Di bagolari e centri commerciali

Di bagolari e
di centri commerciali

 

Di bagolari e di centri commerciali

 Cosa hanno in comune i due argomenti? Niente, se non l’affanno e la confusione di questi tempi pieni di rumore e di furore, come il racconto dell’idiota di shakespeariana memoria, e il fatto che ispirano ragionamenti applicabili su scala nazionale e locale.

(Nonché, ma questo interessa a pochi, che ho discusso di entrambi questa settimana sui social, e avendo poco tempo per scrivere recupero i ragionamenti espressi.)

Suscita discussione la sostituzione degli alberi di corso Tardy e Benech, dopo lo straziante taglio dei magnifici pini. Mettiamoci tigli, no, i tigli sporcano, mettiamoci lecci, perché non si può? Mettiamoci oleandri che fanno i fiori. Mettiamoci agrumi.

 


Corso Tardy&Benech senza pini

 

Intanto non confondiamo, e chiariamo le idee di base. Una cosa sono gli arbusti o alberelli, assimilabili a piante in vaso, come gli oleandri, una cosa gli alberi di alto fusto. Le piante di dimensioni ridotte hanno scopo essenzialmente decorativo, mentre quelle di alto fusto svolgono anche altre importanti funzioni: ombreggiare, filtrare inquinanti, ospitare microfauna urbana ecc. Entrambe hanno la loro dignità e il loro scopo, ma non sono equivalenti, e sostituire le une con le altre non dovrebbe essere ammissibile. 

Insomma, gran confusione sotto il cielo. Alla fine l’assessore Santi annuncia la scelta di bagolari, piante robuste che crescono in fretta, e che sono già presenti in altri viali limitrofi, così ci sarà anche continuità. Apriti cielo, il Secolo osserva che tali piante sono dette “spaccasassi”, perché oltre alle radici profonde ne hanno di superficiali, e allora siamo di nuovo come coi pini.

Non è vero, ribatte l’assessore, basta prevedere l’aiuola giusta, come in via Stalingrado.

Ora, vorrei tanto essere d’accordo con l’assessore, e in linea di principio lo sarei. Se non che, guardandomi intorno, qualche elemento di preoccupazione ce l’ho. Gli alberi di via Vittime di Brescia stanno bene, a dispetto della bella idea di piantumarli con una griglia di ferro alla base, che ovviamente quando l’albero cresce lo strozza. Le più sono state rimosse, alcune sono ancora presenti e anzi sarebbe meglio toglierle al più presto. Ma comunque, a dispetto dell’aiuola non proprio enorme, tutto bene al momento.

Peggio va in via Stalingrado. Confrontando gli alberi davanti alle Officine, con quelli davanti al deposito petroli, mentre i primi stan benone i secondi stanno già sollevando l’asfalto.  È vero che hanno una aiuola più piccola, ma c’è anche un altro aspetto: una chioma che si espande verso l’alto anziché bella arrotondata. Allora, non sarà anche colpa di una potatura maldestra, fuori stagione o troppo drastica, se qualcuno ha le radici a posto e qualcun altro no?

Non sarà che, oltre al tipo di essenza, contano anche piantumazione e manutenzione?

 


Via Stalingrado con i bagolari

 

Ed è questo che preoccupa, e indirettamente dà ragione a chi voleva salvare i pini. Le cosiddette aiuole di corso Tardy e Benech sono spazi biancastri invasi da calcinacci e cemento, più che da buon terriccio. Le premesse non sono buone.

Il problema degli alberi in città, qualsiasi albero, è che ormai tra piantumazioni inadeguate e scorretta manutenzione e potatura ne ricaviamo il peggio, non il meglio. Quando si intende piantare un albero in città, creare un viale, si dovrebbe farlo con rispetto del verde, come punto di partenza. Considerarlo alla stregua di un essere vivente, un nobile essere vivente che contribuisce moltissimo agli equilibri del pianeta, e non un arredo urbano sostituibile come una panchina. Pertanto, se si progetta un viale, una piantumazione estesa, l’albero va messo in primo piano, e la domanda da porsi è: come posso fare con asfalto, parcheggi, condotte sotterranee, in modo che non interferiscano con l’albero? E non il viceversa. Se non si ha questa sensibilità di base, se non ci sono gli spazi adeguati o non si vogliono creare, tanto vale lasciar perdere, perché si otterranno solo disagi e spese inutili alla cittadinanza. Oltre alla differenza fra albero di alto fusto e arbusto, di cui ho già parlato e che va tenuta presente, altra cosa su cui sono molto perplessa sono gli alberi da frutta in città, come la recente mania dei chinotti, o gli olivi. A Genova hanno espiantato dei bagolari perché danneggiavano l’asfalto (ecco la scorretta manutenzione) e vogliono mettere addirittura dei peri! Un albero da frutta all’interno di un giardino o più alberi in un percorso didattico hanno ancora un senso, ma nei viali no. Sporcano inutilmente, è uno spreco di frutta, sono meno decorativi e maestosi dei classici alberi da viali, si ammalano e richiedono maggiori cure. Stesso dicasi per gli olivi: al limite, come è stato fatto in alcune cittadine anche qui vicino, si dovrebbe affidarne manutenzione e cura a qualcuno che in cambio raccolga i frutti.

 


da Greenreport

 

Questo può avere senso. In conclusione, io non sono una agronoma e parlo da profana, ma ho sentito anche agronomi ammettere che gli alberi in città sono sacrificati alle esigenze della vita urbana e della programmazione. Pertanto si potano drasticamente in periodi non idonei, si potano in modo da evitare rischi di caduta e non secondo le loro esigenze vegetative e armoniche, e di conseguenza abbiamo funghi, seccume, crescita disordinata, malattie endemiche, radici a vista. Insomma, il succo è: c’è chi riesce ad avere uno splendido verde in città. Noi, a Savona come in molte altre parti d’Italia se le premesse sono queste, faremmo meglio a lasciar perdere. Tanto alle persone dà fastidio qualsiasi cosa turbi il bel grigio uniforme del cemento: fauna urbana o alberature.  Sporcano, perdono le foglie o la resina, tolgono parcheggi, infastidiscono coi loro rami sporgenti i palazzi limitrofi e tolgono luce. 

Via tutto, dai.  Tutto inutile e sporchevole.  

Vorrei concludere con una mia piccola composizione, parafrasando Bertold Brecht. 

Prima vennero a tagliare i pitosfori, ma non me ne preoccupai: erano solo siepi.

Poi fu la volta degli enormi e maestosi pini. Meglio così: le radici spaccavano l’asfalto, io volevo parcheggiare in santa pace.

Poi se la presero con le palme, lasciate morire di malattia. Ma a chi importano le palme…

Poi tutti strillarono che le piante in città sporcano con le resine e le foglie cadute, danno allergia, sono un problema. 

Poi sostituirono le piante tagliate con cespugli spelacchiosi o bastoni striminziti. 

Alla fine, quando mancò l’ossigeno, toccò anche a me. Ma era tardi per capire.

 

Ma i centri, c’entrano?

 


E ora, un altro argomento che scatena deliri sui social. Ho letto di tutto, mettendoci di mezzo il monoreddito, la messa domenicale, i cambiamenti indispensabili della vita moderna, l’occupazione, gli infermieri e i vigili del fuoco. Molti commenti sulle chiusure domenicali mi convincono sempre più che siamo schiavi contenti di baciare le proprie catene (sia la catena dello sfruttamento lavorativo sia quella del consumo selvaggio e forzato), invidiosi e rancorosi, tutti tesi a impedire che la catena di qualcun altro sia più leggera della propria, invece di unirsi in solidarietà per liberarsi, una buona volta, dal giogo, o almeno alleggerirlo per tutti.

Anche questi sono chiari segnali del degrado morale e materiale in cui ci siamo ridotti, in un lento stillicidio, dove ora anche persone che si ritengono di sinistra difendono fieramente le multinazionali del consumo. 

Persino dalle più brutte situazioni economiche, dalle crisi più nere si può uscire, con impegno e buona volontà. Ma con questo rancore acido, questo individualismo negativo all’ultimo stadio, non si va da nessuna parte.

 


 

Il progresso avrebbe dovuto ridurre le ore di lavoro per tutti, ridurre la fatica e creare benessere. Il capitalismo estremo a caccia del massimo profitto ci ha portato invece a un mondo forsennato dove sbattersi in modo eccessivo e a volte ingiustificabile e con orari assurdi è condizione necessaria e spesso insufficiente per mantenere un lavoro qualsiasi, per sopravvivere, sotto una montagna di ricatto, costretti a consumare una marea di merci inutili, a gettare imballi superflui, ad avvelenarci e sprecare risorse in attesa che il sistema collassi. E c’è chi si convince pure che è giusto così, che è bene così, che “sbattersi”, darsi da fare, inventarsi il lavoro quando sei in organizzazioni in agonia, agire come un top manager con stipendio da fattorino sia giusto, sia il massimo, sia necessario, sia inevitabile, sia il sale della vita moderna. E vantarsene pure, e guardare con disprezzo i “pelandroni”. In attesa che i robot ci sostituiscano tutti, e, invece di alleviarci la vita come sognava Asimov, ce la rendano ancora più misera. No, grazie, io sono pigra e fierissima di esserlo, disposta ad accontentarmi del necessario, a guardare il cielo e il mare ed essere felice lo stesso. Lavoro solo se sento che quel lavoro mi soddisfa e porta qualcosa in cambio, a me e agli altri, non se è inutile e porta solo sfruttamento e degrado.

L’etica calvinista del lavoro come virtù di per se stesso non mi prende e non mi coinvolge. È con quella che ci fregano. Il mondo è progredito grazie ai pigri, non a quelli che si sbattevano sempre e comunque. I pigri si mettono a riflettere su come evitare la fatica, e inventano, i creativi stanno fermi ma pensano, mentre gli altri sudano come dannati. Evviva la pigrizia, evviva la libertà. 

 


 

La grande distribuzione, i colossi sono in fermento, anche qui da noi, e strillano per principio prima ancora di capire quanto buon senso ci sia in un tentativo di tornare indietro rispetto alla deregulation, unica in Europa, che ci immiserisce tutti. 

Vedo di spiegare meglio il mio punto di vista, e perché quelle reazioni scomposte non sono del tutto innocenti né tanto meno motivate. 

Che senso ha parlare di posti di lavoro persi (quando sono almeno 10 a 1 quelli persi dal piccolo commercio rispetto a quelli guadagnati nelle grandi catene, in questi anni, per non parlare del deserto sociale che causano), parlare di diminuzione di incassi quando già oggi c’è una ipertrofia di centri commerciali e una offerta spaventosa, spropositata, insostenibile e indigeribile, e in compenso scarseggia l’offerta di prodotti di qualità anche minima a prezzi ragionevoli, in una massificazione verso il basso che ci umilia?

 


 

Poniamolo come un problema matematico. 

Dato D offerta complessiva della grande distribuzione, con D >> del necessario, 

dato M la quantità di merce acquistata dai consumatori C per le loro esigenze e sfizi, 

data la necessità del sistema D per mantenersi e aumentare il guadagno G, che M aumenti costantemente nel tempo, 

dato C più o meno costante, 

data $$, disponibilità economica di C, in forte diminuzione, a causa degli stipendi bassi nella stessa grande distribuzione, dei licenziati dai negozi, degli agricoltori sfruttati, della precarietà, delle fabbriche che chiudono per esternalizzazione, della riduzione dei dipendenti pubblici, insomma, della crisi endemica in tutti i suoi aspetti:

come si può ottenere il risultato M in crescita nel tempo per mantenere in vita un sistema che si basa appunto sulla crescita continua e senza limite?

a) diminuire gli stipendi del lavoratori e aumentarne lo sfruttamento. Non funziona perché fa diminuire ancora $$

b) aprire nuovi centri sempre più grandi che propongano tutti le stesse merci. Non funziona perché M resta costante

c) creare sempre nuove esigenze nei consumatori, di prodotti inutili, per aumentare M, spingendoli pure a indebitarsi. A un certo punto confligge con il crollo di $$ e crea effetti negativi a catena

d) abbassare ulteriormente i prezzi. Non funziona perché fa diminuire G e perché, ripercuotendosi su tutti i fornitori del sistema, ne fa crollare $$

A questo punto, sapendo che esiste E, l’e-commerce in forte concorrenza e con ulteriore sfruttamento lavorativo e di risorse, quanto durerà qualsiasi pretesa di incremento di M in D?

Ma soprattutto, quanto dureremo tutti noi prima che questo sistema vada a gambe all’aria?

In conclusione voglio essere positiva e propositiva. A parte una ovvia esigenza di decrescita che per molti è indigeribile, ma che comunque ci sarà, felice o infelice che sia, c’è modo di correre ai ripari dalla crisi fermando per esempio questo commercio di schiavi. Idee come il reddito di cittadinanza, o comunque un reddito di base, vanno proprio a creare ammortizzatori non clientelari e non di beneficenza per liberarci dalla schiavitù perenne del ricatto e del bisogno, e contrastare gli effetti nefasti di questo sistema in declino basato solo sul profitto selvaggio a scapito di tutto il resto, intanto che se ne studia uno migliore, evitando il disastro. 

L’importante è studiarsene uno migliore nel frattempo, perché altrimenti otterremo solo il risultato di mantenere artificialmente un po’ di consumi, mentre il pianeta stesso e l’ambiente vanno a catafascio. 

   Milena Debenedetti  Consigliera del Movimento 5 stelle

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