Fra scepsi e mathesis

FRA SCEPSI E MATHESIS
Il lungo cammino del pensiero occidentale
alla ricerca del senso delle cose

FRA SCEPSI E MATHESIS
Il lungo cammino del pensiero occidentale
alla ricerca del senso delle cose

 E’ il titolo con il relativo sottotitolo del volume scritto dal prof. Pier Franco Lisorini, docente livornese di filosofia in pensione che, come annota egli stesso in quarta di copertina, collabora da anni a questa “rivista online (della quale non riesce proprio a formulare il titolo per esteso, non sono ancora riuscito a capire perché) con contributi su temi di attualità”.

Si tratta di un lavoro impegnativo che parte dai presocratici e approda quasi ai giorni nostri, dico quasi perché il lungo cammino del pensiero occidentale, secondo il prof. Lisorini, non può andare oltre il Novecento, dato il “generale involgarimento della cultura che caratterizza l’alba del nuovo millennio. Un involgarimento e una banalizzazione incompatibili col filosofare, per il quale resta solo la possibilità di tornare alle proprie origini”. Malgrado questo scacco finale vagamente scettico e nichilistico, Fra scepsi e mathesis rimane pur sempre una sorta di coinvolgente e perspicuo itinerario filosofico che potrebbe benissimo, con l’aggiunta di alcune integrazioni, di qualche correzione e di alcuni necessari approfondimenti, diventare un ottimo libro di testo adottabile nei licei, alla pari di classici manuali come il Reale, Antiseri; o l’Abbagnano, Fornero; o il Berti, Volpi…Basta infatti scorrere l’indice del volume per rendersi conto che ci troviamo innanzi a una originale interpretazione-rielaborazione dei temi e delle questioni filosofiche fondamentali pensate, discusse, insegnate, confutate, dimenticate o riscoperte e tornate attuali da duemilacinquecento anni a questa parte. Naturalmente, data la vastità della materia, non si può pretendere un quadro completo ed esaustivo del “pensiero occidentale” nello spazio di duecentoventuno pagine, è chiaro che l’autore ha dovuto per forza di cose sorvolare, omettere, trascurare, quando non saltare a piè pari alcuni importanti filosofi (penso a Senofane, a Sesto Empirico, a Filone d’Alessandria, a Tertulliano, a Gregorio di Nissa, a Marsilio Ficino, a Machiavelli, a Montaigne, a Montesquieu, ad Antonio Rosmini, a Vincenzo Gioberti, a Giuseppe Mazzini, a Bertrando Spaventa e ad Antonio Gramsci, per citare i primi nomi degli esclusi che mi vengono in mente)  e alcuni argomenti a vantaggio di altri che, evidentemente erano più, come si dice, nelle sue corde. 

Ma cominciamo dall’inizio, cioè dal titolo e dal sottotitolo: la parola greca ‘scèpsi, dal verbo ‘scheptomai’ cioè ‘osservare’, indica l’osservazione critica circa il valore universale della verità; mentre ‘mathesis’, dal verbo ‘manthano’ cioè ‘imparare, apprendere’, significa apprendimento. Il sottotitolo specifica che si tratta del lungo cammino del pensiero, cioè della facoltà di pensare, come si è svolta in occidente, tesa alla ricerca del senso delle cose, vale a dire degli enti, di tutto ciò che è; le “cose” significano questo, se no che cosa d’altro? E magari anche il senso di questo cercare senza trovare, dal momento che, giunti alla fine di questo lungo cammino, come si notava all’inizio, il senso ultimo delle cose non è ancora stato trovato e tutto lascia credere che non lo si troverà mai. Questo ci dice, a me pare, il sottotitolo, anticipando la sconsolata conclusione scettico-nichilistica dell’autore. Ma quando è cominciato questo cammino lungo e tortuoso, stretto e a tratti scosceso o ripido e per niente rettilineo, tra dubbi metodici e certezze matematiche, ma in ogni caso critico nei confronti delle verità rivelate e dei dogmi tramandati dalle caste sacerdotali? Quando si passò, nelle colonie greche in Asia Minore e nell’Italia meridionale tra il VII e il Vi secolo a. C. (uso le parole medesime dell’autore) dalla credenza collettiva nelle narrazioni mitiche alla riflessione personale: “Nei miti greci distinguiamo una componente esteriore, scenografica, rigida – spiega l’autore – che si esprime nelle forme del rito e negli aspetti politici della religione, e una componente allegorica, di significato flessibile che è materia letteraria e base per una riflessione personale. Questo è il punto di intersezione fra mito e filosofia. Il mito per eccellenza è quello della creazione. Il mito, come si è detto, è una storia, una narrazione, una modalità di spiegazione attraverso una storia. Se si astrae dalla storia e se ne estrae un’idea, si abbandonano il mito e le sue figurazioni per sollevarsi al livello dell’elaborazione razionale …”. 

Perfetto! Il prof. Lisorini prosegue dunque citando come testimoni i pensatori della cosiddetta scuola di Mileto: Talete, Anassimandro, Anassimene, tutti e tre accomunati dall’idea “della riduzione all’unità della molteplicità delle cose e dal salto logico rispetto alle rappresentazioni concrete del mito”. L’idea dell’uno – tutto – che Anassimandro definisce come “arché”- di Talete si concretizza, per così dire, nell’elemento dell’acqua; per Anassimandro nell’illimitato o sconfinato o infinito (apeiron) e per Anassimene nell’aria. L’autore cita opportunamente l’unico frammento rimastoci dell’opera di Anassimandro: “Principio di tutti gli esseri è l’infinito. Lì infatti tutto ha origine e tutto rovina necessariamente perché tutti gli esseri debbono reciprocamente pagare la pena ed espiare l’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Su questo enigmatico frammento. o detto, si è soffermato anche Martin Heidegger commentandolo dal punto di vista della sua ontologia fenomenologica ed ermeneutica: “Si tratta di quel Medesimo che, in maniera diversa, investe, in conformità della sua struttura, i Greci e noi. Si tratta di ciò che porta il mattino del pensiero nel destino (Geschick) della terra della sera…” (cfr: “Il detto di Anassimandro” in Sentieri interrotti, La Nuova Italia; Firenze). 


Questo frammento, chiosa il prof. LIsorini, “adombra una visione cupa di una realtà che nel processo del suo divenire distrugge continuamente le sue trasformazioni; le molteplici forme in cui si manifesta, per rimanere eternamente uguale a se stessa”. Il pensiero occidentale; così per Heidegger come per il prof. Lisorini, non nasce sotto i migliori auspici. D’altra parte anche Eraclito di Efeso, famoso per l’oscurità del suo stile, almeno su un punto è stato chiaro: in uno dei suoi frammenti più celebri e celebrati – inspiegabilmente non citato dal prof: Lisorini – afferma che ”Pòlemos (la guerra) è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dei e gli altri come uomini; gli uni fa schiavi, gli altri liberi” (Fr. B53 D.K.). Va anche ricordato che Eraclito è stato il primo nella storia del pensiero occidentale a indicare nel logosla regola o la legge universale, che è insieme ragione e necessità, secondo la quale avvengono e divengono tutte le cose, ma di questo logos (che significa anche discorso parlato o scritto) gli uomini rimangono inconsapevoli, così prima come dopo averlo ascoltato. Da simile concezione aristocratica e oracolare della realtà anche sociale, il prof. Lisorini sembra prendere le distanze: “L’ideale esoterico; antipedagogico; ostile alla volgarizzazione, tanto diffidente nei confronti del numero quanto ripugnante all’ovvio, al conforme, alla banalità del senso comune non è solo di Eraclito ma sembra essere una caratteristica costante di questa stagione della filosofia greca”. E’ la stagione dei cosiddetti presocratici o naturalisti, fioriti; come si è detto, soprattutto nella Ionia, a Mileto, a Efeso, a Clazomene, a Colofone, a Samo; ma anche in Italia meridionale; ad Elea, ad Agrigento, a Crotone dove tennero scuola rispettivamente Parmenide; Empedocle e Pitagora. Parmenide è presentato come l’apparente antitesi di Eraclito: “Niente cambia, la realtà è sempre uguale a se stessa, la verità è immutabile ed eterna”. E aggiunge che se non si percorre la via illusoria dell’opinione (della doxa), ma si procede sulla via della verità, alla fine si trova il vero essere e non l’ente; in quanto, alla fine come all’inizio, “pensare ed essere sono la stessa medesima cosa”. 

Su Anassagora e su Empedocle l’autore si sofferma maggiormente, suppongo perché il loro insegnamento confliggeva con quelli delle autorità politiche e religiose. Anassagora era convinto che in ogni cosa ci fossero le parti di tutte le cose; “il che significa: 1) che ogni cosa è un aggregato di parti divisibili all’infinito: non c’è niente di tanto piccolo che possa essere considerato come minimo; 2) che tutte le cose sono omogenee fra di loro, perché sono costituite dalle stesse parti (omeomerie)”. Anassagora è anche il primo a parlare di una Mente (Nous) “estranea agli aggregati non costituita di parti ma sostanza semplice”. Opportunamente il prof. Lisorini cita il famoso frammento 18, giudicandolo molto interessante in quanto “afferma che il sole illumina la luna concepita come un astro simile alla terra. Un’ affermazione come questa era direttamente e scopertamente contraria alla religione tradizionale, per la quale i corpi celesti erano divinità”. Si annuncia qui uno dei temi portanti di questo lungo cammino: quello del contrasto permanente fra il libero pensiero e i dogmi delle religioni. 

(Continua) 

 FULVIO SGUERSO

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