Del grano, della farina, del pane

Del grano, della farina, del pane

Anche se non sono un grande esperto di pane, è comunque da tre anni che me ne occupo, impastando, formando filoni e panini

Del grano, della farina, del pane

Anche se non sono un grande esperto di pane, è comunque da tre anni che me ne occupo, impastando, formando filoni e panini tutte le notti. Per questo ho cercato di interessarmi alla questione con l’approccio che avevo appreso nella mia precedente incarnazione, e cioè quella dell’appassionato di Storia che aveva un sacco di tempo da spendere. Sono arrivato ad alcune riflessioni che qui pongo per iscritto, a disposizione dei lettori di “Trucioli savonesi” appassionati di pane.


Vorrei evitare gli excursus storici geografici e le cose arcinote a riguardo della provenienza, diffusione e modalità di realizzazione di alimenti a base di sfarinati di cereali impastati, lievitati (o meno) e cotti. C’è da perdersi, come ognuno sa.

Mi soffermo anzi sul fatto che il pane che consumiamo oggi (e per oggi intendo approssimativamente gli ultimi settant’anni) è profondamente diverso da “pane di una volta”, tanto ambito e celebrato dai retori e dagli amanti del folklore un tanto al chilo…

Una piccola premessa tecnica: per ottenere una buona panificazione occorre partire da una farina in grado di reggere alla spinta del gas che si forma durante la lievitazione. Perché sia così occorre una rete formata da una proteina che si chiama glutine. La rete, chiamata anche “maglia glutinica” intrappola il gas e rende il pane più o meno leggero.

Per questo la chimica dei prodotti alimentari si è concentrata molto sul glutine, andando alla ricerca di grani selezionati che dessero farine ricche di questa proteina. La classe di grani più gluteici e più famosi sono i “Manitoba”, di provenienza canadese. Tanto forte che raramente la farina viene usata da sola. Nelle farine da pane più comuni c’è, si può dire, sempre la Manitoba.

L’Italia ha una tradizione importantissima nel grano. Sia in quello tenero, da farina bianca per intenderci; sia in quello duro, più frequente al sud, con la cui farina si produce la pasta e il buon pane grosso meridionale, giallo e scuro. Anche qui la biodiversità è significativa: non c’è regione, vorrei dire provincia, forse vallata, che nei secoli non abbia elaborato, selezionato una sua propria qualità di grano: vuoi perché resiste meglio alla sete, all’umidità, al gelo, a taluni parassiti, perché è precoce, perché è tardivo… E così via. In Italia è vissuto uno dei più grandi conoscitori del grano: Nazzareno Strampelli. Un genetista. Un fascista. Ma un fascista anomalo, visto che, proprio perché genetista, si era rifiutato di firmare il “Manifesto della razza”. Strampelli aveva selezionato grani, pescando nella grande varietà della nostra penisola, trovando soluzioni semplici, economiche ed efficaci. Ad esempio esisteva un tipo di grano tradizionale che andava mietuto proprio quando le zanzare erano all’apice riproduttivo, e lui, in laboratorio, aveva incrociato grani per avere stessa resa, ma maturazione ritardata, o anticipata. Aveva creato grani “inallettabili”, ovvero che non si lasciano coricare dal vento. Aumenta la resa cercando la qualità nelle spighe più ricche. Il risultato è che ancora oggi molti grani selezionati dallo Strampelli sono coltivati, e non solo in Italia. Un vero patrimonio per tutta l’umanità.


Passiamo alle note dolenti: amici residenti in provincia di Savona, avete mai visto (recentemente, nell’ultimo anno per capirci) un campo di grano? Io si, ne ricordo vagamente un campetto, di un amico, seminato come per gioco. Basta, non me ne vengono in mente altri. Poco meglio va in Piemonte, meglio forse in Pianura Padana o in meridione (grano duro), dalla Puglia e dalla Sardegna.

Importiamo tantissimo grano, nonostante ci siano campi incolti e la cultura necessaria per produrlo. E allora come mai? Perché non conviene. Il grano francese, o dall’est europeo, o dal Canada, o da dove non so, costa molto, ma molto meno. Semplice no? Viviamo in un mondo globalizzato e aperto al liberissimo mercato. Il consiglio di fondo è: non ti preoccupare, non pensarci, va tutto bene. E invece non va bene: perdere la biodiversità del grano e la serie di conoscenze legate alla coltivazione, conservazione e trasformazione di un cereale fondamentale è una cosa seria. Forse non per noi, ma è un attimo perdere l’approvvigionamento dall’estero (la Crimea era una penisola famosa proprio per la produzione di grano…) o subire le bizze di un consiglio di amministrazione che decide rincari esorbitanti.

C’è ancora una cosa da sottolineare, il nostro grano, quello “tradizionale” (che poi tradizionale non è, visto che è stato studiato e selezionato da Strampelli) non raggiunge mai la forza, la capacità di creare una maglia glutinica come il grano canadese nominato.


 

Tornare al vecchio grano vuol dire anche tornare a tipi di pane meno soffiato, con alveolature più modeste. Questo non toglie nulla alla bontà del prodotto, si tratta proprio di consuetudini alimentari, come dire pasta al dente o pasta cotta. Ad ognuno il suo: non c’è un modo “sbagliato” di cuocere la pasta.

Insomma, convenienza economica e difficoltà tecnologiche hanno fatto prevalere il grano straniero. Niente di male, è anzi normale che sia così. Il problema è che mandiamo in soffitta o nel museo tutto quello che sapevamo sul nostro grano, risorsa importante, direi fondamentale per la nostra alimentazione.

Si può cominciare ad essere consapevoli di quel che mangiamo informandoci, scoprendo ad esempio che far venire il grano da vicino, magari dalla nostra stessa terra, coltivato (bene) da contadini sostenuti da qualche piccolo aiuto ministeriale, i quali restando sul territorio ne sono anche la vigilanza continua e la conoscenza storica diretta; come pure imparare le differenze nutritive tra una semplice farina bianca 00, buonissima, ma fin troppo simile allo zucchero… (per certi versi) e le farine macinate a pietra, ricche di nutrienti importanti (Sali, alcune proteine, e altri nutritivi, si trovano attaccati alla crusca, che è attentamente scartata dalla farina 00). Insomma: formazione continua, curiosità, domande e risposte. Non c’è niente di chiaro e definitivo, ma la nostra scelta non può essere dettata solo dal colore di una confezione sul banco di un supermercato, o dal consiglio che un bell’uomo ci ammannisce con vago accento spagnolo. Dobbiamo saperne di più e meglio.


Concludo ricordando la scienza e, in special modo la chimica, la biologia e la genetica, sono discipline che incutono una certa inquietudine. Eppure senza questi strumenti il nostro pane sarebbe ancora quello “di una volta”: nero, spesso e pesante, acidulo, talvolta muffito, mangiabile solo dopo averlo ammollato in acqua (e con molta fame). Il problema, secondo me, è che le discipline scientifiche sono a disposizione di tutti, ma solo chi ha fondi da spendere può usarle approfonditamente, per uno scopo e con una rendita diretta. Per noi, studiare quello che mangiamo in maniera scientifica, pare una perdita di tempo, e ci affidiamo al folklore. E gli scienziati, nell’immaginario, sono quelli buoni solo a costruire mostri, OGM, esperimenti inquietanti. Ma non è così. Abbiamo tutto da imparare, tanto dal campo, dal vecchio contadino, dai documenti storici che sono rimasti; quanto da agronomi, genetisti e chimici, che oggi, grazie anche alla tecnologia della rete, non sono poi così difficili da raggiungere.

ALESSANDRO MARENCO

 

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