Eroi e eroine del nostro tempo

 
Eroi e eroine del nostro tempo

Il paradosso della disobbedienza in un regime democratico

Eroi e eroine del nostro tempo
Il paradosso della disobbedienza in un regime democratico

  Non sto a tirare in ballo Montesquieu e la divisione dei poteri (funzioni, il potere appartiene al popolo) sulla quale è incardinato lo Stato), mi limito a ricordare che il giudice è un signore che dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza ha tentato la via del concorso in magistratura e l’ha superato.  Altri, col miraggio di più lauti guadagni, hanno preferito ingrossare l’esercito degli avvocati; qualcuno con qualche buona carta da giocare o seguendo le orme paterne si è cimentato nel concorso notarile. Ma per un laureato in legge ci sono tante altre strade, nel pubblico e nel privato, dalle banche all’insegnamento, che fino agli anni Cinquanta, quelli del boom, non erano meno appetibili della carriera giudiziaria; poi, chissà perché, il magistrato ha visto garantita e velocizzata la carriera e raddoppiato lo stipendio.


Insomma il giudice è un pubblico impiegato, come si dice un “servitore dello Stato” – non un libero professionista e nemmeno con lo status semiprofessionale di un medico ospedaliero o di un insegnante – al quale viene affidato un incarico di grande responsabilità e delicatezza che è però in sé rigidamente predeterminato: quello di applicare la legge. Un compito non facile e con gradi di libertà assai ristretti. Non facile perché la sussunzione di una fattispecie di reato all’interno di un quadro normativo non avviene automaticamente, non facile perché spesso la norma è ambigua, non facile perché la stessa azione o la stessa norma possono essere suscettibili di interpretazioni.  

Quel che è certo è che il giudice non si può inventare una norma che non esiste né può ignorare le leggi esistenti (non può farlo nemmeno il comune cittadino) e nel modo più assoluto non può dichiarare ingiusta una legge.  Può, se  ne ravvisa aspetti di incostituzionalità,  adottare le procedure consequenziali  che consentono alla corte costituzionale di pronunciarsi nel merito ma non può dichiarare ingiusta una legge:  se lo fa si esclude dall’ordine giudiziario. Intendiamoci:  le leggi, tutte le leggi, costituzione compresa, sono scritte da uomini, spesso ignoranti, faziosi o semplicemente distratti, e ci possono essere, anzi sicuramente ci sono pessime leggi e leggi “ingiuste”; ma per quel particolare pubblico dipendente che è il magistrato la legge è sempre la Legge, dura lex sed lex; se non è d’accordo con questo principio fondamentale e intende, legittimamente, battersi per cambiare le leggi, lasci il suo ufficio, si dimetta e entri nell’agone politico. 


Il decreto legge è a tutti gli effetti una legge; se poi non passerà al vaglio del parlamento, che è l’organo legislativo, se non verrà convertito in legge, decadrà, sarà come non ci fosse mai stato ma fino a quel momento è legge dello Stato. E il decreto sicurezza proposto dal ministro Salvini potrà anche portarne il nome ma non è il decreto di Salvini, è un decreto del governo e legge dello Stato, sul quale il capo dello Stato, al quale spetta questo compito, non ha eccepito alcunché in contrasto con leggi di rango superiore come la costituzione.

We are not intimorated by (italian) minister of interior, scrivono dalla nave battente bandiera tedesca che porta africani in fuga dal lavoro nella discarica italiana; e a questo punto viene spontaneo invocare le leggi del mare, quelle vere. Se un’imbarcazione non si ferma all’ordine di una nave militare, reiterata l’ingiunzione si spara un colpo a prua della nave dopo di che se il suo comandante  non ferma i motori si colpisce direttamente la sala macchine.

Quel giovanotto con la barbetta  curata stretto nella sua  giacchettina attillata che sembra fresco di scuola di partito e usa quotidianamente la rassegna stampa per attaccare il governo o le sciacquine che hanno preso il posto dei composti mezzibusti di una mai troppo rimpianta tv in bianco e nero sono profumatamente pagati con i soldi del contribuente e occupano l’emittente di Stato come se fosse una qualsiasi televisione privata.  Commovente fino alle lacrime il dialogo fra la giornalista in studio e la collega che a bordo del traghetto di turno condivideva con i “migranti” – ragazzi palestrati con qualche coetanea dai capelli accuratamente rastati e colorati – la disperazione per i cessi intasati. È la stessa emittente di Stato che ci impone la faccia di Fratoianni come se si trattasse di un personaggio pubblico o di un vero uomo politico. Ma un personaggio pubblico deve questa sua peculiarità al successo di pubblico così come l’uomo politico è tale se ha un seguito o, come accade in una democrazia malata, se è stato creato a tavolino e  imposto dai media. Da media privati, non dalla televisione di Stato. Abbiamo subito per decenni la sovraesposizione dei radicali, che avevano un peso elettorale trascurabile ma in compenso si rendevano interpreti di questioni poco popolari ma eticamente importanti, come la condizione di vita nelle carceri. Mi sfugge la ragione della sovraesposizione di Fratoianni o Casarini.


Fratoianni e  Casarini

Fatto si è che il (la) giudice che ha ritenuto ingiusta la legge non l’ha applicata; nel farlo deve essersi sentita le spalle coperte – non so se per aver ricevuto l’input dai piani alti del Pd – come e più della giornalista che intende il servizio pubblico come uno strumento a favore dell’accoglienza. Chi ne ha sommessamente rilevato la partigianeria è stato subissato di insulti, accusato di attentare alla libertà di informazione e al diritto di cronaca. Devo riconoscere che se nelle dichiarazioni dell’Anm o nelle parole di Di Pietro si avverte un certo malumore e una sostanziale presa di distanza, tutta la organizzazione mediatica, tutti i vertici del giornalismo italiano hanno senza distinzioni sostenuto la collega. I compagni hanno fatto un buon lavoro.

La disobbedienza civile ha senso in uno Stato intollerante, clericale o liberticida, altrimenti è solo sovversione. E non mi è piaciuta la dichiarazione di fräulein Rackete  che invita i giovani a scendere in piazza per difendere i diritti dei migranti in barba a qualunque legge. La sua emula italiana invoca la costituzione, che secondo lei imporrebbe l’apertura dei confini; ovviamente è una stupidaggine. Ma è una stupidaggine anche invocare un diritto superiore, per altro non bene specificato; fosse pure la Legge di Dio, questa vale nel Regno dei Fini: sulla terra, ce lo insegna il Vangelo, guarda l’immagine di Cesare sulla moneta e rispettane l’autorità e le leggi. Fräulein Rackete però fa di peggio: non solo viola la legge e sfotte il ministro di uno Paese in cui entra illegalmente ma  ne incita, fortunatamente inascoltata, la popolazione alla rivolta.


Carola Rackete

Ma queste ragazze ispirate – con in primo piano l’eroina per la quale si è levata una voce delirante a chiederne il Nobel, dimentica che è già stato prenotato dai gretini – sono spinte da una incontenibile pulsione umanitaria, dalla legge del dovere; «Dovere, nome sublime e grande», grida il filosofo, in preda a una laica estasi mistica: «il cielo stellato sopra di me, la Legge morale dentro di me!».  Già, ma Kant il suo rigore morale lo esercitava su se stesso, nella sua esasperata interiorità, col tormento di un immateriale cilicio.  Francesco (l’assisiate, non l’argentino) lo esprimeva all’esterno spogliandosi di ogni bene materiale e umiliando ogni aspetto della sua carnalità, la piccola santa albanese confondendosi in mezzo ai lebbrosi; nessuno di loro si riempiva le tasche d’oro né cercava l’applauso.  Una delle poche certezze che abbiamo è quella che gli scafisti e i malavitosi che traghettano gli africani guadagnano mediamente 150.000 euro l’anno a testa con i loro traffici. Pare che sia una stima prudente; non vedo perché lo stesso traffico dovrebbe rendere meno ai volontari “perbene”. 


Noterella finale, fuori tema ma non troppo

“Noi dobbiamo sapere se il governo è al soldo di una potenza straniera!”, ha tuonato mentre sto scrivendo la portavoce del Pd. Quel Pd che altro non è se non il Pci che ha cambiato nome. C’è da ridere.

   Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

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