Fra servilismo e senso di responsabilità

Fra servilismo e senso di responsabilità
I cittadini in un Paese libero non sono scolaretti da comandare a bacchetta

Fra servilismo e senso di responsabilità
I cittadini in un Paese libero non sono scolaretti da comandare a bacchetta

 Fra il divieto e l’imposizione c’è una grande distanza concettuale etica e politica. Il divieto non intacca la libertà personale ed entra a pieno titolo come corollario del diritto soggettivo alla tutela della proprietà e della persona. Una società ben ordinata in quanto tale impone dei divieti ai suoi membri senza per questo scadere nell’autoritarismo.  Il divieto è una prescrizione negativa: segnala cosa non si deve fare, dove non si può andare, dove non si può entrare. Se tutti i divieti fossero rispettati si vivrebbe meglio: le spiagge sarebbero più pulite, si potrebbe camminare sul marciapiedi senza problemi, in macchina si circolerebbe con maggiore tranquillità e sicurezza. Va da sé che debbono essere giustificati ma anche quando non lo fossero o fossero opinabili, come il divieto di entrare in un locale pubblico senza cravatta, non ledono né la dignità né i diritti. L’imposizione è ben altra cosa: se il divieto impedisce di fare qualcosa l’imposizione obbliga a fare qualcosa e questo può incidere gravemente sulla dignità e sulla libertà della persona. Perché se è vero che all’interno di un gruppo uno non può fare quello che gli pare è anche vero che un sistema sociale dove si è costretti a fare quello che pare a un altro è formato da incapaci, schiavi o prigionieri. Tuttavia ci sono degli ambiti e delle circostanze nei quali le imposizioni sono inevitabili. L’obbligo scolastico, per esempio, va rispettato anche se i genitori non sono d’accordo, l’obbligo di portare gli occhiali se si hanno problemi di acuità visiva e si vuol guidare un’auto va rispettato, l’obbligo di assolvere al servizio militare, ove sussista, va rispettato. In tutti questi casi è in gioco il bene della comunità, la sua sicurezza, il suo futuro.

 


Vi sono dei Paesi in cui le donne sono obbligate a portare il velo. Non lo fanno per consuetudine, per tradizione, per convinzione e scelta personali; lo fanno perché sono costrette a farlo, lo fanno per evitare di essere punite. Chi le costringe pensa di essere nel giusto: l’ha ordinato il Profeta (l’ha ordinato anche Paolo di Tarso ma almeno su questo i cristiani non l’hanno spuntata). Quando frequentavo le scuole medie la burbera insegnante di francese entrava in classe ingiungendo: “disons la prière!” e tutti in piedi a recitare in coro Notre père qui es aux cieux…, compresi i miei compagni ebrei. Brava persona che ricordo volentieri ma commetteva un’intollerabile prevaricazione, che i tempi di governo democristiano – buono o cattivo che fosse – consentivano. Prevaricazione intollerabile ma tutto sommato innocua, una filastrocca vale l’altra. È andata peggio al mio giovane amico pakistano: arrivato all’età giusta e con uno stipendio sicuro la famiglia ha deciso che dovesse prender moglie ed ha incaricato i parenti rimasti a Lahore di procurargliela. L’ha vista per la prima volta il giorno delle nozze. In Corea del Nord le prescrizioni scandiscono la giornata dei disciplinatissimi sudditi del caro leader che si possono consolare al pensiero che il compagno Pol Pot non si accontentava di sfilate e coreografie ma spediva medici e professori a zappare la terra, quando non direttamente sotto terra.    


Le prescrizioni presuppongono la capacità di imporle e la disponibilità a subirle. I regimi totalitari, che sono una variante di quelli autoritari, cercano di evitare le prescrizioni puntando sulla adesione spontanea, sulla fede, sull’obbedienza spontanea, sull’identificazione col capo. S’intende che quando questo non riesce mostrano il loro volto violento. Il potere della Chiesa è stato una perfetta realizzazione storica di questo modello, eguagliato dalle fortunatamente brevi, almeno in Europa, esperienze comuniste. Del resto che il modello clericale e quello comunista sono sovrapponibili è evidente.


Ma in democrazia ci sono regole non ci sono prescrizioni, c’è adesione o dissenso non c’è obbedienza, c’è rispetto di norme condivise, non c’è disciplina. La disciplina lasciamola ai soldati e agli scolari. Il soldato che sul teatro operativo pretende di pensare con la sua testa è un pericolo per  sé e per tutto il gruppo; il bambino, ma anche l’adolescente, restii ad obbedire non cresceranno mai. Per diventare adulti bisogna imparare ad obbedire ma l’età adulta non è più quella dell’obbedienza: è l’età del pensiero libero, del pensiero critico, del contrasto e della contrapposizione. Cose che preti e comunisti non hanno mai concepito. Per i comunisti chi non si allineava era un traditore, il diverso, l’eccentrico erano motivo di disordine, una minaccia per il sistema. Ma attenzione.


Non è tanto importante su cosa si debba essere allineati, in quale ambito si debba essere docili e conformisti quanto il fatto in sé che si possa imporre la linea, che si possa fare assegnamento sulla docilità, sul conformismo, sull’obbedienza. Ieri l’adulterio, il disordine sessuale, l’omosessualità erano crimini per i compagni: dopo avere un po’ tentennato sulla famiglia borghese ed essere stati tentati da quello che chiamavano il libero amore avevano optato per la maschia semplice ruvida fedeltà del lavoratore senza grilli per la testa tutto casa fabbrica alla devota fattrice di piccoli pionieri. Cambiano i tempi cambiano i contenuti ma il metodo è sempre lo stesso, e ce ne dà la dimostrazione il compagno Zingaretti, il falso bonario Zingaretti, che qualche giorno fa caldeggiando l’obbligo delle mascherine anche all’aperto diceva che al di là del merito è importante che gli italiani si abituino ad inquadrarsi e a rispettare le regole, quali che siano. Purtroppo gli italiani sono anche troppo inquadrati, obbediscono senza fiatare alle imposizioni più ridicole e assurde. Nel periodo di reclusione hanno dato una pessima prova di sé facendosi rinchiudere in casa, dove il contagio ha avuto modo di sbizzarrirsi.


Ora, più realisti del re, li vedi in sella allo scooter o nell’abitacolo della loro macchina con la mascherina incollata alla faccia. E per favore non si faccia passare il servilismo per senso di responsabilità. Siamo arrivati al punto che il Cicisbeo si è permesso di dettare perentoriamente – senza poterli, almeno per ora, imporli – i comportamenti da adottare dentro le mura domestiche. Dove assolutamente, che si segua Hobbes piuttosto che Locke o Rousseau piuttosto che Fichte, lo Stato e i Governo non devono ficcare il naso perché sulla soglia di casa il patto sociale perde la sua efficacia.

 Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

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