Fra pregiudizi e mistificazioni

Fra pregiudizi e mistificazioni

Dagli attacchi al governo giallo-verde alla difesa del sindaco di Riace

Fra pregiudizi e mistificazioni

Dagli attacchi al governo giallo-verde

alla difesa del sindaco di Riace

 Una novità sensazionale: la pretesa di mantenere gli impegni presi con gli elettori


In campagna elettorale i Cinquestelle si erano presentati con un programma chiaro, nel quale si denunciavano i privilegi delle caste, e in particolare della politica, e si annunciavano misure concrete per contrastare la povertà.Tanto avevanopromesso, tanto si sforzano di realizzare. Il contrasto alla povertà era anche nel programma del Centrodestra ispirato da Berlusconi, insieme con l’impegnoa rispedire a casa loro 600.000 clandestini, ad alzare fino a mille euro le pensioni minime e a introdurre la famigerata flat tax. Preso atto  degli attacchi di Forza Italia ai provvedimenti economici del governo gialloverde, bollati di assistenzialismo da uno che diceva di voler dare la pensione “alle nostre mamme” senza contributi e portare le pensioni minime a 1000 euro, sempre senza contributi, si può tranquillamente concludere che  il contrasto berlusconiano alla povertà era solo uno specchietto per le allodole e, panzana per panzana, il respingimento immediato dei clandestini una sparata propagandistica; ma sulla flat taxi volponi di Forza Italia ci puntavano davvero, ben sapendo che un drastico abbattimento dell’Irpef sul 5% dei contribuenti con reddito più alto poteva essere realizzato senza problemi per il bilancio dello Stato, tanto più che era in programma l’eliminazione delle detrazioni e, di conseguenza, un aumento del gettito a carico degli stipendi medio-bassi. Un provvedimento sciagurato imposto alla coalizione, una bomba  per la Lega che Salvini ha saputo disinnescare grazie ad un approccio “populistico” alla fiscalità: lo ha riformulato – possiamo dire (fortunatamente) snaturato -, lo ha riservato alle partite Iva, con ulteriori sgravi per i giovani professionisti, assumendosi nel contempo l’impegno a rivedere le aliquote Irpef a favore dei redditi medi e bassi, non di quelli alti; di fatto ha rispedito al mittente, Berlusconi, il principio di una tassa piatta da capitalismo selvaggio. Non solo. Riguardo ai clandestini, invece di puntare su un’immediata e velleitaria espulsione di massa, Salvini ha pianificato una strategia realistica che parte dalla chiusura dei porti e prevede la riduzione dei tempi di permanenza nei centri di prima accoglienza, il taglio del costo per migrante, lo snellimento delle procedure di richiesta di asilo e l’ avvio di un sistematico piano di rimpatri. Poi la Fornero, il provvedimento più odioso che ha segnato l’inizio delle politiche di austerità imposte dall’Unione europea ma suggerite da qualcuno in casa nostra allo scopo di mettere al sicuro privilegi consolidati in decenni di malgoverno e di scaricarne il  peso sulla grande massa dei lavoratori e dei pensionati. 


Dal conservatorismo fumoso di Forza Italia alla concretezza sovvertitrice della Lega 

Bene: il programma di governo della coalizione di centrodestra, nel solco di quelli della sinistra, era di pura facciata, con un unico punto veramente praticabile, la sciagurata tassa con un’unica aliquota, che avrebbe ulteriormente ampliato il divario spaventoso fra la povertà relativa o assoluta della grande maggioranza delle famiglie italiane e la ristretta minoranza che ha nelle sue mani il potere decisionale e continua a dilapidare le risorse del Paese. La Lega sottrattasi all’abbraccio mortale di Forza Italia ha promesso una lotta senza quartiere all’invasione, l’alleggerimento della pressione fiscale, lo smantellamento della legge Fornero: tutte cose che si possono fare, tant’è che si stanno facendo; allo stesso modo i Cinquestelle avevano promesso di impegnarsi contro i privilegi e lo stanno facendo; avevano promesso un reddito per tutti gli italiani: non se lo sono dimenticato.

Il punto è che fra gli elettori di Forze Italia e di tutto il centrodestra nessuno sarebbe mai andato in piazza per pretendere la tassa piatta e nessuno, a parte i diretti beneficiari, l’avrebbe voluta. Gli elettori della coalizione si sentivano vittime delle politiche di austerità, della legge Fornero, della corruzione, dello sporco affare legato all’invasione e per queste cose in piazza ci sarebbero andati, eccome, come avevano fatto nel passato. Volevano le stesse cose degli elettori del movimento Cinquestelle e mi permetto di credere che fossero anche quelle su cui contavano, nonostante tutte le delusioni, i sostenitori della sinistra.


I termini destra-sinistra non rimandano a niente: sono solo “idòla fori”, trappole linguistiche

Il linguaggio nasconde dentro di sé e tende a perpetuare vecchi pregiudizi e teorie superate e ci costringe senza che ce ne rendiamo conto a mantenere prospettive ormai inattuali.  Tutto l’impianto concettuale della contrapposizione destra-sinistra è figlio di quei pregiudizi e di un errore di prospettiva, che una storiografia autenticamente liberale si dovrebbe decidere a smantellare funditus, dalle fondamenta. Si è dato e si dà per scontato che la rivoluzione francese abbia lasciato in eredità un movimento progressista teso a migliorare le condizioni dei poveri, dei diseredati, degli ultimi. I lumi della rivoluzione opposti all’oscurantismo borbonico rappresentato nella Napoli di Ferdinando IV, chissà perché testardamente difeso dai “lazzaroni” contro l’effimera Repubblica napolitana filofrancese. Ora, per rimanere nella Napoli borbonica, risulta con evidenza che il regime monarchico liberticida, reazionario, ottuso, non solo incoraggiava l’industria manifatturiera e la formazione a tutti i livelli  ma si preoccupava con solerzia delle condizioni  di quei popolani che non a caso lo sostenevano e l’avrebbero amaramente rimpianto. Quindi, a rigor di logica, qualcosa non torna nella presunta contrapposizione fra il riformismo progressista e l’oscurantismo reazionario e per farlo tornare si bolla la politica sociale del Borbone come  un volgare “paternalismo”. Più tardi, nel cuore dell’Europa si realizzò il primo progetto di welfare della storia: forse che finalmente i socialisti, i progressisti, gli amis du peuple stavano realizzando le loro promesse? Nemmeno per sogno: quel programma lo stava imponendo nella Prussia reazionaria il cancelliere Bismarck, l’uomo che rappresentava gli interessi degli junker, dell’aristocrazia militare, dei nemici del progresso e della giustizia sociale. Ma quello, di nuovo, è paternalismo, con uno stile diverso ma sempre paternalismo. 


A chi si debbono veramente le conquiste sociali?

Andiamo con ordine. Mentre nei circoli anarchici e socialisti fra un bicchiere e un altro si vagheggiava e vaneggiava di impiccare preti e signori e i dirigenti politici e sindacali in marsina concionavano se dare a tutti secondo le loro necessità o secondo la loro utilità sociale, se convenisse minare il sistema dall’interno o dargli una bella spallata, se la rivoluzione dovesse partire dalle fabbriche o dalle campagne, in Prussia, non grazie ai socialisti ma ad opera del loro più intransigente avversario prendeva corpo il primo sistema di assistenza e previdenza sociali, si garantivano salari e condizioni di vita dignitosi ai lavoratori mentre l’industria manifatturiera decollava e veniva strappato ai gesuiti il monopolio dell’istruzione. Trenta anni dopo in Italia iniziava una sistematica lotta contro la povertà, l’ignoranza, la marginalizzazione sociale. Venivano incrementati i salari, ridotte le ore di lavoro, garantita la sicurezza sul lavoro, riorganizzata la scuola, nascevano l’istituto di previdenza sociale e l’Infail, poi ribattezzato Inail: un effetto della presa del potere da parte di anarchici, socialisti e comunisti? No, era la politica sociale del fascismo.

In realtà i cosiddetti progressisti che si ispiravano a Cafiero o a Marx erano borghesi che intendevano scalzare altri borghesi, nuovi ricchi ansiosi di prendere il posto dei vecchi, mestatori decisi a cavalcare per i propri interessi il malcontento popolare, agitatori venuti dal basso pronti ad assimilarsi a quelli che dicevano di combattere e felici di entrare nei salotti buoni della politica e degli affari. Ieri come oggi.


L’istruzione ha reso possibile l’emancipazione del proletariato

È tempo che le categorie destra-sinistra tornino al loro significato letterale perché fuori di quello sono solo un imbroglio e una mistificazione.  Se contrapposizioni autentiche ricorrono nell’agone politico queste sono fra conservatori e innovatori, monarchici e repubblicani, scontenti e soddisfatti, protezionisti e liberisti, clericali e laicisti, autonomisti o centralisti; i partiti mascherano conflitti fra gruppi sociali e interessi economici contrapposti o sono l’espressione di antagonismi nazionali o religiosi. Il riscatto dei ceti popolari non è mai venuto dai partiti o dalla politica, tanto meno dalle rivoluzioni, ma dall’istruzione, dal possesso degli strumenti cognitivi, dalla acquisizione della consapevolezza della pari dignità fra gli uomini. In questa prospettiva l’accumulo di beni rimane una faccenda privata, fortuita e priva di significato politico se resta separata dal potere, che è ben altra e assai più delicata cosa. Ciò che determina il controllo degli uomini sugli altri uomini non è il denaro ma il potere e il potere del denaro si esprime solo se il denaro è nelle mani dei potenti, di quelli, insomma, che il potere ce l’hanno di già. 

Si deve anche aggiungere che l’ambizione rivolta non a migliorare se stessi ma a primeggiare è espressione di una pulsione sadica: l’esercizio del controllo, che spiega come spesso il tiranno, il dittatore, il capo siano caratteropatici o addirittura psicopatici. Insomma il problema sociale fondamentale non è l’equa distribuzione degli oggetti ma la distribuzione del potere. Gli antichi greci e gli antichi romani ne erano perfettamente consapevoli. La povertà in un uomo libero finiva per essere un vanto e, per converso, la ricchezza era guardata con sospetto, spesso associata al malaffare, alla corruzione, ad un’origine servile, come il Trimalcione di Petronio. Oggi l’obiettivo di chi lotta per una società più giusta è quello di strappare il potere dalle mani di chi finora ha mal governato determinando anche l’iniqua distribuzione dei beni e la marginalizzazione dei più deboli, senza farsi impigliare nella rete delle categorie truffaldine di sinistra-destra o, peggio che mai, buoni e cattivi, democratici e fascisti, cittadini del mondo e nazionalpopulisti. E, a questo proposito, si parva licet componere magnis, per giustificare le malefatte del sindaco di quel comune che sarebbe stato meglio avesse acquistato fama per i bronzi piuttosto che per i migranti, compagni, buonisti, preti e anime belle sostengono che “non ha preso un soldo”. Il punto, cari compagni, non sono i soldi ma il delirio di onnipotenza di quell’individuo, convinto di potersi impunemente ergere a signore e protettore del suo feudo e di essere al di sopra della legge. Peggio, molto peggio, di chi si limita a rubacchiare di soppiatto, senza montarsi la testa.


E, per concludere, una riflessione sul potere e sulla ambizione

Il denaro non è potere, è solo uno strumento di potere al pari di altri. C’è il potere del denaro, vale a dire il potere esercitato grazie al denaro, come c’è il potere della forza, il potere delle armi, ma anche il potere della conoscenza e perfino il potere della bellezza. Le teorie economicistiche, come il marxismo, tendono a ricondurre tout courtil potere al denaro, al capitale che Marx considera insieme causa ed effetto dello sfruttamento e dell’alienazione, vale a dire della perdita della capacità di disporre del proprio lavoro. È una visione dell’uomo e della sua storia semplicistica, unilaterale e sostanzialmente falsa, che trasferisce il potere sul piano della produzione e dello scambio di beni sottraendolo alla sua radice psicologica e all’ambito delle relazioni one downone up, dei rapporti interpersonali primari e dei fattori determinanti il comportamento. Il potere, infatti, si esprime nella sua forma pura come capacità di guidare l’altro, di imporne le scelte e di orientarne gli atteggiamenti. Le persone ambiscono al potere, desiderano emergere, vogliono contare, sognano di imporsi. Chi ripiega semplicemente sull’arricchimento non è una persona ambiziosa ma corrisponde con modalità diverse a chi aspira alla tranquillità, al posto fisso, alla sicurezza. Perché il denaro, più e prima che potere, dà sicurezza.

L’ambizione però è una brutta bestia perché non necessariamente è collegata con una percezione realistica del proprio valore. Il problema che una società deve affrontare per raggiungere un migliore equilibrio al suo interno non è quello impossibile di sopprimere l’ambizione o addirittura il potere stesso ma è quello di identificare e neutralizzare l’ambizione delle persone mediocri, la sete di potere senza la forza dell’autorità,  sorretta solo dalla incapacità di vedere la forza e le capacità dell’altro; ne possono essere vittime le organizzazioni professionali o semiprofessionali, come un ospedale,  una scuola o un ufficio,  ma colpisce soprattutto la politica. E il nostro sindaco di Riace ne è un esempio lampante. Di quello che si è detto di lui l’unica cosa sensata è: era preso da un delirio di onnipotenza e si è sentito al di sopra della legge. Lo ripeto: che non si sia messo in tasca nemmeno un soldo è irrilevante; non ne aveva bisogno perché aspirava a qualcosa di molto di più: la devozione, la riconoscenza, la sudditanza, il prestigio, il controllo. In una parola: il potere 

 

  Pier Franco Lisorini

    Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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