Giovane di belle speranze

 GIOVANE DI BELLE SPERANZE

GIOVANE DI BELLE SPERANZE

 Ho 30 anni, con 5 di esperienza in quel di Savona. I miei genitori hanno finanziato in parte l’acquisto di un bar in centro; il resto tramite un mutuo bancario.

Sono stati 5 anni di declino: Savona ha sempre meno persone che producono reddito, e quindi meno capacità e propensione alla spesa. Però il capitale alla banca va restituito, anche se ho poi saputo che la banca ha semplicemente scritto dei numeri su un computer e che poi questi numeri diventano reali solo col mio lavoro, anno dopo anno. Sempre che gli incassi non scemino e le spese non aumentino. Ma questo alla banca non interessa: ti ho prestato 100 e me li devi restituire, con tanto di interessi. Per quel poco che ne so di finanza, mi sembra una forma lampante di parassitismo, alla faccia della Repubblica fondata sul lavoro. In più, è una forma di immissione di denaro nel circuito economico per poi risucchiarne in misura maggiore. Insomma, gli interessi sono un cappio al collo di quanti chiedono un prestito; e cioè ormai la maggioranza. Quindi, un cappio al collo della società. Niente di strano che vada sempre peggio.

 

 

Le banche creano il capitale dal nulla all’atto di darti un mutuo. Se poi se lo riprendono, più un interesse, depauperano il volume monetario circolante, perché l’interesse non c’era: solo le banche possono emettere denaro fresco. Ci salviamo solo grazie a chi fallisce e non estrae più soldi dal patrimonio monetario comune per darlo alle banche?  Ragioniamoci sopra.

 

 Questo meccanismo usuraio ormai è risaputo, basta visitare qualche sito web, ad esempio byoblu, dove vengono a parlare fior di economisti, naturalmente considerati eretici dal mainstream.

Insomma, dopo aver chiesto l’ennesimo aiuto a mamma e papà, pensionati non certo d’oro, ho provato vergogna e ho deciso di cedere l’attività e cercare lavoro a Milano. Città europea, città “del fare”, città dalle mille opportunità.

Prima cosa: cercarmi un alloggio. Niente da fare, bisogna dimostrare di avere un lavoro a tempo indeterminato: l’Araba Fenice. Il massimo che riesci a trovare, se sei bravo, è un lavoro “a chiamata”: quel genere di lavoro che ha fatto inorgoglire Renzi quando vantava che grazie al suo jobs act aveva moltiplicato i posti di lavoro, senza però aggiungere che tipo di lavoro. Ma per ottenerlo devi dimostrare di avere un alloggio. Il classico cane che si morde la coda.

Alla fine, grazie a conoscenze comuni, riesco ad avere un alloggio, certo non a Milano, con fiumi di ragazzi che ci vengono a studiare, portando gli affitti alle stelle. Più prosaicamente, lo trovo in un paese non proprio a due passi dal probabile posto di lavoro. I collegamenti sono talmente deficienti che è d’obbligo usare un mezzo proprio: uno scooter, nel mio caso. Se non altro per arrivare a Milano e acchiappare un mezzo pubblico. Fiumi di benzina, gomme e ammortizzatori sofferenti, causa le buche sulla strada: non ci sono i soldi per ripararle…

In questo modo ho potuto mettere il naso dall’altra parte della barricata, quella dei dipendenti. E scopro che, per non chiuder bottega, gli esercenti pagano in parte ai minimi sindacali, e il resto in nero, ovviamente al ribasso. A giustificazione, adducono gli stessi motivi che mi avevano spinto a mollare tutto a Savona: “se pagassimo di più il personale dovremmo chiudere”. E già, è solo sul personale che ci si può rifare delle spese fisse, che non ammettono trattative al ribasso. I controlli qui sono meni rigidi che a Savona, dove per ogni minima infrazione mi beccavo una multa.

 

Le periferie sono tutte uguali, e deprimenti.

Ma un precario non può aspirare a niente di meglio

 

Non mi resta che fare domanda di disoccupazione per i giorni che non lavoro. Sulla base dei contributi versati a Savona, mi spetta un importo tot mensile per tot mesi. Serviranno a farmi mangiare e pagare l’affitto nei giorni che resto a casa; e sono tanti: a chiamata puoi lavorare massimo 13 giorni al mese. Una misura varata per tutelare i dipendenti gli si ritorce contro.

Sorpresa: l’indennità mi arriva con 4 giorni di ritardo rispetto all’11 del mese. Non solo: è circa un terzo del dovuto. Chiamo l’Inps, ma riesco a parlare soltanto con dei call center, che al termine delle mie rimostranze per le mancate risposte, buttano giù il telefono. Il resto arriverà il mese prossimo, non si sa in che data, mi dicono. Ma la mie scadenze non accettano questi rinvii a caso; e se non pago non mangio, non pago le bollette, l’affitto, il mutuo, che prosegue imperterrito. E allora? Chi se ne frega, si arrangi!

Cerco disperatamente un secondo lavoro, tentando di farlo incastrare col primo come orari: una discoteca. Il discorso emolumenti non cambia. Di più, devo rientrare alle 3 o 4 di mattina, quando di mezzi pubblici neanche l’ombra. Una sera, all’uscita dalla discoteca, dove peraltro si scopre un mondo a sé, fatto di bravate, di sniffi e anche di risse, mi fermo ad un distributore automatico di sigarette. Vengo colpito alla testa, rapinato dei 4 soldi che avevo nel borsello e rimango a terra sanguinante. L’intervento di un tassista è provvidenziale per trasferirmi all’ospedale.

Tirate le somme, non sono più tanto convinto che lasciare Savona sia stata una scelta saggia. Ben misera scelta, comunque, tra due mali, di cui non saprei dire quale sia il minore.

A Milano ho avuto modo di incontrare tanti altri giovani, arrivati lì con le mie stesse motivazioni e intenzioni, e tutti disillusi di fronte ad una società che ci respinge e ci umilia con lavoretti precari e paghe da fame. Non vale solo per i rider.

 

Culle da riempire, possibilmente di italiani

 

È il bello della globalizzazione, tesoro: competizione di tutti contro tutti, senza tutele, senza certezze. E tutti che piangono le culle italiane vuote. Mi dite come potrei metter su casa e permettermi addirittura il lusso di fare, non dico due o tre, ma anche un solo figlio, per quel senso di continuità attraverso la prole che ha sempre caratterizzato ogni umana società?

Già, ma è una società questa, dove ogni altro è un concorrente, un avversario da battere, insomma un nemico? Ama il prossimo tuo… Talmente prossimo che ce lo sentiamo proprio addosso, mentre facciamo la fila davanti ai cancelli di una fabbrica in attesa di un posto ogni cento di noi.

Adesso leggo che Savona sarà molto danneggiata dalla “guerra dei dazi”. Dazi, dogane: nomi che evocano società sino a ieri definite retrive, chiuse, anti-democratiche. Quindi, il “tutti contro tutti” vale anche a livello di nazioni. Fino a ieri ci hanno riempito la testa con le magnifiche sorti e progressive di un mondo senza più confini per uomini e merci. E abbiamo finito col crederci. Per poi ricrederci, e oggi per sconfessarlo. Anche qui, pendoliamo tra due mali, senza capire quale sia il minore. Anche perché le strade intraprese, vedi l’euro, sono architettate in modo che siano senza ritorno: one way.

Il movimento sovranista ha oggi facile successo, sulle miserie del globalismo. Ma nel contempo leggo di tutto e di più da parte del mainstream contro di esso, anche se io lo vedo come il modo per un’etnia (non oso usare altri termini!) di prendere in mano il proprio destino anziché affidarlo a terzi. Sembra che il popolo sia tornato ad essere bue per le classi dominanti, quella degli illuminati, che soli conoscono cosa sia meglio per “l’interesse dell’Italia”, come ogni politico non fa che sentenziare al termine di ogni discorso. 

 

Giorgia Meloni: una donna che si batte per ridare agli italiani i diritti che gli spettano; e all’Italia l’autonomia finanziaria che le è stata scippata

 

 Così, niente più elezioni popolari, solo sterili sfoghi su talk show serali, dove ognuno grida il proprio slogan di convenienza, ma nessuno tocca mai i punti nevralgici all’origine del diffuso “male di vivere”. Ma loro non conoscono questo male, almeno in prima persona. Magari gli capita attraverso i figli, che certo non vivono le nostre traversie, ma respirano la nostra stessa aria fetida e finiscono col drogarsi, come tanti di noi, col cadere in depressione, come quasi tutti noi, costretti ad esistere, ma non a vivere, come ha detto la neo-duchessa Megan Markle d’Inghilterra, che pur dovrebbe essere all’apice della felicità. 

La nostra è la società della fretta: fretta di distruggere a colpi di mazza il nostro passato, senza saper costruire un futuro almeno accettabile per la maggioranza. Il clima è il maggior tribunale del comportamento delle elite che ci hanno condotto in questo formicaio. Un tribunale molto severo, che non fa sconti di pena, ma che colpirà per prime le classi più basse, per risalire verso l’alto soltanto dopo. Purtroppo.

Lo so, la mia è una lettera sconfortata; ma la favoletta del “bicchiere mezzo pieno”, del “pensare positivo” che politici e presentatori radio-televisivi continuano a propinarci, con noi giovani precari non attacca. Funziona solo se si ha la pancia piena…

 

  Marco Giacinto Pellifroni    27 ottobre 2019

 

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