Due postille sul male e sul latino

 
Due postille sul male
e sul latino

Due postille sul male e sul latino

Caro Sguerso,

fuori del terreno scivoloso della politica e delle cosiddette ideologie ragionare diventa piacevole e ben volentieri ribatto ai suoi appunti sulla mia concezione del male e su quanto lei ha scritto riguardo al “latino lingua morta”.


 Sul male mi sembra che in buona sostanza le sue opinioni non si discostino granché dalle mie. Io, che non faccio professione di ateismo come Odifreddi perché mi sembra una cosa in sé stupida, intimamente contraddittoria e preoccupante sotto il profilo della stabilità mentale, tendo a considerare come metafore quei concetti teologici che persone degne del massimo rispetto accettano alla lettera. Se lei quello che per me è la luce dell’umanità e dello spirito la vuol chiamare Grazia, seguendo la tradizione cristiana, non ho niente da obiettare.  La capacità che è data all’uomo di darsi un significato e di darlo al mondo sollevandosi sopra l’indifferenza, chiamiamola pure stupidità, della materia e delle sue leggi è per me un mistero ben più profondo dell’origine dell’universo.  Dal punto di vista delle leggi della fisica, dei puri nessi causali, del semplice ordinamento biologico, Maso e i due ragazzi di Ferrara non hanno compiuto niente di aberrante. La logica del loro comportamento, la consequenzialità dei loro gesti, è coerente con la natura, non c’è niente di “folle”, di “sfasato”. Gli animali, soprattutto quelli che noi consideriamo intelligenti, si comportano secondo quella stessa logica, con quella stessa consequenzialità. Anche un’ipotetica intelligenza artificiale si comporterebbe così. Proprio questo secondo me è il male e questa è secondo me la nostra condizione originaria. E ne trovo una conferma in quel “libera nos a malo” in cui vedo riconosciuta appunto l’originarietà del male, il nostro essere intimamente il male.

Sul recupero che le debbo dire? Per lei sono pecorelle smarrite, per me non sono mai diventate pecorelle. Se mi consente di passare a un registro più leggero: non li ha toccati la Grazia, ce la possiamo fare noi?

Lei poi si chiede come sia possibile considerare il male come ciò da cui ci si può sollevare, quindi, lei dice, un corpo estraneo e nello stesso tempo sostenere che noi siamo o continuiamo ad essere il male, che il male non è in noi ma siamo noi. Le rispondo in due modi, uno, un po’ alla buona, hegeliano e l’altro psicologico. Il male si oggettiva, diventa altro, nel momento in cui se ne prende coscienza  –  e questo è il vero miracolo  –  ma questo non vuol dire che non rimanga dentro, che non continui ad essere un aspetto del nostro “noi”; con l’altro approccio l’Io è qualcosa di parecchio complicato, qualcosa che si tiene unito quando tutto va bene ma si spezza e si disintegra quando il collante o la disposizione gerarchica non funzionano più; mister Hyde, insomma, può riprendere il sopravvento o non esser mai evoluto nel dottor Jekill.


Riguardo al suo articolo sul latino lingua morta l’ho letto con interesse e mi complimento con lei per la sua curiosità e la sua cultura. Non lo prenda per un complimento ma per una semplice constatazione: nella nostra scuola, che non ha bisogno di riforme ma di docenti preparati e motivati, le persone come lei sono ormai purtroppo un’eccezione. Del mio intervento lei ha colto l’essenziale e anche su questo tema mi pare che la pensiamo allo stesso modo. Ho qualcosa da eccepire sulle conclusioni che trae, per lo meno per ciò che mi riguarda direttamente. Io sono innamorato del mio Paese, lo dico senza pudore. Ma non, o non tanto, perché è la mia terra e quella dei miei genitori, né per le bellezze naturali, sistematicamente sfregiate, né per i tesori d’arte che custodisce. Amo la mia Patria per la sua lingua, perché è in essa l’anima del popolo, l’impronta della sua civiltà, della sua storia, della sua humanitas, della sua sensibilità e intelligenza, e, come aveva intuito Vico, della sua sapienza. Quello che volevo dire, ma è difficile essere del tutto chiari in uno spazio necessariamente breve, è che nella nostra lingua, nelle sue sonorità, nella composta semplicità che si apre ad una articolata complessità, nell’armonia della sua struttura, rivive in una veste rinnovata il latino e che quest’ultimo va conservato con cura e devozione proprio perché la sua presenza dà luce all’italiano in cui, lo ripeto, è sbocciato. E lei, forse per amor di sintesi, ha equivocato scambiando per sciovinismo aggressivo  questo mio amore per la lingua italiana, per la Patria italiana e per il popolo italiano, così indegnamente rappresentato da una classe politica ignobile. Anche il D’Annunzio al quale riconoscevo di aver mostrato ancora una volta “quel che può la lingua nostra” non è quello delle Canzoni delle gesta d’oltre mare, né quello dell’Alcyone, che pure al Pascoli faceva dire di lui “fratello minore e maggiore”, ma quello della prosa straordinariamente espressiva delle Novelle della Pescara. E, infine, il colonialismo, le assicuro, mi repelle perché ha rallentato o impedito il processo di crescita delle nazioni del cosiddetto terzo mondo ed è una della cause del disastro della pressione islamica e migratoria. Quanto al “Roma rivendica l’impero” non le nascondo che mi provoca una certa irritazione: io rivendico l’indipendenza e l’autorevolezza del nostro Paese, diventato terra di conquista e di scorrerie finanziarie dei nostri partner europei, non una versione mignon dell’imperialismo americano.

Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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