Dal naufragio fantasma alle aporie …

Dal naufragio fantasma alle aporie
del reddito di cittadinanza
L’Italia è una repubblica democratica fondata sull’accoglienza 
(art. 1 della Costituzione rivisitata da Roberto Fico)

Dal naufragio fantasma alle aporie del reddito di cittadinanza

L’Italia è una repubblica democratica fondata sull’accoglienza
(art.1 della Costituzione rivisitata da Roberto Fico)

 Il dubbio è il sale della conoscenza e la cartina di tornasole della verità.  Ma non sembra sfiorare il capo dello stato né, ahimè, il capo del governo del cambiamento, che, con una reattività degna di miglior causa, alla notizia confusa, lacunosa, contraddittoria di un naufragio con 117 morti da sommare alle altre migliaia che avrebbero fatto del canale di Sicilia un cimitero, si sono affrettati ad avvalorarla con le consuete parole di commiserazione per le vittime, date per certe, e la consueta autoflagellazione per non aver saputo impedire la tragedia. Notizia, si badi bene, fondata solo sulla testimonianza di tre presunti sopravvissuti recuperati in mare in circostanze avvolte dal mistero.


Il racconto, per altro riportato, dei tre, a loro volta tenuti accuratamente nascosti, non suffragato da alcuna prova, corredato da immagini di repertorio, tanto straziante quanto evanescente, con i corpi spariti in un batter d’occhio come se  invece che nelle acque davanti a Lampedusa fossero caduti all’interno di un acquario pieno di squali bianchi digiuni da mesi, è stato subito preso per oro colato dai media, con i cronisti televisivi che davano ad intendere di aver assistito al naufragio. Sconcertante è la disinvoltura con la quale si è sorvolato sul fatto in sé spostando l’enfasi sul suo significato emozionale, sull’effetto reso indipendente dalla causa che l’avrebbe provocato. Ma, ripeto, il dubbio non ha sfiorato il Quirinale né il suo entourage, che presumibilmente è costituito da persone smaliziate.

Ovviamente non ha sfiorato i redattori dell’Huffington Post, che però involontariamente forniscono una chiave di lettura di questo come di tanti altri episodi analoghi quando titolano, cito a memoria, “Quanti morti servono ancora per suscitare pietà?”, id estper riprendere allegramente con l’accoglienza, che per l’ineffabile, o meglio inqualificabile, Fico sarebbe il fondamento della nostra Costituzione (un buon argomento per quelli che sostengono che i grillini aborriscono il lavoro). 


E, a proposito di grillini: il reddito di cittadinanza è una misura di civiltà, rinsalda la comunità e attua il principio di solidarietà che è all’origine del patto sociale, vale a dire dello Stato. Ma doveva essere realizzato con criterio e in modo coerente con la struttura sociale del Paese. Intanto ha un senso se e soltanto se riservato ai cittadini italiani, il che non esclude che agli stranieri in difficoltà presenti legalmente nel nostro territorio debbano essere garantite le condizioni di sopravvivenza: il vitto e un riparo. Ma in questo caso si tratta di assistenza, il corrispondente laico della carità cristiana.

Nell’altro invece si ha a che fare con un diritto che il patto garantisce al cittadino-contraente e di un preciso obbligo delle istituzioni che originano dal patto, non di un’elemosina:  nessuno di quanti costituiscono la grande famiglia della Nazione deve essere lasciato solo e abbandonato a se stesso. Le leggi tutelano la proprietà, reprimono il furto così come, se venissero applicate, e in anni ormai lontani lo erano, dovrebbero impedire l’accattonaggio.

Ebbene, la repressione del furto o il divieto dell’accattonaggio sono l’altra faccia del sostegno a chi vi dovrebbe ricorrere per non morire di fame. Questo indipendentemente dalla attivazione di strumenti per facilitare il raccordo fra richiesta e offerta nel mercato del lavoro.  Considerazioni analoghe valgono per la pensione di cittadinanza.  Insomma; si chiami come si vuole ma il cittadino che per qualsiasi motivo si trova senza una fonte di reddito ed è in condizioni di indigenza deve essere sostenuto e, se è in grado di lavorare, gli va trovata un’occupazione. 


Il punto è che questi provvedimenti sono stati pensati in astratto da gente colpevolmente impreparata e evidentemente all’oscuro della condizione sociale del Paese, delle dinamiche salariali e dei livelli retributivi dei lavoratori italiani. Faccio qualche esempio (reale e documentabile): il signor Carlo partecipa al concorso indetto da un comune del centro Italia riservato a laureati in discipline economiche forniti di laurea specialistica  (quinquennale); lo vince battendo la concorrenza di qualche migliaia di aspiranti provenienti da ogni parte d’Italia.

A fronte di un incarico delicato e di responsabilità il suo stipendio netto sarà di 1300 euro al mese.  Il signor Fabio guida l’autobus da venticinque anni in una città medio-grande del centro nord. Con moglie a carico porta a casa,  grazie a straordinari e notturni, un po’ meno di 1400 euro. Che non son pochi, se si pensa che un professore di liceo arriverà a guadagnare quella cifra solo dopo un decina d’anni di insegnamento.  E il signor Giorgio, magazziniere part time (20 ore settimanali) in un grande magazzino si deve accontentare di 600 euro, sempre meglio del commesso  che stando in piedi otto ore al giorno ne intasca  900.  Se poi si dà un’occhiata alle statistiche si scopre che lo stipendio medio di un lavoratore dipendente non arriva a 1200 euro mensili, un valore che per altro non è né la moda né la mediana perché nel conto entrano le centinaia di migliaia di privilegiati da più di centomila euro l’anno. Questa è la realtà triste del mondo del lavoro in Italia, a fronte della quale i grillini, avendo scoperto che sotto i 780 euro è difficile vivere decorosamente, hanno fissato a quella cifra il reddito minimo di cittadinanza e di pensione, in maniera tale che con carichi familiari si possa arrivare fino a 1300.  

Un delirio. Nessuno nega che con quei soldi non si sguazza certo nel lusso e, come ho detto sopra, nessuno deve essere abbandonato. Ma il lavoro, la fatica, la professionalità, la competenza, il servizio reso alla comunità esigono rispetto e se la distanza fra il reddito garantito – doverosamente – a chi si trova nella condizione di dover essere  sostenuto dallo Stato e quello di chi col suo lavoro contribuisce a tenerlo in piedi lo Stato diventa irrisoria  qualcosa non funziona. I casi sono due: o Di Maio e i suoi compari non sanno qual è il reddito di chi lavora o ritengono che il lavoro non valga nulla. La vera rivoluzione di cui l’Italia ha bisogno non sta in provvedimenti tutto sommato marginali come  il reddito per i nullatenenti o quota cento per andare in pensione. La vera rivoluzione, quella per la quale i popoli di tutta Europa sono in fermento, è quella di una ridistribuzione del reddito: il lavoro deve poter garantire il mantenimento di una famiglia.

Ora, dopo lo scempio causato da sinistra e sindacati, sembra un’utopia ma, senza scomodare gli anni Trenta, ancora qualche decina d’anni fa un operaio con moglie e due figli a carico si poteva permettere di crescerli decorosamente e, se ne avevano voglia e capacità, di farli studiare. 


Il reddito e la pensione di cittadinanza avrebbero dovuto essere realizzati nel quadro di una complessiva rivoluzione salariale e del sistema pensionistico, che garantisse minimi salariali almeno doppi di quel reddito e di quella pensione evitando di creare la situazione paradossale di un pensionato che dopo quaranta anni di contributi percepisce la  stessa cifra di uno che non ha mai versato un centesimo all’Inps .

Se  mi si obietta che comunque i 780 euro sono la soglia per la sopravvivenza allora vuol dire che grazie alla presenza dei più forti sindacati del mondo  l’Italia è diventato un Paese nel quale  per mantenere un tenore di vita soddisfacente non basta lavorare ma bisogna arrangiarsi. Ma, se è così, prima di umiliare il lavoratore o il pensionato che vedono ufficializzata la loro condizione di povertà e ridicolizzato il loro progetto di vita, si doveva scegliere fra due strade: o fingere che  la soglia della povertà assoluta si situa al massimo a 500 euro (e già con le pensioni minime è stata superata) e garantire reddito e pensione di cittadinanza entro quella soglia o portare la media degli stipendi a 1600-1700 euro con un salario minimo non inferiore a 1400. Con i guasti che hanno fatto sinistra e sindacati questo non è possibile ma, per dare un senso al governo del cambiamento, deve rimanere almeno come obbiettivo da perseguire. E se nell’immediato rimane fuori portata, sarebbe stato saggio accontentarsi di quella finzione e consolarsi col detto ‘meglio poco che nulla’.

Ma decidere per legge che in una famiglia in cui nessuno lavora entrino fino a 1300 euro  (parole del ministro del lavoro)  può solo fare esplodere una pentola che già ora è abbastanza compressa.  Gli italiani vogliono pulizia e giustizia, vogliono chiudere la maledetta parentesi del regime che ha snervato e disarticolato il Paese;  vogliono riprendersi non solo la loro sovranità ma anche la dignità del loro lavoro e della loro esistenza. È  per questo che si è chiusa la stagione dei partiti, della sinistra e vivaddio dei sindacati. Ci sono tante storture nel Paese che sarà difficile raddrizzare; non ne creiamo altre e non creiamo misure che sembrano ritagliate per amici e amici degli amici (come quella di non tener conto per la valutazione del diritto a ricevere il reddito di cittadinanza non solo dell’abitazione di proprietà ma di un altro immobile il cui valore non superi trentamila euro. Ma stiamo scherzando?).


Per concludere

La questione migranti non si risolve finché viene trattata come un “problema epocale” o  si rimane fermi nella convinzione che la sua origine sia in Africa (o, per gli Usa, nel centroamerica). Di epocale c’è solo il disegno perverso dell’invasione, programmata e organizzata in Occidente con esecutori e fiancheggiatori a casa nostra. Chi straparla di movimenti di popoli o è in malafede o ha una visione infantile delle cose. L’Africa, per fortuna, se ne sta ferma al suo posto, non ci sono cataclismi, carestie, sconvolgimenti climatici: il 99,99% degli africani vivono la loro vita nella loro terra senza sognare l’Europa.

Ciò non toglie che ci sia un problema di dislivelli culturali e  di stili di vita aggravato dalla diffusione del mito di una vita facile, libera dal lavoro e dalla fatica. I trafficanti possono far leva su quel mito per spingere giovani, ben selezionati come facevano gli antichi negrieri, a tentare l’avventura. Grazie a quei trafficanti e ai loro mandanti l’Italia è diventata vulnerabile sia per le implicazioni di ordine economico e sociale dell’immigrazione illegale sia per la presenza  ormai consolidata di un esercito potenziale in grado di stravolgerne l’impianto antropologico, culturale, istituzionale   e religioso o, in una prospettiva diversa ma non meno preoccupante, di una minoranza vigorosa e in espansione manovrabile dall’esterno che mina la compagine della nazione, compromette la sua identità e attenta alla sua sovranità. 

Il reddito di cittadinanza era e rimane un provvedimento sacrosanto e si pone sulla scia dei provvedimenti che in un passato ormai vennero varati per mantenere compatta e solidale la società, quando, per intenderci, prendeva forma il nostro stato sociale; ma doveva essere subordinato ad una rivoluzione nei rapporti di lavoro e delle politiche salariali.

Perché il dramma dell’Italia non è solo quello contingente della carenza di opportunità occupazionali ma quello strutturale della obbiettiva impossibilità di pianificare il futuro da parte dei giovani lavoratori, il cui stipendio non consente di farsi una famiglia e assicurarsi una continuità generazionale. Non è vero che non si fanno figli per ragioni culturali o per edonismo: una famiglia monoreddito ormai non può reggersi neppure senza figli. Stando così le cose per combattere e prevenire la povertà ci si doveva limitare a dare un segnale sia ripristinando le quote di aggiunta di famiglia sia anticipando, in modo se vogliamo simbolico, un  reddito minimo per le persone in difficoltà o in cerca di lavoro, contenuto entro una misura ragionevolmente distante rispetto a quello che è oggi il salario medio di un lavoratore, in attesa di una rivoluzione salariale che restringa drasticamente la forbice delle retribuzioni, resusciti il ceto medio, metta all’angolo (non dico faccia sparire) le élite e non consenta che si possa assimilare lo stipendio ad un sussidio. 

   Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

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