Gli architetti di Savona

GLI SPAZI E LE ARCHITETTURE DELLA NOSTRA CIVILTA’
L’ho rivisitata anche quest’anno e insieme ai miei studenti ho potuto vedere nella Biennale di architettura a Venezia come la ricerca del progettare sia alla base dell’esigenza sempre più sentita di costruire una nuova civiltà. Per gli altri paesi del mondo. Non per noi

GLI SPAZI E LE ARCHITETTURE DELLA NOSTRA CIVILTA’
L’ho rivisitata anche quest’anno e insieme ai miei studenti ho potuto vedere nella Biennale di architettura a Venezia come la ricerca del progettare sia alla base dell’esigenza sempre più sentita di costruire una nuova civiltà.
Per gli altri paesi del mondo. Non per noi
 

 

Forse perché gli spazi nei quali ci riconosciamo sono sempre meno e, nelle nostre città, qualcun altro se n’è appropriato senza esserne proprietario, senza tenere conto che quegli spazi erano parte importante del nostro essere società. 

Mentre nei padiglioni allestiti per la Biennale, si respirava una nuova fiducia nell’architettura che diventasse finalmente spazio per comunità o per individui che lì potessero ritrovare i loro ideali e il loro vivere civile, ritornando nella nostra Savona ho rivisto un territorio, dove il costruito se non è la celebrazione di qualcuno (l’ imprenditore o il progettista), è qualcosa di anonimo e banale in cui si leggono solo richieste di buon gusto e funzionalità ignorate. O peggio, è tutto insieme.

 Gli architetti savonesi, in sintonia con i Bofill, i Botta e,(per un pelo!), i Fuksas, hanno perso da tempo l’attenzione tra la relazione che intercorre tra oggetto e contesto.

Ognuno disegna, progetta, propone e impone qualcosa che non è fatto o pensato per un territorio irripetibile o particolare come è questo pezzo di Liguria, ma ripetibile ovunque.

La torre Bofill o Orsero, il Crescent, le torri di Botta, il tornado di Fuksas, per fare esempi più eclatanti, i “Matitini”, le palazzate sul mare, ma anche altri più anonimi e anche peggiori dal punto di vista qualitativo, sono un’offesa a quanto dovrebbe essere l’aspirazione di un architetto: la compatibilità e il rispetto per un luogo preesistente.

I nostri luoghi: il porto di Savona, la costa, le nostre colline, sono diventati luoghi instabili. Edifici sempre più simili a plastici, fanno da cortina a una visione prospettica annullata, violata, persa. 

Dalle ammiraglie in poi la declinazione è iniziata e la ripetitività della mancanza di idee ha fatto il resto. 

Mentre il resto d’Europa si sta chiedendo quale mondo potrebbe essere quello del futuro prossimo e sta ponendo proprio l’architettura come protagonista del cambiamento, gli architetti a Savona collaborano con la classe politica a perpetrare un modello anacronistico di città, dove le volumetrie si sommano, le cause di dissesto pure, le innovazioni sulla qualità energetica degli edifici ignorate e le risposte ai problemi della viabilità urbana e suburbana trovano risposte peggiori al problema stesso, tra megaparcheggi e mega rotonde nel centro cittadino.

Un dipinto di Serena Salino sul consumo del territorio

 

 Quando verrà metabolizzato tutto questo e siamo proprio sicuri che avverrà?

O ancor peggio: gli architetti di Savona e gli amministratori che si sono succeduti se lo sono mai chiesto? 

Savona e le vicine città sono oggi quelle del “costruito” su quel vuoto urbano che oltre alle cubature d’inutile ma profittevole residenziale, di declinabili supermercati diventati meta, culto della gente e sono ormai svuotate di luoghi da passeggiare, da dialogare, da godere in un rapporto costante, dove si possa incontrarsi per comunicare e crescere nel suo senso migliore. 

Gli architetti savonesi sono invece silenti. Nessun dibattito, nessun confronto culturale per dire a quale architettura si stia lavorando?

Quale progetto di civiltà si potrà proporre alla classe politica che ci amministra?

Un’architettura soggettiva oppure una sociologica, o meglio una culturale, o forse semplicemente un’architettura urbanistica?

 

 Sarebbe straordinario poter almeno vedere il tentativo di lavorare per la fusione di queste caratteristiche, ma non è così.

Troppo lontani dal “riconcepire” un nuovo modo di progettare, come sistema e metodo, dove il ripensamento dei trasporti pubblici e privati, la costruzione di abitazioni con l’uso di risorse energetiche naturali, la risposta a problematiche sociali ed economiche nella legalità e il rispetto delle tradizioni del luogo siano la base di un nuovo tipo di sviluppo urbano.

 E il disegno del costruito come può diventare quello del luogo quando l’architettura è “deterritorializzata” come lo sono: gli anonimi blocchi vetrati scuri come i cubi di vetro nella darsena, le cortine curve di cemento giallo come la “palazzata” del Crescent, le torri riflettenti ormai sparse in tutto il territorio cittadino compreso quello insostenibile di quartieri inaspettati come quello di Grana ad Albissola Marina? E che dire dei palazzotti stile baita, nel materiale e nella morfologia, dall’inutilizzata ex capitaneria vicino alla Torretta a quelle del porto di Varazze, dei poderosi condomini nascenti sulle fragili colline del Valloria o in modo super aggregato come lo sono state quelle di Poggio al Sole , di aberranti blocchetti destrutturati verde pisello come quello in costruzione ad Albisola Superiore, in fregio alla ferrovia?

 Quali menti hanno potuto pensare quei volumi, quell’assenza tipologica indistintamente sparsa nei territori?

Quali sordità, quali compromessi hanno giustificato simili obbrobri?

 Nei nostri territori l’architetto non è certo l’artista e non è neanche l’artigiano del vissuto, l’analizzatore di funzioni, di spazi che colloquino col territorio.

E così mentre, ad esempio, l’Austria, a Venezia nel 2010, parla di progetto creativo attraverso strategie di sistemi energetici alternativi, il Canada parla di architettura legata alla dottrina filosofica dell’ilozoismo, la Repubblica Ceca parla di un’architettura in crisi perché sorda alle leggi della natura dalle quali ripartire, la Danimarca parla di agopuntura architettonica per migliorare gli spazi urbani della città, la Finlandia propone architetture scolastiche dove il senso di una nuova civiltà può avere luogo, e la Francia scopre il vuoto nella metropoli come spazio del vissuto, l’Italia affronta un nuovo orizzonte culturale senza poter ignorare la resistenza culturale col quale si è edificato per anni rifiutando la qualità, senza poter sfuggire alla critica storica dello stato dell’architettura italiana priva di prospettive e di legami con i luoghi, la gente, la storia e i problemi territoriali e morfologici.

 A Venezia è stato chiaro che l’Italia dovrà necessariamente partire da altro, dal dissesto provocato dalle mafie e dall’incuria, dall’insipienza che condiziona spesso la costruzione di un nuovo sviluppo culturale e territoriale. La Liguria e in particolare la nostra Provincia, le nostre città continuano evidentemente a ignorare il grande dibattito in corso che vede un’altra civiltà possibile che passi per un’architettura sapiente e coinvolgente.

Gli architetti savonesi forse culturalmente sottomessi alle “archistar” tacciono.

 

                                                               ANTONIA BRIUGLIA

 

 

Quadro di Serena Salino

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