Cronistoria di una crisi che …

Cronistoria di una crisi che si voleva risolvere in burletta
E che male che vada ci avrà liberato da Conte

Cronistoria di una crisi che si voleva risolvere in burletta
E che male che vada ci avrà liberato da Conte

 Conte rassegna le dimissioni. Il capo dello Stato dà mandato al presidente della Camera di esplorare la disponibilità delle forze politiche rappresentate in parlamento a costituire una maggioranza per formare un nuovo governo. Fin qui tutto regolare se non fosse che l’esplorazione è circoscritta all’interno del perimetro della vecchia maggioranza, quella che, avendo cessato di esistere, ha costretto il presidente del consiglio rimasto senza maggioranza a rassegnare le dimissioni. Che senso ha? 


Fico e Mattarella

Mi chiedo: ma in Italia dov’è finito il diritto costituzionale? È vero che siamo stati governati per un anno a suon di dpcm, vale a dire di provvedimenti del primo ministro, che, non dimentichiamolo, nel nostro ordinamento è solo primus inter pares, senza possibilità di controllo o di conferma da parte del parlamento. Nemmeno il Duce aveva questo potere. Ed è anche vero che quando il parlamento non poteva essere scavalcato è stato zittito a colpi di voti di fiducia. Tutto senza che il capo dello Stato abbia fatto una piega. Ed è pur vero che alla luce del sole si sono spinti singoli parlamentari a trasmigrare verso l’area del governo, una cosa che a Berlusconi costò un processo e una condanna. Questa circostanza, si dirà, riguarda la magistratura e per il resto la Costituzione formalmente non è violata. Ma non è che ora, con quel tipo di mandato a Fico, anche formalmente si è varcato il limite?

L’opposizione viene scotomizzata, è un fastidio, un corpo estraneo, fuori del gioco. Se però qualcuno dei suoi componenti si lascia convincere dalle sirene Conte e Franceschini, che ben venga; ma i partiti vanno tenuti fuori della porta, Fico con loro non deve parlare, il loro parere non è richiesto, la cosa non li riguarda. È normale questo? E, se lo è, l’Italia è degna di essere annoverata fra le democrazie occidentali? Secondo me ormai non ha niente a che fare con le democrazie, occidentali o no. E con quale faccia tosta ci si può permettere qui, in Italia, di stigmatizzare la repressione del dissenso in Russia, dove, fino a prova contraria, chi governa ha un pieno sostegno popolare e l’oppositore blandito da Usa e U.E. è uno che l’opposizione pretende di farla non in parlamento ma nelle piazze?

Ma c’è di più. Da quando il Pd col suo 18% è al potere grazie al tradimento dei Cinquestelle l’opposizione in Italia è tranquilla, felpata, si esaurisce nei talk show e, per quello che è concesso, nelle aule parlamentari: niente chiasso, niente proteste, non ci sono – per fortuna – né vetrine spaccate né treni bloccati. I sindacati tranquilli, i ragazzi chiedono compostamente di tornare a scuola o di non tornarci (non si è capito bene). Le sardine sono tornate sott’olio, nei centri sociali si fuma e ci si fa senza disturbare i vicini. I no-Tav sono ansiosi di raggiungere la Sicilia in auto, di esalarsi il gas in Puglia e di brindare col petrolio dell’adriatico. Dei leader sindacali si è persa traccia. Calma piatta, insomma, quale non si era mai vista nella nostra storia repubblicana. Non disturbiamo il manovratore.


Sarebbe, sarà, lo stesso quando, alla scadenza naturale, si potrà finalmente votare e non ci sarà Mattarella che tenga per evitare che si formino una maggioranza e un governo alternativi alla sinistra? So che nessuno ci scommetterebbe un soldo falso. Scuole occupate, scioperi a oltranza, volenti o nolenti i diretti interessati, cassonetti dati alle fiamme, intellettuali scatenati sotto lo sguardo compiaciuto dell’Ursula di turno.  Questo è lo scenario. E in campo le nuove truppe cammellate, gli immigrati, dei quali così si scopre l’utilità.

Non ci sono sardine verdi e non ci sono sardine nere. E con tutto che il parlamento sia occupato da una forza politica che ha spudoratamente ingannato i suoi elettori e che il governo sia finito nelle mani di un partito, il Pd, uscito sonoramente sconfitto dalle urne, non c’è stato nessuno che abbia alzato un dito per protestare, non ci sono stati cassonetti rovesciati, vetrine spaccate, bottiglie molotov. Il fascismo, inteso con la connotazione che gli viene attribuita dai compagni, è tutto, tutto, a sinistra; la violenza politica è tutta, tutta, a sinistra. E non si venga a raccontare che il pericolo per la democrazia viene da un braccio levato nel saluto romano. Un po’ di serietà e, se mi si consente, anche di senso del ridicolo. E, a questo proposito, mi ha infastidito la Meloni che sta al gioco e si mette nella condizione di dover negare che quelle braccia fossero pericolosamente inclinate o, nel caso che lo fossero, di dissociarsene sdegnosamente. Ma via…


Il diavolo, come al solito, fa le pentole ma non i coperchi. E grazie al più che giustificato odio di Renzi nei confronti del cicisbeo-dittatore lo sforzo del capo dello Stato di lasciare il potere ai compagni in barba alla sovranità popolare è naufragato. Ma l’antisalvinismo continua ad accecare e si fa passare per saggia l’idea folle di Berlusconi di un “governo dei migliori”. Berlusconi, fatte salve le proporzioni, ha in comune con Conte una imperfetta metabolizzazione della democrazia: vinte le elezioni del 1994 considerò proprietà sua non solo il partito ma anche il parlamento e il governo e ci piazzò gli uomini della sua corte, a partire dai suoi avvocati di fiducia. Conte si accingeva a fare di peggio: sulla scia dei suoi dpcm si era illuso di poter gestire insieme a pochi intimi l’enorme prestito che l’Italia si sta accollando e che condizionerà la vita di intere generazioni. Una prospettiva spaventosa che ha messo in allarme quel che resta del potere industriale e finanziario italiano spingendolo a sostenere Renzi per scongiurare il pericolo, chiaramente col benestare del gruppo Bilderberg. Il delirio di onnipotenza fa dei brutti scherzi e i padrini di Conte, per quanto potenti, non hanno potuto far niente per salvarlo e il Grillo sconclusionato è rimasto col cerino in mano. Ma se il cicisbeo aveva trasformato la politica italiana in una soap opera e chiunque ha reso possibile il gioco di Renzi per levarlo di mezzo va ringraziato, la linea tracciata da Berlusconi, rispolverato per l’occasione, non promette niente di buono e prefigura un Paese immaturo – ammesso che esistano Paesi immaturi -, un Paese incapace di esprimere una classe politica e dei governanti in grado di guidarlo. Bisogna, secondo il cavaliere, che gli uomini migliori, i Kalòi kagathòi, prendano nelle loro mani il timone e portino la nave fuori dalle secche in cui si è cacciata.


Di questi migliori il mitico Draghi sarebbe a sua volta il migliore ed è a lui, alla sua saggezza, alla sua competenza e al suo prestigio che ci dobbiamo affidare. Per di più è uno che normalmente parla inglese e ricorre all’italiano come seconda lingua e solo quando è strettamente necessario. Ma che Draghi sia l’uomo della provvidenza o l’unto del Signore non sta né a Mattarella né a Berlusconi deciderlo: lo dovrebbe decidere il popolo italiano, ammesso che non si accontenti di un comune mortale e, quanto ai migliori, qual è il criterio col quale vengono identificati, posto che davvero vi siano dei “migliori”? Solo a cose fatte si può stabilire chi ha operato bene, sulla base appunto di quello che ha saputo fare. Reagan si dimostrò il migliore dei presidenti degli Stati uniti del dopoguerra ma quando fu eletto era solo un politicante conosciuto più  come ex attore di serie B che come governatore della California. Non esistono in abstracto “i migliori” e chi pensa di farne parte è una rana che rischia di scoppiare.  Draghi può acquistare credibilità, s’intende politicamente, se i partiti che rappresentano la maggioranza degli italiani investono su di lui; ma lo possono fare se l’ex banchiere si presta ad esserne lo strumento operativo per realizzare quello di cui la nazione ha bisogno. Solo così acquisterebbe credibilità e una legittimità sostanziale, a patto che il suo ruolo si esaurisca nello spazio temporale necessario per assolvere al compito che gli viene affidato. Più a lungo non è tollerabile mantenere in carica non tanto lui, che, come Conte, non ha alcun sostegno elettorale, ma questo sgangherato parlamento che, col voltafaccia dei Cinquestelle nei confronti dei propri elettori, non rispecchia in alcun modo il popolo italiano. Quel che è certo è che nell’ipotesi sciagurata che Draghi si sia fatto imporre dal capo dello Stato il vincolo di mantenere a tutti i costi la barra del timone in mano ai compagni – come ha fatto col mandato esplorativo di Fico – ci sarebbe da prendere atto che il patto sociale è stato risolto  e da trarne le conseguenze.  Qui non siamo al Messico, avrebbe detto Matteotti, e nemmeno in Birmania.Tanto più che non abbiamo solo a che fare con un sistema politico-parlamentare sul filo della legalità e della legittimità democratica: c’è anche da tirar fuori il sistema giudiziario dal baratro in cui è precipitato. 

Draghi e Grillo

Il presidente della repubblica, art. 87 della costituzione, presiede il consiglio superiore della magistratura. Questo ruolo ne fa il custode e il garante del buon funzionamento della macchina giudiziaria, quali che siano le effettive funzioni e il dominio di un’istituzione che, nata come organismo consultivo, si è trasformata in organo di autogoverno della magistratura di rango costituzionale.  Perché il problema non è la separazione dei poteri ma l’insindacabilità del sistema dopo che è diventato un corpaccione simmetrico al pubblico impiego, che produce da sé i suoi membri e li controlla determinandone posizioni e carriere; con l’aggravante che la sua vita è condizionata da forze che rispecchiano interessi politici, affaristici e personali. Il giudice italiano insomma non è solo davanti alla legge ma è membro di una congrega che usa e che lo usa e quel corpaccione non è solo immerso in un rapporto osmotico col potere politico ma è esso stesso un potere politico. Questa condizione equivoca della magistratura e del sistema giudiziario data praticamente dall’avvento della repubblica, ha avuto dei momenti di crisi drammatica sia per le proprie interne contraddizioni – si ricordi il porto delle nebbie – sia per le pression e le intimidazioni da parte dell’eversione rossa e della criminalità organizzata sia per il delirio di onnipotenza innescato dall’affaire del finanziamento occulto dei partiti, la cosiddetta tangentopoli che inghiottì le due formazioni politiche egemoni lasciando solo e padrone del campo il partito comunista. Ma quel corpaccione era ancora allo stato virtuale, le correnti non avevano ancora forza attrattiva e capacità organizzativa e si risolvevano in semplici orientamenti mentre la degenerazione dei vertici non comprometteva ancora il prestigio e i comportamenti della grande massa dei giudici e dei magistrati.


Ora non è più così. Il caso Palamara ha scoperchiato un verminaio che appare impossibile bonificare senza interventi drastici e traumatici. Interventi che rimettano in discussione le correnti, il sistema di reclutamento, la carriera di giudici e di magistrati, il controllo delle procure, l’associazionismo, i rapporti fra i poteri dello Stato, il ruolo della politica. Si sono sentite parole di fuoco da parte di singoli magistrati, giuristi, esponenti politici di ogni colore, rappresentanti delle camere civili e penali. Sansonetti, tanto per citare un giornalista di sinistra, uno che a ogni piè sospinto rivendica la sua anima comunista, ripete in tutte le occasioni che gli si presentano che la giustizia in Italia non esiste (testuale), che la magistratura è deviata (testuale anche questo), e non si leva una voce a cercare di smentirlo. E Mattarella, il capo dello Stato, il presidente del consiglio superiore della magistratura non fiata.  Non è più il momento di nascondersi ipocritamente dietro l’alibi della divisione dei poteri. Deve essere il parlamento a prendere di petto il problema della giustizia affidandone la soluzione ad una commissione bicamerale. Ma c’e troppa paura in giro, ci sono troppi ricatti incrociati e soprattutto non c’è un parlamento abbastanza autorevole. Un altro motivo per andare di corsa alle elezioni. E basta con la bufala che con la pandemia in giro non si può votare.

Repetita iuvant

Al punto in cui siamo non resta che prendere atto che la democrazia in Italia è una chimera. Si abbia allora il buon gusto di piantarla col dissidente russo che ci viene propinato quattro volte il giorno, il dissidente russo colpevole di reati comuni – furto – e per questi condannato, al quale Putin avrebbe messo il bavaglio dopo aver tentato di farlo fuori col veleno. Sai su quanti voti può contare Navalny! E in Russia, nella santa Russia, comanda chi prende i voti anche se questo può risultare incomprensibile ai compagni di casa nostra.

   Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione  

  Il nuovo libro di Pier Franco Lisorini  FRA SCEPSI E MATHESIS

 


Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.