Gli alberi vecchi non si sradicano

Gli alberi vecchi non si sradicano

Gli alberi vecchi non si sradicano.

La psicologia evolutiva ha ormai appurato che la cosiddetta terza età è tra le più complesse da affrontare, sia a livello psicologico che fisiologico. L’età dell’invecchiamento porta con sé la consapevolezza dell’avvicinarsi del fine vita, inevitabili cambiamenti nello stile di vita e, sovente, anche cambiamenti nella vita sociale e personale.
Nel delicato passaggio dall’età matura a quella senile è di fondamentale importanza cercare di mantenersi attivi sia a livello fisico che psichico, reinventandosi un ruolo sociale dopo l’uscita dal mondo del lavoro, magari impegnandosi nel volontariato o dedicandosi ad hobbies che offrano occasioni di condivisione. Anche nel contesto della vita privata i cambiamenti  che si verificano in questa fase della vita possono essere estremamente incisivi: i figli e/o i nipoti si sono resi indipendenti e hanno una loro vita in cui non si ha più un ruolo di primo piano, la vedovanza può imporre una solitudine forzata, le condizioni di salute possono inibire fortemente abitudini di vita consolidate. Inevitabilmente, con l’avanzare dell’età e con l’avvento di una nuova condizione di fragilità non solo fisiologica, ma soprattutto di carattere psico-emotivo, il soggetto anziano tende a compensare l’insicurezza con l’attaccamento alla propria casa, ai propri oggetti, soprattutto ai ricordi di una vita. Purtroppo il nostro modello sociale impone spesso condizioni di solitudine a chi entra nell’ultimo periodo della propria esistenza. A volte anche solo la presenza di piccole problematiche di autosufficienza (basti pensare a chi soffre di disturbi di ansia, o di atralgie), non necessariamente connesse alla presenza di gravi condizioni patologiche, o la lontananza dai parenti più prossimi, o ancora l’essere soli al mondo, possono costituire valide motivazioni per imporre un drastico e doloroso cambiamento: l’abbandono della propria casa, del proprio mondo sociale e, soprattutto, del proprio mondo interiore fatto di legami emotivi e di ricordi, per essere trasferiti in strutture dedicate all’assistenza degli anziani. Non necessariamente, infatti, si ricorre alla lungodegenza solo quando si è gravemente ammalati o non più autosufficienti. Appare evidente che un soggetto ancora in pieno possesso delle proprie facoltà intellettive e in buone condizioni fisiche, anche se consenziente ad un simile cambiamento, vada incontro ad un serio disagio legato alle nuove condizioni di vita, ciò vale ancor di più se l’ospedalizzazione avviene per compiacere i propri congiunti o per subentrate difficoltà economiche. Il rischio più concreto cui va in contro il soggetto anziano in buone condizioni psico-fisiche all’atto del ricovero in  regime di lungodegenza è quello di essere colpito dalla “Sindrome da Istituzionalizzazione”.
La sindrome da istituzionalizzazione è una condizione psicopatologica che è possibile riscontrare sia in soggetti sottoposti ad una lunga permanenza in istituzioni chiuse (come case di cura, ospedali psichiatrici, prigioni, orfanotrofi) sia anche in soggetti la cui struttura di vita sia improntata al rispetto di rigide e restrittive regole comportamentali (come ad esempio appartenenti ad ordini religiosi, sette, comunità isolanti, gruppi familiari problematici).
E’ denominata in Letteratura come “nevrosi istituzionale” ed è generalmente caratterizzata da chiusura in se stessi, indifferenza verso il mondo esterno, apatia, regressione a comportamenti infantili, atteggiamenti stereotipati, rallentamento ideico; è inoltre possibile che il soggetto elabori convinzioni deliranti di tipo consolatorio: i cosiddetti “deliri istituzionali” (ideazioni di cui il soggetto è radicalmente convinto ma che non presentano riscontri nella realtà oggettivabile). E’ utile sottolineare che questa sindrome si può manifestare sia in soggetti che al momento dell’istituzionalizzazione siano affetti da altre patologie (di tipo organico e/o di tipo psichico) che in soggetti le cui condizioni di salute siano oggettivamente definibili ottimali. Elemento comune alle situazioni che possono predisporre l’insorgere di questa patologia è la limitazione delle libertà individuali. Ci sono soggetti che manifestano i sintomi tipici della sindrome da istituzionalizzazione con livelli di sofferenza  molto variabili da persona a persona ma che appaiono seguire un decorso pressoché comune. Il soggetto che subisce un processo di istituzionalizzazione va incontro ad un progressivo depauperamento di stimoli sensoriali, emozionali e motori che, col tempo, produce un abbassamento del livello di autonomia personale e, contemporaneamente, induce un maggiore rapporto di dipendenza dal personale e, in senso traslato, dalla istituzione stessa.
Ovviamente la rassegnazione (termine meno tecnico di “istituzionalizzazione”) si nota in genere più pronta e probabilmente accompagnata da minore sofferenza interiore in Pazienti “soli” (privi di riferimenti familiari) che nella fase in cui sono autosufficienti vivono la struttura con un certo adattamento fino ad offrirsi in compiti ausiliari demandati al personale.

Sono i pazienti in cui il rapporto (cordiale fino alla familiarità) è limitato normalmente a una o due sole operatrici, mentre spesso appare indifferente se non ostile il rapporto con altre operatrici. Questa caratteristica pone un naturale quesito: l’Istituzionalizzazione è una sindrome i cui danni sono limitabili con un rapporto più sistematico con il paziente?

 Non è certo questo il momento delle conclusioni, ma è un dato facilmente constatabile che la formazione del personale operatore socio assistenziale si limita, al presente, a fornire poche nozioni pratiche relative alla sola cura e igiene del degente e nulla offre in merito alla capacità di rapportarsi con un altro essere umano in situazione di oggettiva sofferenza. La struttura per la terza età è una inevitabile allocazione di un essere umano allorché non è più possibile una sua permanenza nell’ambito sociale e/o familiare. E’ un luogo dove alle problematiche di natura strettamente fisiche si sovrappongono fattori che già di per sé predispongono l’avvento della sindrome da istituzionalizzazione in un soggetto. Sotto il profilo del problema sociale, l’anziano ha sostituito il malato psichiatrico. La struttura per la terza età, è pertanto una realtà più complessa di altre realtà istituzionalizzanti come la reclusione in carcere, le situazioni che portano all’accoglienza di un minore in un Istituto, le scelte di vita legate al modello socio-culturale in cui il soggetto è inserito (ad esempio l’intraprendere una carriera nelle Forze dell’Ordine o dell’Esercito, ma anche l’adesione ad ordini monastici e sacerdotali o l’appartenenza a gruppi religiosi integralisti). Sono tutti aspetti da ricondursi all’eziologia sociale della sindrome da istituzionalizzazione. Occorre ancora tenere presente inoltre che l’anziano istituzionalizzato ancora autonomo, non è solo privato della libertà, ma è anche sottoposto ad una continua sorveglianza, attiva e/o passiva, che preclude ed inibisce l’autonomia personale. Persino il possedere oggetti personali può essergli impedito. L’essere umano ha necessità di gestire un proprio spazio; la prossemica (disciplina che studia l’organizzazione dello spazio come sistema di comunicazione) evidenzia molto chiaramente che i confini, i contorni, le zone che ogni essere umano “disegna” attorno a se stesso, hanno significati profondi e radicati. La violazione pressoché costante di questi “confini invisibili” inevitabili in una struttura per la terza età, induce l’insorgere della sindrome da istituzionalizzazione. Formare il personale che opera nelle case di cura anche a comprendere e a supportare a livello psicologico i degenti appare, pertanto, di fondamentale importanza.

Giovanna Rezzoagli Ganci

http://www.foglidicounseling.ssep.it

 

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