Democrazia a rischio

Perché la politica ed i parlamentari hanno fallito?
Perché hanno perso di credibilità?
Se lo chiedono in tanti e ci poniamo anche noi questo quesito.
Assistiamo sempre più, in Italia ma anche all’estero, ad un divario enorme – quasi un baratro – tra popolo e politici di professione. Un esempio sono stati alcuni momenti fondamentali della vita politica del nostro Bel Paese. Si sono viste le aule di Senato e Camera semideserte (8-10 persone in tutto) quando dovevano discutere in assemblea sia della proposta referendaria riguardante l’uso della cannabis, sia dell’eutanasia.
Una vergogna, a dir poco. Sintomo che in Italia c’è una sorta di menefreghismo strisciante, trasversale a tutte le forze politiche, tra i rappresentanti politici, ma anche tra molti cittadini.

La crisi della politica, o meglio l’agonia delle istituzioni, si evince proprio da qui: manca la fiducia che c’era un tempo. Misuriamo la sfiducia verso gli organismi istituzionali anche attraverso quei “no-vax” che dubitano dei propri medici e della sanità pubblica fino ad averli trasformati, nella loro fantasia, in carnefici.
C’è bisogno di novità politiche in Italia? Per far respirare il nostro Paese? Sì, certo. C’erano state le novità politiche, come il Movimento 5 Stelle o la nuova forza politica il cui capo era stato il noto imprenditore delle tv. Novità o fuochi di paglia?
In effetti ci troviamo dinanzi ad alcuni fenomeni di diversa natura e portata, che tuttavia si configurano come autentici e confluenti pericoli per la democrazia. Da vari anni si constata il fenomeno della disaffezione e della stanchezza dei cittadini per la partecipazione democratica, e si discutono le cause che lo hanno determinato. Di certo verifichiamo da tempo un andamento in crescita dell’astensionismo elettorale (1), nonché un pesante calo delle iscrizioni ai partiti, una notevole riduzione del numero delle sedi locali di aggregazione (sezioni, circoli, ecc.), e un’irrisoria percentuale di contribuenti che nella denuncia dei redditi sceglie di destinare una piccola quota dell’Irpef a sostegno dei movimenti politici. Una percentuale, quest’ultima, lontanissima dal numero dei contribuenti che scelgono di sostenere confessioni religiose, forme associative no-profit o iniziative di ricerca.

Questi fenomeni sono il segnale di una consistente caduta del grado di fiducia che i cittadini ripongono nelle forme organizzate di partecipazione politica, il che non equivale a un disinteresse tout court per il confronto; ma è certamente vero che gran parte dei cittadini se ne interessa come spettatore e non come protagonista.
È un po’ come nello sport, una cosa è scendere in campo per giocare, altra cosa è andare allo stadio e altro ancora è guardare la partita in tv. In politica i talk show televisivi registrano un loro seguito e hanno ancora la capacità di riuscire a essere programmati anche nelle fasce orarie di alto ascolto, ma la partecipazione in prima persona all’attività politica difficilmente riesce ad attrarre le persone spingendole a riservare ad essa impegno, tempo e dedizione emotiva. E quando si sceglie la via dell’impegno e della partecipazione, spesso questo fenomeno può registrare vari limiti come, per esempio, una sorta di parcellizzazione monotematica (un impegno anche generoso su un tema avvertito come di grande importanza, ma al di fuori da una visione d’insieme dell’andamento della cosa pubblica) o, in altri casi, può assumere un carattere del tutto temporaneo (come si registra in occasione delle scadenze elettorali amministrative, allorché assistiamo a un fiorire di numerose aggregazioni, che molto spesso appassiscono il giorno successivo al voto e non solo per risultati negativi).
Per contro il costume ormai profondamente sedimentato nella vita politica che, al di là dello sterile flatus vocis, esibisce un ampio disinteresse per le aspirazioni dei cittadini, come mostrano le aule parlamentari desolatamente deserte in occasione di momenti di discussione su temi di alta rilevanza politica, etica e culturale.

D’altronde il disinteresse e la disattenzione alle attese della cittadinanza in queste settimane sta registrando un preoccupante spazio. Basti pensare alle reazioni prodotte dallo sciopero generale dello scorso 16 dicembre, con il quale il movimento dei lavoratori ha finalmente riportato nelle piazze del nostro Paese la voce della giustizia sociale e della solidarietà. Da un lato abbiamo registrato il consueto stracciarsi le vesti delle forze di centro-destra che, come sempre, guardano come fumo negli occhi ogni iniziativa dei lavoratori, che sono il motore reale della crescita economica e sociale del paese e che spesso pagano direttamente sulla propria pelle quest’impegno. Dall’altro abbiamo visto l’incapacità delle forze progressiste di cogliere l’iniziativa sindacale come un utilissimo assist da spendere con sapienza e lungimiranza nei tavoli di negoziazione intergovernativa per migliorare in forma decisa la manovra economica in favore dei lavoratori e dei ceti più deboli.
Un altro dato che desta preoccupazione si può poi rilevare nel carattere delle iniziative e delle trattative che si stanno conducendo in vista dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Il tema della parità di genere è ampiamente sentito dalla cittadinanza, e l’idea di operare affinché una donna possa essere la prossima inquilina del Quirinale dovrebbe affascinare le forze politiche. Ma, al momento in cui poniamo per iscritto queste riflessioni, le voci che auspicano una donna alla Presidenza della Repubblica sono poche e alquanto flebili.
E invece sarebbe l’ora per dare una tonalità rosa alla serie storica dei Presidenti. Perdere questa opportunità significherebbe rinviare la cosa al 2029. È auspicabile allora che le forze politiche, in particolare quelle di sinistra e di maggiore sensibilità democratica, diano concretamente voce a questa viva aspirazione della cittadinanza.

Dopo il significativo contributo in termini di dedizione e di sensibilità offerto dal settennato di Mattarella, sarebbe davvero un bel passo avanti poter avere una donna illuminata al Quirinale. È un’occasione da non lasciarci sfuggire!
Questi “cahiers de dolèance” non vogliono assolutamente dar fiato al qualunquismo dei detrattori della Politica che tanti danni hanno già prodotto nel nostro Paese, ma desiderano evidenziare questo enorme problema che riguarda più in generale la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Ci riferiamo in particolare a quelli sfiduciati che hanno ritenuto di abdicare al loro ruolo, delusi – a ragione – dalla deriva in atto da anni. Si veda a titolo di esempio il caso degli elettori di sinistra del PD (ce ne sono ancora!) che con Renzi si sono ritrovati a constatare prima politiche neoliberali e poi la fuoriuscita dal partito e l’alleanza con il centro destra, rendendo vano il voto da loro espresso.
Ma soprattutto la sfiducia deriva, a nostro parere, dal comportamento ancillare dei partiti nei confronti dei potentati economici nazionali e internazionali e delle classi ricche. In un paese sempre più diseguale, i provvedimenti presi negli ultimi anni, e segnatamente da questo governo, mentre attuano una marcata privatizzazione come nel caso dell’acqua, tendono a salvaguardare i ceti medio alti, come si vede dal rifiuto di reinserire sia la tassa di successione, peraltro tipica di ogni politica liberale, sia una patrimoniale. Per tacere dell’ultima finanziaria che assegna al 3,3% dei contribuenti più ricchi il 14 per cento dei 7 miliardi del taglio Irpef, mentre esclude da ogni beneficio il 20 % delle famiglie in difficoltà e incapienti: è rimasto solo il reddito di cittadinanza difeso dal M5S ma fortemente contestato dal renzismo e dalle forze reazionarie. Anche l’ambito ecologico viene asservito agli interessi delle grandi corporation che continuano nella loro prassi inquinante riverniciata di verde. Il potere di manipolazione degli ultimi e dei penultimi da parte della politica spalleggiata dalla TV, dalla pubblicità e dalla grande stampa è sotto gli occhi di chi vuol vedere. Come porvi rimedio? L’economista francese di fama internazionale, il gesuita Gael Giraud, parla dell’incapacità di ascolto dei potenti con cui ha avuto contatti in varie parti del mondo che, troppo presi dagli impegni contingenti, “non hanno nemmeno il tempo di riflettere”.
Questo significa che, se non si parte dal basso, cioè da noi, nessun cambiamento serio sarà possibile; ma perché ciò avvenga occorre una forte assunzione di responsabilità da parte di persone capaci di mente, cuore e mani, disponibili a spendersi ai più diversi livelli, a partire dall’istruzione.
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(1) Sino al 1976 la partecipazione ha oscillato
sempre sopra il 93 %, nel 79 è stata il 91 %,
nell’83 dell’88 %, nel 2001 dell’81 %, per risalire
nel 2006 all’84% e ridiscendere ogni
volta sino al 73 % del 2018.

Da Tempi di Fraternità


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