I grillini e la tentazione dell’ideologia

I grillini e la tentazione dell’ideologia
Alle istanze popolari si risponde con la competenza, non con pregiudizi e luoghi comuni

I grillini e la tentazione dell’ideologia

Alle istanze popolari si risponde con la competenza, non con pregiudizi e luoghi comuni

 Il peccato originale dei partiti di sinistra, a cominciare dal Pci ora Pd, è l’ideologia. Quella che si presentava come una speranza per la classe operaia e una minaccia per la borghesia in realtà era un inganno per la prima e un salvagente per la seconda. L’ideologia, infatti, rimanda ad una letteratura, o, meglio, ad una interpretazione corretta della letteratura, ai suoi custodi, ad un clero insomma che si assume l’incarico di intermediario con le masse. Nel caso del Pci sono rivelatori i concetti di avanguardia rivoluzionaria, di coscienza di classe, nonché quello gramsciano di intellettuale e il ricorso continuo al ruolo dei dirigenti e dei militanti. Insomma per la sua stessa essenza il Pci, ma sarebbe meglio dire la sinistra tutta, non poteva essere un partito popolare o populista che dir si voglia.


Del resto, va riconosciuto che molti dei suoi attuali esponenti non hanno alcuno scrupolo nel mostrare una scoperta insofferenza verso il popolo e i suoi umori, preferiscono riferirsi ai risparmiatori, agli industriali o, in astratto ai “diritti” e al dovere dell’accoglienza. Non è solo una degenerazione o un tradimento di ideali e traguardi originari: anche un, fortunatamente, partitino come Potere al popolo, se godesse, e, fortunatamente non ne gode, di un più ampio consenso, tradirebbe i suoi elettori perché il potere intenderebbe affidarlo a se stesso, vale a dire ai piccoli “intellettuali” che lo incarnano, e non certamente al popolo, che per tutta la sinistra rimane un somaro da educare e guidare, un dormiente da svegliare iniettandogli la “coscienza di classe”, un elettore da abbindolare. 

Dove c’è ideologia c’è inganno, mistificazione della realtà, plagio, fanatismo, manipolazione delle coscienze.

Un movimento popolare, o populista, in quanto riflette esigenze ed esprime risposte relative a fattori contingenti, è incompatibile con l’ideologia a meno che questa non si risolva nella semplice affermazione dei principi sui quali si fonda il patto sociale e che fanno di un insieme di individui un popolo. Un popolo che, al contrario di quello che pensano i compagni, se non è tenuto in condizioni di minorità, guida e non è guidato dai governanti. Il popolo non deve essere educato, non chiede di essere educato ma, al contrario, deve essere ascoltato e obbedito, pretende di essere ascoltato e obbedito e lo fa con tanto maggiore forza quanto più si rende consapevole di sé.  E questa consapevolezza il popolo italiano l’ha mostrata il 4 marzo spazzando via i due partiti, Pd e Forza Italia, che si erano fintamente contrapposti con l’unico scopo di perpetuare lo statu quo, il sistema di potere del quale entrambi sono espressione.  


Se la maggioranza che è uscita dal voto popolare si è via via rafforzata assicurando al governo giallo-verde un consenso del quale nessuno dei governi succedutisi dal dopoguerra ad oggi aveva mai goduto, è per la convinzione, o la speranza, che Lega e Cinquestelle siano veramente quello che i loro avversari dicono che siano: sovranisti, populisti, ostili all’Europa di Bruxelles, una minaccia per il sistema e un pericolo di contagio per i Paesi dell’Unione. E che perseguano la liberazione dal giogo di regole dettate dall’asse franco-tedesco, mettano fine all’invasione che l’Europa se non ha favorito ha quantomeno tollerato, si impegnino a rimediare ai guasti compiuti da governi succubi dell’Europa mettendo fine a una politica di austerità che non ha nemmeno sfiorato i privilegi ma si è accanita sui più deboli, cominciando a liberarci dalla presenza sul suolo italiano di centinaia di migliaia di persone arrivate illegalmente, alle quali non solo è impossibile ma sarebbe profondamente ingiusto garantire una casa e un lavoro che mancano a milioni di italiani. Alcune di queste cose si è iniziato a farle, molto resta da fare su un cammino irto ostacoli ma la stella polare non sono le idee o gli ideali di chi è stato eletto, sono le ragioni di chi l’ha eletto.  Allora, se non si vogliono imitare gli svizzeri e fare un referendum su tutto, si usi almeno il buonsenso, non si perda di vista l’uomo della strada e, invece di cercare di stabilire cosa è giusto e cosa non lo è su questioni che lasciano indifferenti la generalità dei cittadini, ci si occupi dell’interesse generale, quale si rappresenta nella coscienza e nella volontà dei cittadini stessi. Niente ideologia, nessun partito preso ma pragmatismo e intelligenza. Il caso della terra dei fuochi è emblematico.


Che i termovalorizzatori non siano esattamente un orto botanico e che nessuno vorrebbe averli a cento metri da casa è ovvio; che sarebbero benvenute tecnologie in grado di sostituirli è altrettanto ovvio. Che quelle tecnologie non esistono è un fatto. Ma la spazzatura va comunque smaltita e la soluzione non può essere quella di pagare qualcuno che la smaltisca al posto nostro.

Ci sono questioni oggettivamente complesse che richiedono competenze specifiche e la consapevolezza che spesso non si può mirare al bene ma ci si deve accontentare del male minore. I trasporti pubblici, la mobilità in genere, i parcheggi e, per tornare al tema, lo smaltimento dei rifiuti appartengono a questa categoria. I politici, soprattutto quelli che pretendono di essere espressione delle esigenze popolari, devono affrontare queste questioni con discrezione e cautela. Di Maio, che pensa di risolvere il problema chiudendo gli occhi davanti alla realtà e cavandosela con dichiarazioni vuote come «non vogliamo passare dal business dei rifiuti al business degli inceneritori», pensa di avere a che fare con degli sprovveduti che si accontentano di slogan; ma Salvini che sentenzia che i termovalorizzatori sonno la manna dal cielo e “portan ricchezza” non fa meglio. Su Fico che straparla di tecnologie che non esistono è bene sorvolare.


Il problema esiste ed è grave e l’unica cosa seria che può fare la politica è quella di spronare la ricerca di soluzioni soddisfacenti. Con la consapevolezza che i Paesi di più avanzata industrializzazione inquinano meno dei Paesi poveri ed emergenti: pensare di tornare indietro è velleitario e allontana dal problema; bisogna guardare avanti, quanto meno quando si tratta di tecnologia. 

Ci sono questioni oggettivamente semplici e chiare, che non comportano contraddizioni, sulle quali principi e prassi coincidono e c’è solo da trovare lo strumento più efficace per affrontarle e risolverle.  Due di queste sono l’invasione e la sicurezza. Nessuna persona dotata di buon senso può sostenere la legittimità dell’ingresso illegale in un Paese: sostenerlo è una contradictio in adiecto. Ma se si tratta di singoli individui è un reato, se sono migliaia, decine, centinaia di migliaia è un’invasione. Si può tentare di coprirla in tanti modi, con la solidarietà, l’accoglienza, i diritti umani, è gente che scappa da guerre, persecuzioni, fame, cambiamenti climatici, ma si riesce solo ad aggravare con le menzogne e l’ipocrisia il dato semplice della collusione con l’invasore. Che sia un business o un complotto interessa poco. È un’invasione favorita da quinte colonne interne che sono obbiettivamente nemici del popolo e della Patria.


L’altra è la sicurezza, che non è un lusso o un grazioso regalo del principe ma uno dei cardini sui quali si regge lo Stato, tant’è che Hobbes teorizzava che quando lo Stato, il grande Leviatano, non fosse più in grado di garantirla i cittadini (sudditi, per il filosofo inglese) avrebbero il diritto di rivoltarglisi contro. Su queste due questioni, che poi sono strettamente legate fra di loro, non ci possono essere distinguo o esitazioni o retro pensieri. I governanti se ne devono far carico e le devono affrontare con la massima determinazione possibile. Spostare il focus sulla difesa personale allo scopo di fissarne i limiti è fuorviante, a parte la circostanza che con o senza armi in casa è ben difficile che il comune cittadino che non abita in ville sorvegliate da guardie private riesca a difendersi: se qualcuno ti piomba in casa è pressoché impossibile andare a prendere l’arma, infilarci il caricatore e togliere la sicura prima che l’aggressore ti abbia fatto secco, tanto più che tu sei mezzo addormentato, lui è sveglio e probabilmente eccitato dalla cocaina. Quindi, senza inutili dissertazioni, nei pochi casi in cui sia il malvivente a lasciare la pelle in casa d’altri nessuno pensi di dover sottoporre chi è riuscito a difendersi a indagini di sorta, semmai ci si congratuli con lui. Ma il problema vero è l’identificazione e la neutralizzazione delle cellule criminali, la sorveglianza delle strade, la presenza delle forze dell’ordine all’interno dei centri urbani e lungo le vie di grande comunicazione. Insomma la società civile esprime delle esigenze precise di fronte alle quali solo una cattiva politica oppone pregiudizi o ideologie invece di passare ad azioni decise ed efficaci.

 

Poi ci sono le infrastrutture, quelle cose che rendono possibile ai cittadini vivere e lavorare. Se i grillini sono convinti di essere stati mandati in parlamento da gente che quando vede un viadotto pensa allo sfregio recato al paesaggio sarà bene che si ricredano. I cittadini si aspettano che il viadotto sia ben costruito e manutenuto come si deve; mai e poi mai ne vorrebbero fare a meno. Se c’è una componente nell’elettorato grillino annebbiata dall’ideologia ambientalista che scambia la realtà per un villaggio vacanze che imita la vita di un presunto buon selvaggio, questa ne costituisce un’infima parte, la stessa che stava dietro ai defunti verdi di casa nostra. La grande massa degli elettori che si sono affidati ai Cinquestelle hanno creduto nella loro diversità, non in un ambientalismo banalizzato o in un delirio  pauperistico ma nella volontà di combattere il sistema di potere che ha distrutto il Paese e nell’impegno al contrasto alla corruzione e ai privilegi;  non sono, come vorrebbero i compagni e i forzisti, accattoni  in attesa di un sussidio, ma persone stufe di un regime che ha imposto il cappio dell’austerità a molti per salvare il benessere di pochi. Sulla qualità degli eletti non mi voglio ripetere: c’è solo da sperare che col tempo imparino qualcosa; il pericolo semmai viene da quello che già credono di sapere, dalle loro convinzioni, dai loro pregiudizi, dalla loro, appunto, ideologia. Che infetta loro, non i loro elettori, che, non a caso, cominciano ad abbandonarli. 


Ma io non mi auguro un’emorragia di voti grillini che si travasa nella Lega. Della Lega da sola non mi fido per niente, tantomeno di una Lega tornata nel centrodestra. Il movimento fondato da Grillo, nella sua natura profonda, esprime un bisogno di democrazia del quale, ai vertici, il solo Di Maio, nella sua apparente volubilità, pare rendersi pienamente conto; per fortuna rimangono ancora aperti canali che lo costringono a tenere dritta la barra nonostante le sirene piddine e gli appelli di Travaglio, simmetrici a quelli di Taliani alla Lega. Ed è questa sua intima natura che fa del movimento l’ingrediente necessario per mantenere saldamente la Lega nell’alveo del populismo. Esattamente il contrario di quello che pensano i nostri opinionisti: una Lega di destra e i Cinquestelle di sinistra. In realtà è proprio lo spostamento verso il populismo pentastellato che allontana il partito di Salvini dai suoi vecchi alleati. gli permette di non finire di nuovo dentro il recinto del sistema e gli dà la connotazione di destra autentica che ne fa il riferimento di quanti aspirano ad un’Europa libera dai burocrati di Bruxelles, dal guinzaglio della finanza e dalle ridicole pretese egemoniche franco-tedesche. 

Per concludere: il populismo non è un’ideologia ma semplice pragmatismo, così come il sovranismo è semplicemente rispetto – e orgoglio – della propria identità e della propria storia. E il pragmatismo non tollera pregiudizi, posizioni precostituite, ideologie: richiede, al contrario, un atteggiamento di ascolto e di apertura alla realtà. E sul tema con cui ho aperto: sentiamo quotidianamente le lodi della raccolta differenziata, alla quale noi cittadini diligentemente ci prestiamo. Ma sarebbe troppo pretendere che qualcuno ci illustrasse cosa succede dopo? Perché, almeno dove vivo io, resta un mistero profondo. 

Camicie nere e Brigate nere

Devo candidamente confessare che mi sfugge il senso dell’attacco un po’ isterico portatomi da una persona a me perfettamente sconosciuta salvo che nel nome, che già altre volte ebbe a ridire su quello che scrivo su questi Trucioli. Per quel che ricordo, prevalendo in me, almeno fino a livelli di guardia, la buona creanza sul gusto della polemica, gli risposi una volta lodandone la curiosità e l’impegno culturale senza entrare nel merito delle sue legittime opinioni. Quando sono costretto a valutare le opinioni altrui e a confrontarmici evito accuratamente di qualificare chi ho di fronte e mi limito a considerare quello che sostiene, poiché è quello l’oggetto del contendere, non la persona. Pertanto il revisionista, il sovranista, l’ammiratore del Duce di cui vengo gratificato li respingo al mittente, non potendo fare altro, vista la distanza.

Nel merito. Il corpo combattente delle Camicie nere venne sciolto dal maresciallo Badoglio nel settembre 1943 e con la Rsi non ebbe niente a che fare. Altra cosa è Il Corpo ausiliario delle squadre d’azione delle camicie nere, comprendente le Brigate Nere, creato alla fine di giugno del ’44 nella repubblica del nord per volontà di Pavolini. I documenti vanno saputi leggere. 

Et de hoc satis

  Pier Franco Lisorini

    Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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