Contro la cultura della vendetta

CONTRO LA CULTURA
DELLA VENDETTA

CONTRO LA CULTURA DELLA VENDETTA

 Ho sotto gli occhi l’ articolo di Pier Franco Lisorini intitolato “Contro la cultura dello stupro” uscito domenica 2 maggio 2021 su questa stessa rivista online e una volta di più stento a capire come un docente emerito di filosofia come lui senza dubbio è, possa scrivere – a parte l’impiego stonato della parola “cultura” riguardo allo stupro – frasi come le seguenti “…per quanto possa essere sgradevole per le anime belle, tanti responsabili di stupro si sono dovuti accomodare sulla sedia elettrica, circostanza che in sé ci inorridisce ma l’orrore si attenua se si riesce a immaginare l’orrore del trovarsi in balia di uno che fa strame del corpo e della volontà altrui”. Come se l’orrore provato dalla vittima dello stupro possa essere usato per lenire l’orrore della pena di morte eseguita per mezzo di scariche elettriche sempre più forti fino a che il condannato non muore, e, viceversa, come se la morte dello stupratore “accomodatosi” sulla sedia elettrica possa lenire l’orrore della vittima stuprata. Questo significa considerare la pena come una vendetta ad opera della legge per conto della vittima e della società in generale. Ma la legge della frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente, braccio per braccio (Levitico 24, 19-20) è una legge barbarica, tribale, arcaica indegna di una società evoluta e civile. Ho anche trovato più che sgradevole l’ironia sulle anime belle contrarie alla pena di morte: anche Cesare Beccaria sarebbe, per Lisorini, un’anima bella nel senso deteriore di persona idealista ma ingenua e incapace di agire per contribuire a migliorare il corso del mondo?


CesareBeccaria

Nel capitolo ventotto del suo trattato Dei delitti e delle pene del 1764, Beccaria scrive: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”. Quale argomento si può addurre a difesa di simile assurdità? E anche Nietzsche, che pure non era contrario alla pena di morte, tuttavia scrive: “Come è che ogni esecuzione ci offende più di un omicidio? E’ la freddezza dei giudici, sono i meticolosi preparativi, è il sapere che qui un uomo viene usato come mezzo per spaventarne altri. Giacché la colpa non viene punita, se anche ce ne fosse una: questa è negli educatori, nei genitori, nell’ambiente, in noi, non nell’omicida, – intendo le circostanze determinanti” (Umano, troppo umano, 1878). Un’altra anima bella contraria alla pena di morte è Fedor Dostoeskij: “La punizione di uccidere chi ha ucciso è incomparabilmente più grande del delitto stesso. L’omicidio in base a una sentenza è incomparabilmente più atroce che non l’omicidio del malfattore” (L’idiota, 1869). Altra anima bella contraria alla pena di morte è lo scrittore Albert Camus che, nelle sue Rilessioni sulla pena di morte, del 1957, scrive: “Il senso d’impotenza e di solitudine del condannato incatenato, di fronte alla coalizione pubblica che vuole la sua morte è già di per sé una punizione inconcepibile…l’uomo è distrutto dall’attesa della pena capitale molto tempo prima di morire. Gli si infliggono così due morti, e la prima è peggiore dell’altra, mentre egli ha ucciso una volta sola…”. 


Tra le anime belle sulle quali ironizza Lisorini e tra le quali possiamo annoverare anche il nostro Giovanni Pascoli, giganteggia Victor Hugo con le sue vere e proprie arringhe contro la pena di morte: “Come? In giacca non posso uccidere, in toga posso?  Come la tonaca di Richelieu, la toga copre tutto? Vindicta  publica ? Oh, ve ne prego, non mi vendicate. Assassinio, assassinio! Vi dico. All’infuori del caso di legittima difesa, inteso nel suo senso più ristretto (perché una volta che il vostro aggressore ferito da voi sia caduto, voi dovete soccorrerlo), l’omicidio è forse ammesso? Ciò che è vietato all’individuo è dunque lecito alla comunità? Il carnefice quale sinistra specie d’assassino, l’assassino ufficiale, l’assassino patentato, mantenuto, fornito di rendita, chiamato in certi giorni, che lavora in pubblico, uccide in pieno sole, avendo tra i propri arnesi ‘la spada della giustizia’, riconosciuto assassino dallo Stato, l’assassino funzionario, l’assassino che ha la sua nicchia nelle legge, l’assassino in nome di tutti. Esso ha la mia procure e la vostra per uccidere. Strangola o scanna, poi batte la mano sulla spalla della società e dice: ‘Io lavoro per te, pagami’. E’ l’assassino cum privilegio legis , l’assassinio il cui crimine è decretato dal magistrato, deliberato dal giurato, ordinato dal giudice, permesso dal prete, protetto dal soldato, contemplato dal popolo” (Contro la pena di morte, 1829). E si potrebbe continuare ad libitum con questa rassegna delle anime belle che si sono espresse contro la pena di morte, ma quest’ultima citazione – la cui attualità è persino inutile sottolineare –    mi sembra che riassuma al meglio gli argomenti degli abolizionisti. 

 

La vendetta dei popolani contro un nobile durante la presa della Bastiglia

Nell’articolo di Lisorini ci sono altre frasi che mi hanno fatto sobbalzare, per esempio queste: “Ce n’è voluto di tempo ma la cultura meridionale del ‘se l’è cercata’ è ormai alle nostre spalle…”. Non so fino a che punto il docente emerito di filosofia si renda conto di aver scritto una frase razzista: qui non c’entra niente – uso una delle sue espressioni preferite – il politicamente corrotto o scorretto, qui si tratta dell’uso proprio o improprio delle parole; in questo caso più che di cultura, si tratta di mentalità, o meglio, di luogo comune o di pregiudizio. Ma perché è una frase razzista? Perché presuppone che si tratti di una mentalità, di un luogo comune, di un pregiudizio tipico dei “nostri connazionali del sud”, i quali, evidentemente, vengono considerati in massa meno evoluti di quelli del nord e del centro d’Italia., considerati in massa più civili ed evoluti (leghisti a parte). Quando si parla, dunque di cultura meridionale, caso mai, si pensa a filosofi come Telesio, Campanella, Bruno, Vico, e poi agli illuministi napoletani Giannone, Galiani, Cuoco, Filangieri, Pagano; e poi, nell’Ottocento, a Galluppi, a De Sanctis, a Spaventa; e poi, nel Novecento, a Croce, a Gentile, a Labriola  e a Gramsci, per non citare che i maggiori. Oppure alla specificità della tradizione culturale del Mediterraneo in senso antropologico; si pensi solo alla cultura del dono, al senso dell’ospitalità, alla dominanza  dell’archetipo materno, al culto della memoria e dei defunti. 

 

Su questi temi mi permetto di consigliare al prof. Lisorini la lettura del libro di Mario Alcaro Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea. Bollati Boringhieri, 1990. E veniamo alla questione dei brigatisti arrestati in Francia dei quali si attende l’estradizione: alcuni intellettuali francesi hanno firmato un appello al Presidente Macron in difesa degli ex brigatisti rifugiati in Francia, sostenendo che “qualunque cosa si pensi di questa eredità, concorderai sul fatto che non si può tornare indietro nel tempo né cambiare gli eventi del passato. Quarant’anni fa, diverse decine di persone sono uscite dalla clandestinità, hanno deposto le armi e tutti hanno mantenuto l’impegno di rinunciare alla violenza. Queste persone hanno oggi tra i 65 e gli 80 anni, hanno problemi legati all’età, di salute, dipendenza, invecchiamento, alcuni in Italia li usano come spaventapasseri per scopi politici interni che non ci riguardano. 

 

I terroristi arrestati in Francia e Sansonetti

Ti ricordiamo che, in Francia, solo i crimini contro l’umanità sono imprescrittibili”.  E così una volta di più si è riaperto il dibattito sugli anni di piombo, sul terrorismo, sulla lotta armata, sulla “dottrina Mitterand” e sui brigatisti a piede libero. Certo è che gli arrestati in Francia non sono più quelli che erano quarant’anni fa, ma questo non toglie che, essendo fuggiti e avendo trovato protezione in un altro paese, ora non debbano rispondere, sia pur tardivamente, dei loro crimini. Rispondere come? Alcuni sono già stati condannati all’ergastolo in contumacia. Tra l’altro, Mario Calabresi, alla notizia dell’arresto di Pietrostefani, uno dei mandanti dell’assassinio del padre Luigi, ha dichiarato: “Come mia madre e i miei fratelli, non riesco a provare alcuna soddisfazione. L’idea che un uomo anziano e molto malato vada in galera non è di alcun risarcimento per noi” (corriere.it). E infatti: “Con gli arresti postumi – chiosa Donatella Di Cesare su La Stampa del 6 maggio 2921 – non si sanano le ferite. Anzi si riaprono nella forma peggiore; intorno a questa storia recente l’Italia non ha ancora costruito una comunità interpretativa che, pur nel rispetto delle differenze, è invece indispensabile”. Insomma, c’è chi li vorrebbe ai domiciliari, data l’età e le condizioni di salute, e chi li vuol vedere in galera ad espiare i loro delitti, dato che la pena di morte, purtroppo, così in Francia come in Italia, è stata abolita da un pezzo: “Sento, mentre scrivo, – conclude Lisorini – le parole di Sansonetti sui brigatisti di cui si promette l’estradizione: assurdo, dice, dopo quaranta anni il tempo lava qualunque macchia, scurdammoce o passato,  direbbero i nostri connazionali del sud. Ma per chi uccide senza motivo, esercitando una sorta di diritto sovrumano, trattando l’altro come una cosa come hanno fatto sul povero incolpevole Moro, sugli ignari negozianti, sui lavoratori in uniforme, il tempo si ferma come si è fermato per le vittime e se le regole che ci siamo dati non consentono la sacrosanta vendetta ci sia almeno la pur tardiva giustizia”. Almeno.

 9 maggio 2021

   FULVIO SGUERSO

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