Difesa del confine….

Difesa del confine, sentimento della differenza e valore della persona
Quando si abbattono le paratie

 

Difesa del confine, sentimento della differenza e valore della persona

Quando si abbattono le paratie

 In un sistema di dighe e di sbarramenti maggiore è il dislivello più forte è la pressione dell’acqua; se dighe e sbarramenti vengono eliminati si crea un equilibrio stabile, un livellamento nel quale le tensioni vengono annullate. Nel pianeta si sono costituiti una grande quantità di comparti, caratterizzati da una diversa concentrazione di ricchezza, di benessere, di gradevolezza climatica e ambientale e separati gli uni dagli altri da barriere tanto più solide quanto più accentuata è quella differenza di concentrazione.


Un certo grado di osmosi, di permeabilità, garantisce la condivisione di conoscenze, gli scambi commerciali, la reciproca influenza culturale ma, in generale, maggiori sono le differenze e minore rimane quella permeabilità. Sistemi affini e confrontabili stabiliscono fra di loro relazioni “simmetriche”, che possono essere collaborative o competitive – la guerra fra Stati non ha mai distrutto la civiltà – mentre, al contrario, sistemi non confrontabili stabiliscono relazioni “complementari” di supremazia-sottomissione: se entrano in conflitto può prevalere la civiltà o la barbarie.  I Romani, per lunghi periodi, potevano tenere relativamente sguarniti i confini con l’impero persiano, col quale si era stabilita una significativa compenetrazione culturale oltre che commerciale, ma si guardavano bene dall’indebolire il Vallum Hadriani, perché le popolazioni barbare del nord erano irresistibilmente attratte da un mondo percepito come ricco e felice. Il conquistatore, insomma, rischiava di essere a sua volta conquistato e da predatore diventare preda: ma mentre il primo portava insieme alla sottomissione civiltà e benessere il secondo divorata la sua preda dopo la devastazione si sarebbe ritrovato insieme alle sue vittime nel deserto della sua miseria materiale e spirituale. È una storia che rischia di ripetersi ogni volta che si smarrisce la coscienza di sé, della propria storia e della propria cultura. Quando alla dea Roma e al Pantheon della tradizione si sostituì una divinità uscita dalle catacombe in cui era rimasta a lungo rinchiusa, sostenuta dagli schiavi e dagli stranieri in nome dell’uguaglianza fra gli uomini e usata da una parte della classe dirigente per imporsi sui propri avversari, l’edificio millenario della romanità finì per sgretolarsi e vennero meno le barriere che lo difendevano dal mondo esterno. Ma la marea barbarica non travolse tutto: ne fecero le spese le persone comuni, gli abitanti dei villaggi e dei grandi centri urbani, gli artigiani, i commercianti, i piccoli proprietari terrieri. Il grande latifondo non ne venne quasi toccato, l’aristocrazia ne uscì rafforzata e un sacerdote del nuovo culto, erede della vecchia aristocrazia, si accomodò sul seggio imperiale.

Invasione e emigrazione

Dopo diciassette secoli Roma, l’Italia e l’Europa tutta sono di nuovo sotto attacco e ancora volta chi era stato predatore rischia di diventare preda. E, ancora una volta, la preda non è solo il benessere materiale ma è la civiltà, sono gli stili di vita, il senso stesso dell’esistenza. I nuovi barbari premono dall’Africa, dall’Asia, dal centroamerica, spinti dal dislivello economico, dalla prospettiva di una vita più comoda e agiata, dal guadagno facile. Non è la compenetrazione naturale fra mondi diversi ma assimilabili. L’emigrazione è un fenomeno fisiologico che modifica entro limiti controllabili l’assetto antropologico e culturale di un territorio. Olandesi o inglesi in Italia o banchieri italiani in Francia o in Inghilterra non hanno scosso l’edificio culturale autoctono ma semmai l’hanno arricchito; i cinesi fanno oggi la stessa cosa, contribuendo fra l’altro a calmierare i prezzi di prodotti molto popolari. Ma il cinese, come ieri l’inglese, l’olandese o l’ebreo, non è un predatore: è un ospite che mentre si arricchisce porta a sua volta ricchezza. L’invasore no: l’invasore, anche quando non arriva d’impeto e con la forza ma di soppiatto e con atteggiamento supplichevole, è comunque un predatore e un parassita e alla lunga mostra tutta la sua carica eversiva.  L’intenzione dell’invasore è quella di farsi mantenere: non cerca terre da dissodare ma campi da saccheggiare, non cerca lavoro ma il frutto del lavoro degli altri. Prima chiede poi pretende e quando si sente abbastanza forte espelle chi gli ha dato ospitalità. Lo stupro è la cifra del suo atteggiamento di predatore. E, come il barbaro di ieri, distrugge e non crea, e nel deserto che si lascia dietro porta il segno della sua  povertà culturale e soffoca una civiltà etica e giuridica laica coi lacci della  sua fede e dei suoi riti. 


Quando l’integrazione è un disastro

Violenta o no l’invasione attraversa comunque due momenti: quello dell’urto e della sopraffazione e quello dell’esaurimento della spinta iniziale e della stasi. È ciò che si chiama integrazione, quando l’invasore e la sua vittima non si distinguono più, il sistema è in equilibrio, il dislivello è scomparso. Si può anche dire diversamente: quando non c’è più niente da predare. Nel passato a un mondo articolato di classi sociali, di uomini liberi e di servi, di liberti intraprendenti,  di conflitti, ambizioni politiche, arricchimenti improvvisi e rovine finanziarie, nel flusso  continuo di uomini e cose, nella grandezza e nella miseria di una civiltà urbana, subentrò l’appiattimento del colonato, tutti servi, tutti legati alla terra, abbrutiti, privati della luce della cultura, isterilita e fossilizzata,  avulsa dalla vita e relegata in biblioteche sepolte nei monasteri, tutti uguali nella medesima ignoranza e povertà, gregge docile di signori ugualmente poveri e ignoranti. Quello che ci aspetta nel disegno di chi ha aperto le paratie  e dato il via all’invasione non è molto diverso: l’istruzione di massa svuotata di ogni carica intellettuale che non è molto diversa dall’analfabetismo, la soppressione della conoscenza risolta nelle competenze, vale a dire in un addestramento servile, l’eliminazione delle classi e delle tensioni sociali, l’avvento dell’uomo consumatore di una tecnologia aliena, schiacciato in una povertà materiale, morale e spirituale.


Fra tecnologia e schiavismo

Nel suo delirio di visionario Beppe Grillo ha ragione: il mondo potrebbe evolvere verso un’economia sempre più computerizzata e la robotizzazione delle attività produttive fino al punto da rendere il lavoro una scelta e non una necessità. Del resto è questo il fil rougedella storia millenaria dell’uomo per liberarsi dalla schiavitù del lavoro. Ma quello dell’uomo non è un cammino lineare né è tracciato in maniera univoca. In ogni momento quel percorso può prendere una o un’altra direzione e quella immaginata da Grillo non è per niente obbligata. Ce n’è un’altra, che passa attraverso  il crescente asservimento  dell’individuo al lavoro, la sua riduzione a strumento, a macchina a basso costo e ridotto consumo. E se nella prima prospettiva  lo scenario è quello di una costante diminuzione della popolazione globale, di un crescente potere dell’individuo e di un incremento del suo benessere e della sua aspettativa di vita, con l’altra si verifica l’esatto contrario: una crescita demografica che garantisce  un’ immensa disponibilità di manodopera e l’aumento esponenziale  del numero dei consumatori.  Come conseguenza, la concentrazione della ricchezza  all’interno di un  sistema sovranazionale sempre più ristretto, che stende sul  pianeta una rete di  produzione e di vendita.  È appena il caso di osservare che se il primo scenario è sostenibile nel lungo e lunghissimo periodo e mentre garantisce la sopravvivenza della civiltà  e il raffinamento di un umanesimo  etico, scientifico e tecnologico mette il terzo mondo, e l’Africa in particolare, di fronte all’alternativa fra marginalizzazione o crescita, il secondo, che è poi una africanizzazione,  è destinato a implodere perché privo di un sistema di aggiustamento interno, non senza aver prima minato le basi  della cultura, che è internamente mossa dal conflitto, dall’iniziativa individuale, dall’identità nazionale e soprattutto dal valore della persona. La persona è in realtà la posta in gioco: o si va nella direzione che ne accentua il primato  e ne garantisce la crescita spirituale e la piena autonomia o si va verso  la sua dissoluzione in una massa amorfa, depositaria di  una istruzione elementare,  indirizzata verso una koinè linguistica, che potrebbe essere l’inglesebasic, e un abito mentale omogeneo modellato dai media. 


Il valore dell’individuo 

Dietro la mobilitazione in favore dell’invasione, della cultura globalizzata, del superamento delle barriere fisiche, linguistiche e religiose ci sono l’egoismo e la miopia di quanti guardano a propri interessi e obiettivi immediati.  C’è la buona fede di chi persegue l’utopia della pace universale e si illude di trovarla annullando le differenze; c’è l’ingordigia di una economia globalizzata che intende spianare ogni ostacolo alla produzione e al consumo, c’è il progetto di abbattere il costo del lavoro importando manodopera, c’è chi pensa di salvare il sistema pensionistico aumentando indefinitamente il numero degli occupati.  Il loro comune nemico  è l’individuo, che non è una categoria astratta ma un soggetto connotato  da una propria irriducibile diversità,  e insieme tutto ciò che l’individuo concreto presuppone: una storia, una tradizione, una comunità, una identità nazionale.


Lo stagno dell’irenismo

I confini che mantengono separati sistemi economici, giuridici, etici e religiosi sono rinsaldati dalla coscienza della propria identità, dal senso di appartenenza, dalla volontà di difendere le proprie usanze, le proprie consuetudini, la propria famiglia, i propri beni e i propri affetti. Alle acque agitate della mobilità sociale, della competizione, del continuo rimescolamento di status e di ruoli, si contrappone il ritorno alla piatta stabilità delle società preindustriali in cui i ruoli sono fissati una volta per tutte, la pace sociale è basata sul congelamento dello statu quo, l’invidia sociale non ha più ragion d’essere,  i possidenti sono messi al riparo, la grande massa delle persone lavorano solo per mantenersi in vita e l’aumento della popolazione globale garantisce costi minimi del lavoro mentre l’impoverimento  dell’istruzione impedisce che si creino aspettative e si alimenti il conflitto. Si vuol realizzare il sogno di una società omologata di produttori-consumatori dopo aver provveduto a meticciare le popolazioni fino a far scomparire ogni distinzione razziale e depotenziato  lingue e culture nazionali a favore di una cultura globale  e di una lingua veicolare imposta come lingua di cultura universale con le parlate locali  confinate alla comunicazione domestica, un codice ristretto fino al limite della deissi.  


La sacralità del limes

« Di patri mala de nostris pellite  limitibus», cantava Virgilio. Quel limes consacrato dal fratricidio che insieme stabiliva l’inviolabilità della proprietà privata e  definiva  l’area della casa comune, la Patria, da custodire con tutto il suo patrimonio economico, etico, giuridico e religioso. Difesa dei confini e tutela della proprietà, che, in senso lato, è tutela dell’individuo, della sua libertà, della sua sovranità,  sono i cardini sui quali poggia la compagine dello Stato, la sua prima ragion d’essere. Lo Stato non è una fortezza ermeticamente chiusa ma l’apertura delle sue porte è regolata da norme e convenzioni col mondo esterno  che governano il transito di cose e persone. La violazione di quelle norme costituisce un attentato alla stabilità e alla sicurezza dello Stato. Quel limes ha sempre avuto i suoi nemici: l’ecumenismo cattolico, l’internazionalismo marxista, l’anarchismo e, di fatto, non regge di fronte all’universalità della cultura, dell’intelligenza, del  logos. Ma la nostra civiltà ha una caratterizzazione geografica e nazionale molto forte, alla sua origine ci sono radici greco-romane (non cristiane, come si dice a sproposito) dalle quali originano il pensiero scientifico e filosofico ma anche l’apertura e la flessibilità che le hanno consentito di trarre nutrimento dalle altre civiltà, come quella ebraico cristiana. Ed è proprio questa sua apertura che le ha consentito di imporsi come civiltà universale. Chi ne partecipa guarda liberamente oltre il proprio orizzonte nazionale, coglie la comune umanità ovunque essa si esprima o si sia espressa nel passato.  È una delle tante contraddizioni che il pensiero debole non sopporta: si può essere puntigliosamente figli della propria terra e cittadini del mondo, assai più e meglio dell’apolide, di chi non ha coscienza della propria identità, di chi non ha il sentimento della continuità e non alimenta nel suo spirito il sacro fuoco di Vesta. Ma, a ben vedere, i veri nemici del limes non sono oggi né i nostalgici di una respublica christianorumné i sognatori di un mondo senza confini e magari senza leggi; sono i teorici di una ultraliberismo infastiditi dai dazi e dai dislivelli economici, sono gli affaristi della finanza globale che aspirano a smaterializzare l’economia materializzando, s’intende, i loro profitti e il loro potere, sono, scendendo di livello, quegli industriali che vedono la possibilità di risparmiarsi la fatica di delocalizzare importando manodopera a bassissimo  costo, sono le bande criminali che prosperano nel disordine e nella miseria, sono tutto il mondo marcio e ipocrita cresciuto sull’affare colossale delle migrazioni e dell’ospitalità e sono infine quegli Stati che si illudono di rafforzare la propria sicurezza indebolendo un intero continente.

   Pier Franco Lisorini

    Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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