Funivie e ospedale

FUNIVIE E OSPEDALE

FUNIVIE E OSPEDALE 

Pare che la prima idea fosse venuta a Carissimo e Crotti ai primi del Novecento. Chissà cosa devono aver pensato i cittadini, i buoni borghesi commercianti della città; e ancora di più che cosa si saranno detti, dandosi di gomito, gli abitanti di quelle colline, dietro Savona, a veder muovere terra e macchine e acciaio e cemento: tutte cose mai viste, da quelle parti.

Eppure i vagonetti hanno cambiato il paesaggio del savonese da ormai più di un secolo. E dietro a quell’idea (a quel tempo sicuramente considerata anche un po’ strampalata, o se non altro inusitata) c’è ancora oggi qualcosa di buono, di molto buono: tolto l’impatto visivo (che finisce per essere quasi un marchio distintivo) i vagonetti sono silenziosi, inquinano poco, non ingombrano strade e parcheggi, possono viaggiare con qualunque tempo. E se è da più di cent’anni che viaggiano avranno pure ripagato l’ammortamento.


Tutto è nato perché il porto di Savona sarà pure un buon porto, riparato e accogliente. Ma quando hai finito di scaricare tre cassette di bughe e due di sugarelli, la banchina è piena. E alla fine dell’Ottocento, avere un magazzino, significava avere la possibilità di amministrare i beni di produzione, cioè di mettere le mani direttamente nell’economia di una nazione.

Per risolvere il problema si pensò dunque di allungare la banchina. In un’altra città si sarebbero ammarate pietre, costruiti pilastri e frangiflutti, qui, nel savonese, che siamo un po’ strani da sempre, abbiamo allungato la banchina fino a dove c’era del posto per scaricare il carbone: San Giuseppe di Cairo, a una ventina di chilometri oltre i boschi. E guarda caso c’era pure uno snodo ferroviario importante, che univa Alessandria, Savona e Torino.

Non che prima non ci fosse nulla: quelli erano i campi migliori dei marchesi: pianura alluvionale, fertile, vicino all’acqua. Ma il progresso vuole sacrifici, per cui da campo dorato di grano, quel tale luogo diventò nero deposito di antracite.


Per noi della Valbormida quel deposito è l’inizio del grande cambiamento. Si, lo so, la prima industria (o proto industria) era quella del vetro, dalle origini oscure e antichissime. E pure quella del ferro (basti ricordare i tanti toponimi “Martinetto”, “Ferriera”, “Ferrè”, o i cognomi “Ferraro” e “Ferro”), e se vogliamo la prima fabbrica moderna dovrebbe essere quella del “Dinamitificio Barbieri” di Cengio. Ma in ogni caso dobbiamo riconoscere che è stato il carbone a cambiare le cose radicalmente. Non solo deposito, ma anche trasformazione. E dalla trasformazione si scarta e si recuperano un sacco di prodotti chimici adatti per fare esplosivi, coloranti, concimi chimici, azoto. E gli esplosivi hanno per base un prodotto (un tempo) molto simile alla pellicola cinematografica. E tutte queste industrie hanno bisogno di aria e acqua pulita, viabilità, posizionamento defilato, mano d’opera a basso costo e con basse spinte rivoluzionarie.

Il resto credo sia abbastanza noto. Soprattutto nella parte declinante degli ultimi anni. Forse i motivi che hanno condotto alla crisi attuale sono molto più complessi e organici di quelli che avevano condotto alla crescita industriale. Diciamo pure che la realtà è sempre più complessa, e che se le spinte rimangono quelle che sono sempre state, le relazioni tra persone, capitale, lavoro, società, istituzioni, nazioni e mondo, sono sempre più veloci e ramificate.

Ma ho cominciato parlando in ambito locale, e qui vorrei restare, perché non ho capacità o visione sufficienti per affrontare livelli più alti.

Come in un gioco, muovo casualmente tessere di un mosaico, senza un piano, senza competenza, giusto per provocare dei corto circuiti, perché da idee forse grossolane, possa venire una piccola scintilla per chi ha la sensibilità adatta a svilupparne un fuoco.

Se è vero che la Valbormida è sempre stata il prolungamento ideale del porto di Savona (e non solo del porto) allora sarebbe opportuno immaginare il futuro di Savona come se comprendesse davvero anche la Valle. Quel che fisicamente ci divide si chiama Cadibona, ed aveva un suo bel perché, visto che ci avevano pure costruito un forte in cima. Ma ora non dovrebbe più servire. E infatti abbiamo costruito autostrade e ferrovie intorcinate, aggrovigliate con i nostri boschi.


Ospedale di Cairo

 Metto assieme un’altra tessera: che vogliamo fare dell’ospedale di Cairo? Chiuderlo? Declassarlo? Ridurlo a un cronicario con un punto di primo intervento? Pare che raggiungere l’ospedale di Savona sia un problema, ed è vero: strade trafficate e piene di curve, rischiose d’estate e terribili d’inverno. Ma a quanto so, anche arrivare dal centro di Savona, o da Quiliano, fino a Valloria non è proprio semplice e veloce.

E allora? Be’, il mio cortocircuito mi dice che bisognerebbe chiudere l’ospedale di Cairo, mentre  l’ospedale di Savona dovrebbe sorgere a Cairo, nell’ampio spazio lasciato dalle industrie defunte.

Se siamo stati un prolungamento della città per tanto tempo, a maggior ragione potremmo esserlo anche oggi, con una adeguata struttura ospedaliera, in un ambiente sicuramente più salubre che quello cittadino, togliendo traffico e difficoltà logistiche alla città, costruendo (con comodo) tutte le strutture che consentono a un ospedale moderno di lavorare bene, ospitare, amministrare, fornire primo soccorso. Sicuramente potrebbe essere un punto di riferimento non solo per la vicina città, ma anche per il basso Piemonte.

E i soldi? Fermi tutti! Non sono un economista. Ma la collina di Valloria credo possa dare qualche spunto interessante come area di sviluppo residenziale. E di più non dico.


Ospedale di Savona

Resta evidentemente da risolvere, e per il meglio, la questione dei trasporti pubblici e delle strade. Questo si. Su gomma non saprei come organizzare la cosa. Ma se sono riusciti a fornire Ferrania (ormai chiusa) di svincoli e ponti in poco tempo, magari si può pensare lo stesso della piana di Cairo, per servire un ospedale. Senza contare che sarebbe ora di sviluppare la famosa metropolitana leggera tra Savona e Cairo (almeno) che è da una vita sul tavolo dei grandi progetti.

Resta ancora la questione carbone, dopo tanti anni. Speriamo che tutto vada per il meglio, che le industrie supersiti abbiano il loro lavoro. Però se si cominciasse a vedere una certa crisi, sarebbe interessante prevedere l’assunzione del personale della cokeria nell’ospedale e la contestuale chiusura degli impianti, senza aspettare d’essere presi in giro da qualche imprenditore con progetti fantascientifici. E magari far diventare la funivia un mezzo di trasporto adatto alle persone, moderno, silenzioso, antico di cent’anni eppure attuale, una curiosità anche per i turisti.

Ma già, queste sono tutte boutade. Meglio stare incolonnati sull’Aurelia e sperare che il carbone e le auto siano ancora al centro dell’economia.

Alessandro Marenco

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