È andata come doveva andare

È andata come doveva andare
Il Pd ne è uscito ammaccato e i cinquestelle disintegrati

È andata come doveva andare
Il Pd ne è uscito ammaccato e i cinquestelle disintegrati

 Non mi piacciono i commenti post elezioni. Le analisi dei risultati sono il trionfo dell’ipocrisia e della malafede e servono solo a cercare di confondere le idee e nascondere la verità. Peggio delle maratone televisive e dei talk show che ne sono l’appendice sono solo gli editoriali, fra i quali l’onestà intellettuale, ma spesso anche semplicemente la correttezza dell’informazione, è merce rarissima. 


Detto questo, con un po’ di riluttanza spendo due parole sull’esito di queste ultime consultazioni. Premetto che in generale del voto va semplicemente preso atto: il voto non si giudica. Io detesto il Cicisbeo e sono convinto che l’attuale governo abbia portato l’Italia ai margini dell’Europa e del mondo; ma quello che gli contesto è la sua illegittimità sostanziale, il suo essere frutto di una manovra di palazzo e di reggersi su una forza parlamentare che nel Paese non esiste più: se dovesse essere che alle elezioni politiche, che prima o poi si faranno, venisse    avallato dalla maggioranza degli italiani me ne farei una ragione. È la democrazia, bellezza. 

Ma che si venga a dire che referendum costituzionale e voto regionale hanno rafforzato il governo e la maggioranza è veramente un’idiozia.


Si dice: il centrodestra e i sondaggi davano in bilico la Toscana e certa la sconfitta di Emiliano in Puglia ma la roccaforte rossa ha retto e l’ex magistrato è rimasto saldamente in sella. E questa sarebbe la prova che il governo giallorosso, ormai più rosso che giallo, gode di un insperato sostegno popolare. Ma in Puglia, come in Toscana, i grillini, che sono la forza politica che assicura la maggioranza parlamentare e giustifica almeno formalmente l’atteggiamento del Colle, sono stati disintegrati mentre il Pd si è limitato a rimanere in piedi. Allora com’è che Emiliano, dato nettamente per sconfitto, è stato riconfermato quasi a furor di popolo? La risposta è semplice anche se sgradevole. Sulla carta, tenuto conto anche dei risultati delle elezioni europee dell’anno scorso, la coalizione di centrodestra era e rimane nettamente maggioritaria, grazie soprattutto alla Lega. La Lega che si è vista imporre dalla Meloni e dai potentati locali un candidato come Fitto, già berlusconiano, poi transfuga con Alfano e infine approdato a Fratelli d’Italia. Ma le segreterie dei partiti possono fare tutti i giochetti che vogliono, possono usare tutti i loro pesi e contrappesi però alla fine chi decide sono gli elettori. E c’è da giurare che la maggior parte degli elettori leghisti il voto a Fitto non l’ha dato e dovendo scegliere ha preferito Emiliano, se non altro perché sgraditissimo a Renzi e mal tollerato dal Pd. 


Quanto alla Campania, che era il maggiore bacino elettorale dei Cinquestelle, l’implosione grillina ha alimentato un De Luca che meglio dei fico e dei di maio ha interpretato l’antipolitica e il risentimento meridionalista, avvantaggiato anche in questo caso da un candidato improponibile, un residuato di quel berlusconismo che anche al sud ha fatto il suo tempo, assolutamente indigesto per l’elettore leghista. Il Pd, col suo stentato 17% non sarebbe andato lontano ma De Luca furbescamente ha fatto in modo scoperto quello che Bonaccini in Emilia aveva fatto di soppiatto: non solo ha oscurato la sua identità piddina ma ha sparato a zero su tutta la sinistra e sul movimento Cinquestelle e ha fomentato un atteggiamento razzista verso il nord che si insinua nel mezzogiorno d’Italia attraverso Salvini. I compagni demonizzano il populismo: cosa si dovrebbe dire della demagogia ultrapopulista di De Luca?

Insomma: nella vittoria di Emiliano e di De Luca Zingaretti e tutto il Pd non ci incastrano nulla, assolutamente nulla. Entrambi hanno vinto nonostante il Pd e attingendo abbondantemente non solo al bacino elettorale grillino ma anche a una parte consistente dell’elettorato di destra che si è rifiutato di tornare al passato.


Diverso è il caso della Toscana che i sondaggisti, secondo me con una sospetta forzatura, davano in bilico. Serviva non solo per spaventare il potenziale elettorato di sinistra tentato dall’astensione ma soprattutto per dare ai compagni a cose fatte l’opportunità di gridare al trionfo per una vittoria che non è mai stata seriamente in forse, oscurando così l’affermazione della Lega, alternativa  al sistema di potere cattocomunista assai più credibile del vecchio centrodestra. Si dirà: ma Salvini si diceva convinto di vincere, quindi è rimasto con le pive nel sacco; ma chi gioca lo fa per vincere, anche quando sa che è impossibile e quello della Lega è stato comunque un successo, tenuto anche conto che molti dei benpensanti che simpatizzavano per Forza Italia si sono accodati ai cugini renziani e piddini.

Io che in Toscana ci vivo so bene che il potere rosso si sta sgretolando ma si è ancora ben lontani dal vederlo crollare, molto più lontani, per ragioni culturali e sociali, che in Emilia Romagna. Qui la debolezza della candidata leghista c’entra poco perché quello della sinistra, l’oscuro Giani con i suoi problemi col congiuntivo, era più debole di lei. Il Pd toscano, come quello nazionale, è un partito senza idee e senza ideali e soprattutto senza una base elettorale socialmente definibile. È il partito dei benestanti, dei privilegiati, delle clientele, di quanti si sentono al sicuro quale che sia la loro posizione nella piramide sociale. Ed è soprattutto il partito del potere, della mafia rossa che condiziona tutta la vita economica della regione. Una regione per lunga tradizione sonnolenta, conservatrice se non retriva, che per contrappasso è anche il luogo naturale dell’intolleranza e di gruppi violenti pronti a esercitare il loro ruolo di soccorso rosso. Ma niente dura per sempre e ormai ci sono due ben distinte versioni della Toscana: quella dell’imprenditoria piccola e media, agricola e manifatturiera, ben saldata con quello che una volta si sarebbe chiamata la classe operaia, presente a macchia di leopardo nelle province di Pisa e di Livorno e in modo massiccio e continuo nella lucchesia, nel grossetano, nell’aretino, in lunigiana, nel pistoiese e quella egemone dell’area metropolitana fiorentina con la sua dependance livornese. Nella prima si assiste al crollo progressivo degli eredi del Pci e al radicamento sempre più profondo della Lega, la seconda rimane tenacemente attaccata al sistema di potere piddino. Salvini, faute de mieux, ha puntato sulla Ceccardi ma se vorrà consolidare i successi ottenuti e dare maggiore identità e forza a un polo antifiorentino bisognerà che provveda a creare un’organizzazione capillare sul territorio, ad una più incisiva campagna di proselitismo soprattutto fra i giovani e alla individuazione di una personalità più aggressiva e carismatica dell’ex sindaca di Càscina.


Intanto si prenda atto che delle dieci (non undici come crede Giani) province della Toscana la metà hanno visto una maggioranza netta del centrodestra a trazione leghista: Massa-Carrara, Pistoia, Lucca, Grosseto, Arezzo; le altre cinque, Prato, Firenze, Pisa, Livorno, Siena sono rimaste un feudo della sinistra, un feudo che però soprattutto nelle province di Pisa e di Livorno dà segni evidenti di cedimento. E si prenda atto che pallottoliere alla mano rispetto alle europee la Lega non ha perso nemmeno un voto, considerato che l’elettore leghista poteva votare la “sua” Ceccardi senza dover votare la lista. Ma che giornalisti e opinionisti non sappiano far di conto non mi sorprende. Quel che è certo è che la Toscana rossa a prescindere non esiste più e il potere della sinistra regge solo per la forza delle clientele e di una corruttela diffusa che non ha niente da invidiare al sud. Quando anche a Firenze il sistema comincerà a scricchiolare per mancanza di foraggio le cose cambieranno ma al momento la missione di Salvini – nonostante i sondaggi di scarsa attendibilità – era assolutamente impossibile. 


Concludo con due considerazioni: numericamente e politicamente il governo, la maggioranza, il parlamento, per quante acrobazie facciano televisioni e stampa, escono ulteriormente e definitivamente delegittimati da queste elezioni. La Lega di Salvini mantiene le posizioni delle europee e questo è uno straordinario successo, altro che una sconfitta o un ridimensionamento. Quello che preoccupa semmai è la capacità degli alleati di resistere al canto delle sirene della sinistra e non mi riferisco tanto agli ormai screditati forzisti quanto alla Meloni. E proprio alla Meloni e ai berlusconiani si deve la conferma di Emiliano e di De Luca, che partivano indeboliti dagli attacchi diretti e dai malumori all’interno delle loro coalizioni. La Meloni ha messo trionfalmente il cappello sulla vittoria – scontata – nelle Marche ma ha dimenticato che la mancata conquista della Puglia deve essere addebitata a lei e al suo candidato. Alla vigilia del voto sono state imposte a Salvini condizioni draconiane: nelle Marche, dove era impossibile perdere, un candidato di Fratelli d’Italia (per fortuna uno sconosciuto), in Puglia, che tutti già consideravano passata al centrodestra anche lì la Meloni ha imposto un suo candidato, questa volta purtroppo conosciutissimo, in Campania, dove la partita era aperta, si è dato via libera a Forza Italia come se gli ultimi dieci anni fossero passati invano e a Salvini è rimasto il cerino in mano, la Toscana. Il partito della Meloni, che i compagni blandiscono al pari di Zaia, è diventato la casa di molti grillini sbandati ed è a loro che si deve la crescita dei suoi consensi; alla Lega non ha strappato nemmeno un voto. Chi sostiene che Fratelli d’Italia sia cresciuto per virtù propria o per il venir meno del carisma del Capitano o vive su un altro pianeta o mente sapendo di mentire. Semplicemente c’è un elettorato di scontenti che, rimasto orfano di Grillo, è scivolato naturalmente verso la poltiglia di sinistra o è stato attratto dalla vocazione qualunquista del partito della Meloni, erede, bon gré mal gré, della vecchia destra monarchica e missina raccattatutto.

 Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

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