mettere in dubbio la parola del suo primo pilota.

Se  lo dici tu! pensò tra sé lo spagnolo ed urlò alla ciurma: “Inversione di rotta. Si torna a Timor!” 

Il consiglio, impeccabile dal punto di vista tecnico, affrettò una situazione che era inevitabile. Una situazione ormai disperata e senza scampo.

La cattura della Trinidad da parte di una caracca portoghese, la “Rey Henrique”, che non diede alcuna possibilità di fuga o di salvezza allo sventurato equipaggio.

I marinai rimasti a Timor erano stati  già tutti catturati.

De Espinosa si arrese ai portoghesi e, nel consegnarsi, pareva quasi sollevato tanto quel compito di portare da qualche parte la sventurata caravella gli era sembrato, in verità,  troppo grande per le sue spalle.

Forse, pensava,  qualcosa si poteva ancora tentare. Ma come raggiungere le coste di Panama, come arrivare così lontano ? Impensabile, poi, di ripercorrere la rotta tracciata di Magellano, al punto in cui erano arrivati. Ecco, lì in quei frangenti si comprendeva come gli ammutinati della “Sant’Antonio”, i quali dopo la scoperta dello Stretto avevano invertito la rotta, in fondo, avevano avuto ragione.

Se il passaggio tra i due oceani era stato ormai trovato, perché proseguire in condizioni così pericolose con quel Mare del Sud, come lo chiamavano, lì davanti, sconosciuto, inesplorato, pacifico in apparenza ma minaccioso in realtà?

Del senno di poi – si diceva Leon, in quel momento – sono piene le fosse. Naturale, che si poteva tornare tutti a Siviglia. Annunciare al mondo la scoperta e poi ripresentarsi davanti allo Stretto con una nuova spedizione, bene equipaggiata, sicura. Quanti uomini, nostri compagni, pensava tristemente il marinaio savonese, sarebbero ancora in vita.  E, invece, sono morti. Durante la traversata. L’Oceano è stata la loro tomba. Più di duecento marinai avevano pagato con la vita quella folle impresa. Adesso, il destino era ancora del tutto ignoto per i superstiti. Certo non si intravvedevano rosee prospettive. Erano caduti nelle mani nemiche. Chissà da quanto tempo, la caracca portoghese  aveva giocato con la Trinidad come il gatto con il topo. Forse, dalla separazione tra la nave ammiraglia e la Victoria che proseguiva il viaggio verso Occidente. Ma in tal caso, anche .la Victoria era stata  individuata e lasciata ripartire… Una stranezza inspiegabile. Che c’era sotto ?

Vedendosi circondato dai portoghesi, il cui comandante ,  Joao  do Carmo, era salito a bordo con fare arrogante ed orgoglioso, Pancaldo esclamò con enfasi: “Voi catturate l’equipaggio di una grande nave, che ha scritto pagine gloriose sugli Oceani al servizio di un grande comandante come voi portoghese, che, tuttavia, non agiva per la corona del Portogallo né per quella di Carlo di Spagna , ma per l’ umanità tutta intera, senza confini, senza bandiere. Per la Cristianità che deve regnare sovrana sul mondo e sulle terre di coloro che non hanno ancora ricevuto il Verbo del Salvatore. Ciò che egli ha scoperto, la nuova rotta che ha tracciato appartiene al mondo alla Spagna ed alla Chiesa di Roma.”

Inutile allusione e riferimento alla fede comune. Il marinaio ligure solitamente taciturno, per una volta, in una condizione di estremo pericolo, aveva saputo trovare gli accenti di una eloquenza inusuale.

Joao do Carmo rispose con fare sprezzante: “Quel che avete scoperto  ci appartiene. Appartiene al Portogallo, quanto alla nuova rotta che, visto che siete qui ed avete navigato da Est ad Ovest, è ormai certa, non andrete a rivelarla al mondo tanto presto. Questo ve l’assicuro; la corona di Lisbona deciderà se farlo e in tempo opportuno. Quando e come lo decide re Manuel  sovrano cattolicissimo per il volere di Dio!  Questo dovete sapere e, per il resto, non mi pare abbiate molte speranze di rivedere le vostre terre in Europa. Non tanto presto, in ogni caso. ”

Si apriva, per i prigionieri, che verranno col tempo separati gli uni dagli altri, il carcere della fortezza di Ternate, i cui lavori erano in via di completamento. Una costruzione mostruosa con alte torri ed una massiccia fiancata. Da lì impossibile evadere. E poi, per andar dove ? Di fronte, soltanto l’Oceano sconfinato ed immenso.

In quelle celle umide e malsane i marinai fatti prigionieri dovevano trascorrere lunghi giorni, sorvegliati  da carcerieri che pure li ammiravano poiché, essendo anch’essi marinai, sapevano benissimo quale grande impresa  avevano saputo compiere.

Ma gli ordini erano ordini. Erano messi a lavorare duro:  un comando che Joao do Carmo aveva dato con particolare piacere. Sapeva che Magellano, in qualche modo, aveva tradito il Portogallo ponendosi al servizio di Carlo V e questo per un nobile portoghese bastava per indurlo ad un atteggiamento sprezzante nei confronti di quei marinai che avevano contribuito alla riuscita dell’impresa di quell’ammiraglio rinnegato. 

 Franco Ivaldo

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