Fontana e la razza bianca

Fontana e la razza bianca
Pane al pane, vino al vino e razzista ai veri razzisti

Fontana e la razza bianca
Pane al pane, vino al vino e razzista ai veri razzisti

 La trisomia 21, vale a dire la presenza di un cromosoma soprannumerario nella ventunesima coppia, è la più diffusa fra le alterazioni cromosomiche. Si manifesta con una facies caratteristica che ricorda i tratti delle popolazioni orientali, tant’è che il primo che la descrisse, il medico inglese Down, la chiamò poco elegantemente idiozia mongoloide. Questa denominazione è caduta in disuso e sostituita da quella meno connotata di “sindrome di Down”. Fin qui si tratta di rispetto, del rispetto che si deve ad ogni persona e soprattutto alle persone più fragili.


 Nei salotti del diciottesimo secolo sarebbe stato sconveniente accennare alle “gambe” del divano e una signora non si sarebbe mai infilata in un cul de sac. La pudicizia nel linguaggio quando diventa parossistica è ridicola come lo è un modo di esprimersi sussiegoso e affettato ma è sostanzialmente innocua. Qualche anno fa cedetti alla tentazione di collaborare ad un testo collettaneo con un excursus nel quale accennavo, fra l’altro, alle ricerche sui processi percettivi nei nati ciechi. Guai! Fui subito censurato. Cieco non si può più dire: sono “non vedenti”. Avrei potuto obiettare che tutta la letteratura mondiale di psicologia differenziale chiama ciechi i ciechi e che i ciechi sono i primi a chiamarsi così ma lasciai perdere: era già tanto che l’editore non volesse “diversamente vedenti”. E qui siamo alla stupidità, la stessa che fa chiamare lo spazzino “operatore ecologico”, come se quello dello spazzino fosse un mestiere vergognoso. Se non fosse che contestualmente sulla carta stampata e soprattutto alla televisione è ormai sdoganata la pornolalia e che nelle aule parlamentari risuonano continuamente espressioni da caserma, si potrebbe parlare del ritorno ad un linguaggio paludato, forbito, ipercontrollato. Ma ogni epoca ha le sue contraddizioni: alla nostra, oltre a tante altre, è toccata anche questa: la trasgressione linguistica che ha dato via libera alle parolacce va a braccetto con la creazione di altri tabù linguistici, di altre “parolacce” su cui esercitare il controllo. Ma del controllo sul linguaggio si è impadronita la political correctness e si è iniziato a scivolare nell’intolleranza e nel terrorismo ideologico. Si cominciò con la furbata di chiudere i manicomi dichiarando per legge che la malattia mentale non esiste, prendendo per oro colato un libro fortunato, Il mito della malattia mentale, che era in buona sostanza una provocazione e un invito a rivedere l’approccio al malato, non a negarne la malattia. Che è terribilmente reale, come sanno le famiglie che ne devono sopportare il peso. Ma eliminare il pazzo, fingere che non esistesse, era un ottimo affare per le finanze dello Stato, sgravava la coscienza della comunità scientifica e medica frustrata e impotente davanti alla malattia e vellicava il sociologismo d’accatto dei compagni, per l’occasione dimentichi che nella loro patria ideale, nel Paese guida, gli oppositori del regime erano dichiarati matti e rinchiusi in manicomio.


Mettere al bando le parole, snaturarne il significato, edulcorarle per rimuovere i problemi, nascondere la verità, occultare le responsabilità. Si fa con le adozioni nel terzo mondo, che coprono compravendita e rapimenti, si fa con la maternità surrogata, tacendo che la donna viene ridotta ad una macchina, si fa con la rinuncia all’accanimento terapeutico, per autorizzare la soppressione di costosi malati in coma prolungato, si fa con l’invasione, che diventa immigrazione o flusso migratorio.

L’ultimo episodio è il linciaggio mediatico di Fontana, il candidato leghista alla regione Lombardia. A radio padania ha osato affermare che con l’invasione dall’Africa – che è un incontrovertibile dato di fatto – si mette a rischio l’identità razziale del Paese. In realtà sono in molti, e mi ci metto anch’io, a denunciare il tentativo di meticciamento perpetrato nei circoli internazionali interessati ad abbattere le frontiere fisiche e culturali e a dissolvere le nazioni. Espressione e strumento di questo tentativo sono la globalizzazione, il dialogo interreligioso, la spinta migratoria dall’Africa subsahariana verso l’Europa che intasa l’Italia. Fontana, ingenuamente, ha usato esplicitamente il termine che generalmente rimane implicito: razza bianca, che secondo i direttori dell’orchestra del pensiero unico non si deve usare. Faccio appena notare che gli americani, proprio loro che ci hanno regalato la political correctness, usano tranquillamente nei loro atti ufficiali i termini caucasic, che significa di razza bianca, coloured, che significa di pelle nera, asiatic, che è poi la razza gialla, e hispanic, che crea qualche problema perché non è una razza e mescola insieme andini e messicani di origine spagnola.


Insomma, comunque si vogliano chiamare, le razze esistono nella specie umana come nelle altre specie animali e un nero non è meno uomo di un bianco o di un giallo così come un barboncino non è meno cane di un pastore tedesco. Da studente del corso di laurea in filosofia, dei sedici esami scussi scussi a fronte della macedonia di ora, uno doveva essere attinto liberamente a una facoltà scientifica e, come quasi tutti i miei compagni di corso, optai per antropologia. In cattedra c’era un prete, che faceva lezione con tanto di tonaca e il testo di riferimento era il Biasutti, Razze e popoli della terra. Prendevamo atto dei capelli a grano di pepe degli ottentotti, delle cavità nasali larghe degli aborigeni o della plica mongolica dei cinesi con la stessa tranquilla curiosità con la quale ci si accosta alla varietà dei paesaggi: dov’era il razzismo? Il razzismo appartiene alla politica, alla religione, all’ideologia del colonialismo coltivata in contemporanea da francesi e inglesi che intendevano giustificare l’occupazione dell’Africa con l’inferiorità dei suoi abitanti. Trattare da razzista l’italiano che cerca di opporsi, e lo fa molto blandamente, alla presenza di migliaia di giovani africani arrivati illegalmente e mantenuti a spese dello Stato, cioè suoi, con la prospettiva realistica che fra qualche anno dovrà fare i conti con bande di disperati privi di mezzi, di un tetto e soprattutto di remore, è disgustoso. Razzismo stupido, che pare uscito dai grotteschi laboratori degli pseudoscienziati nazisti, è quello di chi farnetica di ringiovanire un popolo vecchio – quello italiano – con l’innesto di sangue giovane ed esuberante. È quello che sosteneva un paio di settimane fa in un editoriale dell’Espresso il tuttologo Saviano. Roba da neurodeliri.


Insomma Fontana ha semplicemente detto un’ovvietà, ha paventato un pericolo reale, che, per ammissione degli stessi giornaloni di regime, è avvertito dalla maggioranza degli italiani. E mentre i tartufi di Forza Italia si sono impegnati in contorsioni semantiche per non dire niente, l’unico che ne ha preso le difese, ma anche lui con qualche reticenza, è stato Salvini. I Cinque stelle hanno perso un’altra occasione per fare chiarezza su una questione vitale. Se è vero che loro vogliono essere la voce del popolo e non i nuovi inquilini del Palazzo bisogna che questa questione l’affrontino a viso aperto e con decisione. Ci dicano cosa intendano fare dell’immigrazione illegale, id est invasione, ci dicano cosa intendano fare delle centinaia di migliaia se non milioni di clandestini e finti profughi presenti in Italia dentro e soprattutto fuori dal circuito dell’accoglienza; non menino anche loro il can per l’aia col tirare in ballo l’Europa e le sue presunte responsabilità: il problema è italiano, sono i governanti italiani ad averlo creato un po’ per obbedire alle richieste della trimurti catto-massonica-finanziaria, un po’ per il tornaconto immediato delle Onlus e delle cooperative amiche, un po’ per ottenere maggiore flessibilità da Bruxelles. Miseria nostrana, altro che dramma epocale.

   Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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