Continenti in ebollizione

CONTINENTI IN EBOLLIZIONE
“Difendere i popoli indigeni significa difendere noi stessi, perché sono i migliori custodi degli ecosistemi naturali, i loro territori costituiscono la più forte barriera alla deforestazione, il modo migliore per impedire la distruzione della foresta amazzonica, il ‘polmone’ del Pianeta” (Survival International)

CONTINENTI IN EBOLLIZIONE
“Difendere i popoli indigeni significa difendere noi stessi,
perché sono i migliori custodi degli ecosistemi naturali,
i loro territori costituiscono la più forte barriera alla
deforestazione, il modo migliore per impedire
la distruzione della foresta amazzonica,
il ‘polmone’ del Pianeta”
(Survival International)

 Chi mi avesse seguito in miei articoli recenti e remoti avrà avuto modo di trovarvi ripetute filippiche contro l’invasione di africani, che ormai da anni subiamo come fosse un flagello biblico, senza rimedio se non quello di distribuirli tra i Paesi europei, scontrandoci però con la loro aperta ostilità ad accogliere sul loro suolo etnie troppo lontane dalle proprie: il Trattato di Dublino, oggi in timido tentativo di revisione, funge da scudo formidabile a difesa dei Paesi a noi confinanti. 

Quegli stessi lettori avranno anche avuto modo di confrontarsi con le mie idee su pregi e svantaggi della piega ossessiva che ha preso l’umanitario concetto di salvataggi umani ad ogni costo, con il parallelo, e conseguente, ritrarsi di ogni altro essere vivente che non appartenga al genere umano. Potrei quindi apparire in aperta auto-contraddizione, premurandomi per la salvezza delle tribù amazzoniche, come ho fatto in articoli precedenti, e di ogni altro consesso umano che viva allo stato ancestrale, rifuggendo i contatti col mondo che li circonda e li assedia.

 

Amazzonia: i Kayapo bloccano la transamazzonica per protesta contro incendi dolosi e nessuna tutela contro il Covid 19

 

Vorrei allora sottolineare la grande differenza tra: indigeni ancora allo stato tribale, che chiedono solo di essere lasciati in pace e continuare la loro vita in base a regole millenarie, convivendo e proteggendo il loro territorio da intrusioni malevole; e popoli ormai assimilati, volenti o nolenti, al nostro modo di vivere, che non ripudiano affatto, anzi lo inseguono, sconfessando le loro tradizioni e premendo ai nostri confini in una sorta di contro-sfruttamento delle nostre risorse, in ritorsione per quello subito nelle loro terre d’origine. 

L’approccio al problema dei diritti territoriali è antitetico, i primi chiedendo che siano rispettati i loro confini, i secondi abbandonando le proprie terre per riversarsi su territori altrui, coadiuvati da figure terze sventolanti bandiere “umanitarie”.

Riserve e musei

L’espansione a macchia d’olio della civiltà occidentale (continuo a chiamarla così per inerzia) ha finito col trasformare plaghe sempre più ristrette del pianeta in “riserve”, termine naturale corrispondente all’urbano “museo”: luoghi dove si tentano di salvare, nel primo caso: flora, fauna ed etnie originali, nel secondo pezzi –spesso nel significato letterale della parola- di ciò che è rimasto di antichi consessi umani, sgretolati da vicende storiche o naturali. Inutile dire che i secondi hanno avuto maggior successo dei primi, in quanto è assai più facile conservare materiale inorganico, che non oppone resistenza, anziché esseri viventi, che difendono con le unghie e coi denti il loro habitat

 


“Capriccio” del Canaletto (1697-1768). La denominazione si riferisce a rappresentazioni, immaginarie e venate di nostalgia, di paesaggi urbani con rovine di antichi fasti (rovinismo). Di qui l’ansia di conservarle gelosamente, a futura memoria. Indi, la parallela nascita dei musei. E, in seguito, delle riserve naturali ed etniche

 

Non a caso il culto delle antiche vestigia, il “rovinismo”, e quindi il concetto di museo, è nato con l’Illuminismo, fautore del progresso lineare a spese di quello ciclico, del quale riporre qualche frammento in naftalina; mentre la geniale idea di riserve in cui relegare gli Indiani sopravvissuti alla nostra invasione delle Americhe nacque in America del Nord, oggi occupata da USA e Canada.

Ciò che è comune a tutta l’America (e non solo) è il nostro disturbo persino delle riserve, ogniqualvolta ci serva penetrarle per nostre esigenze, calpestando quelle dei suoi abitanti coatti. Vedi ad es. l’autostrada transamazzonica, oleodotti [VEDIe gasdotti [VEDIattraverso le riserve  dei Sioux.

 

La battaglia di Little Big Horn (1876), [VEDI] ultima, mitica, vittoria degli Indiani contro i “bianchi”. Le malattie importate dall’Europa fecero quel genocidio che non riuscì alle armi da fuoco. Un poderoso anticipo di quanto sta facendo il Covid in Amazzonia 

 

L’Amazzonia rappresenta un caso a sé, in quanto non è una riserva stabilita d’imperio dai vincitori, bensì un enorme enclave naturale, che tale è rimasto sino ad oggi grazie alla sua estensione e impenetrabilità. È, o purtroppo era, una nazione precolombiana di fatto, se non di diritto, avulsa dal resto di un mondo tecnologizzato che la circonda minaccioso. Oggi, in quanto patrimonio vitale dell’intero pianeta (non della sola umanità), dovrebbe esser lasciata ai suoi nativi abitanti, senza interferenze esterne, se non di protezione da intrusioni, bracconaggio, ed altre azioni aliene ostili. Una protezione sotto l’egida esclusiva dell’ONU. 

 


Regione e bacino amazzonici coprono vaste parti di ben 9 nazioni. 

 

L’Africa come serbatoio di materie prime e manovalanza

Se dalle Americhe attraversiamo l’Atlantico e sbarchiamo in Africa, notiamo soltanto una sparuta presenza di sopravvissuti in piccole riserve (come quella centrafricana dei Pigmei), mentre il resto del continente è occupato da popoli accomunati a noi da un’economia usa-e-getta quanto a consumi e stile di vita di massa, ma rimasti all’epoca tribale quanto a mentalità e comportamenti individuali. Colà, come pure in ogni altro continente, in sostanza s’è consolidata una sorta di Europa in stile consumistico USA, non frenata però da un’educazione individuale improntata alla responsabilità verso l’ambiente: un clone di Europa-USA gonfiato a dismisura da pratiche sessuali ataviche, senza la mortalità che impietosamente ne limitava il numero. Anche la Chiesa fornisce il suo contributo, demonizzando l’uso degli anti-concezionali. Risultato: una fiumana debordante dai vari continenti verso Europa ed USA (fatto salvo il Vaticano, pur promotore di boom, fuga ed accoglienza).

In particolare, gli abitanti dell’Africa, con una percentuale altissima di minorenni, non tentano di difendere le proprie radici, ormai dimenticate, non aborrono il nostro stile di vita, che hanno fatto proprio, per amore o per forza, non amano il proprio territorio, ormai divenuto ostile per l’impossibilità di provvedere sostentamento ai nuovi nati di un’esplosione demografica a briglia sciolta. Vogliono solo scappare, venire da noi, diventare (esteriormente) come noi.

 


Questa è Lagos, capitale nigeriana. Invivibile già dagli anni ’60, con diseguaglianze abissali tra la popolazione e il gotha dei miliardari [VEDI… QUI….QUI….QUI], un boom demografico insostenibile e quindi la fuga in massa verso il Nord. Sta soprattutto qui l’inesauribile sorgente di profughi che poi assilla il Vecchio Continente, pardon, i soli Paesi del Sud Europa, grazie al Trattato di Dublino e alla chiusura dei Paesi “frugali” nei confronti delle “cicale” mediterranee: Spagna, Italia e Grecia, lasciati alla stregua di “scudi umani” sui generis

 

Etica estremizzata

E noi? Noi veniamo da una più che bimillenaria esperienza di democrazia sin dalla polis greca, inglobata nel cristianesimo dai forti influssi platonici. Noi abbiamo un’etica. Possiamo calpestarla, è vero, come si infrange una legge, ma l’importante è che ci sia un codice di comportamento improntato alla solidarietà e alla benevolenza verso il prossimo; ma non verso i barbari, guardati con la giusta diffidenza che si riserva a chi ha interessi diversi o contrastanti coi nostri e non soggetto alle nostre leggi, usi e costumi. La nostra etica, però, si sta dilatando esponenzialmente in campi dove risulta, contraddittoriamente, dannosa, come ho evidenziato in miei recenti articoli su queste stesse pagine, scadendo a scriteriata ideologia.

In natura, invece, l’etica è sostituita da implicite regole attitudinali, per adattarsi all’ambiente circostante. E tanto vale per gli Indios amazzonici, i Papua della Nuova Guinea, gli aborigeni australiani, i Sioux o i Cherokee del Nordamerica, alla pari di tutti gli altri conviventi: giaguari, serpenti, tigri, coccodrilli e tutta la restante fauna e flora, in un delicato equilibrio di pesi e contrappesi. Quell’equilibrio che l’impatto improvviso con visitors sconvolge nel battito di un ciglio. Sappiamo bene quanto sia facile e immediato distruggere quanto costruito con tenacia e sacrificio nel volgere di generazioni, secoli, millenni. Coerentemente, gli indios contrastano, per quel che possono, la nostra pratica di saccheggi e devastazioni che gli stiamo portando in casa a colpi di roghi, caterpillar e motoseghe; e oggi pure col Covid, contro il quale sono assai meno corazzati di noi.

 

Etnie in estinzione: Indiani Cherokee. [VEDI] E’ la triste fine di ogni gruppo umano (e animale) confinato in misericordiose riserve. La nostra vantata civiltà tecnologica ha contaminato come una lebbra tutti i popoli ai quali s’è imposta, ma con esiti opposti: decimazione degli indigeni, boom demografico altrove. E, nel contempo, regressione demografica nei Paesi colonizzatori

 

Epiteti frusti ma inossidabili 

Oggi queste elementari considerazioni cadono sotto l’ondata del politicamente corretto, sotto i colpi d’ariete di quanti accomunano indigeni e civilizzati, con la parola razzismo sempre a fior di labbra contro chi osa fare dei distinguo: regrediti agli anni ’70, quando per ogni concetto espresso si veniva tacciati di fascismo. Queste anime belle, a mio giudizio, andrebbero etichettate di infantilismo, tanto sembrano usciti da un libello per seminaristi, perché, nel loro fanatismo umanitario, non vogliono vedere il bieco affarismo che specula sulla disgrazia altrui e se ne serve per veicolare in Italia, mescolata ai fuggitivi, la feccia che non lasceremmo mai entrare dai varchi legali. Sono i fautori di un’etica astratta, che non tiene conto dei sottofondi inconfessati quanto imperituri dell’animo umano, questo sì, comune ad ogni razza e colore della pelle: la difesa del proprio spazio vitale dalla voracità altrui, il cedimento della generosità all’avarizia al cessare dell’abbondanza, l’attaccamento a propri valori che danno senso all’esistenza, e così via. Loro sono per la mescolanza, il meticciato, la con-fusione delle identità peculiari di popoli con retroterra culturali abissalmente lontani. Pensano di risolvere il problema migratorio alla foce, anziché alla fonte, perché ritirarci dall’Africa, smettere di sfruttarne le risorse comporterebbe un taglio drastico della nostra futile way of life. Pur di conservarla, salutano con entusiasmo l’invasione dei fuggiaschi, incuranti delle ripercussioni sociali, economiche, di convivenza civile, di snaturamento culturale che essa comporta.  

Il Vangelo è un meraviglioso sprone ad una vita santa, ma solo i santi riescono ad attuarlo nella pratica. I sostenitori dei soccorsi in mare di finti naufraghi, che meglio sarebbe chiamare semplici fuggitivi, ci vorrebbero tutti santi, ad esclusione di se stessi, in quanto improbabili ospiti di migranti a casa propria. Sempre magnanimi quando si tratti di accogliere, a spese altrui. Che poi l’accoglienza scada ad abbandono degli accolti ad un destino di vagabondaggio, accattonaggio o delinquenza, poco importa, l’importante è il nobile eloquio, flatus voci

 


Il Vangelo vanta la maggiore diffusione e la minore messa in pratica delle sue parole. Tuttavia, ha trattenuto l’avidità umana per almeno un millennio. Poi è stato usato come giustificazione per soggiogare popoli di diverse credenze e stili di vita. Oggi si raccoglie ciò che si è seminato

 

I buonisti più empirici dicono che i migranti servono a colmare il vuoto di nascite che l’Italia sperimenta ormai da decenni.

L’utopia della crescita costante

A costoro va ribattuto che non sta scritto nella roccia che l’Italia debba essere un Paese di 60 milioni di abitanti, o anche più, secondo il mito della crescita all’infinito. Se, raggiunto un acme stabilito dal rapporto tra ricchezza prodotta e consumi, in un sano bilancio export-import, il Paese comincia a produrre meno e quindi a figliare meno per il conseguente aumento del costo della vita (come stiamo verificando col Covid), la diminuzione delle nascite non va contrastata, ma lasciata procedere sino ad un nuovo, ritrovato equilibrio. Succede in natura, ma deve succedere parimenti in una società civile. (La supposta “mano invisibile” che agirebbe nell’altrettanto supposto “libero mercato”, perché viene sconfessata quando passiamo dal campo finanziario a quello fisico e biologico?). Certo, ci saranno dolorosi riassestamenti: li stiamo sperimentando; ma le forzature secondo schemi pietosi a tavolino ottengono sempre l’effetto opposto, e spesso catastrofico. Anche questo lo stiamo sperimentando, a livello globale: basta aprire un giornale o accendere un TG; o leggere uno dei quotidiani appelli di Avaaz, [VEDIGreenpeace, [VEDI QUI...QUIWWF, [VEDIecc., che vanno controcorrente agli appelli “umanitari” delle varie navi ONG, che spingono per una perpetuazione del verso esistente. D’altronde, è giocoforza che la curva all’insù di umani e consumi raggiunga un massimo e poi ripieghi all’ingiù; ma tanto più tardi avverrà, tanto più dirompente sarà l’impatto sulla biosfera.

Da riserve di caccia a zoo umani.

I “bianchi”, dopo la proibizione di safari “vecchio stile”, con caccia e trofei di animali selvatici, non vogliono rinunciare a invadere come turisti quegli stessi luoghi: le intenzioni non sono ostili, ma il risultato è devastante per quanti, uomini e animali, nei territori selvaggi ci vivono e li proteggono. 

 


Jarawa: vivono nelle isole Andamane da circa 55.000 anni. Oggi rappresentano mete di “safari umani”, da osservare come animali in uno zoo. Sopra, fila di auto che attraversano la loro foresta (nonostante il divieto della Corte Suprema dal 2002), per godersi lo spettacolo [VEDI], con anche il degradante gettito di cibo a distanza 

 

Concludo con una domanda: quanti abitanti può sostenere il suolo italiano senza sconvolgerne, come sin qui fatto, la capacità di autosostentamento a causa della distruzione accelerata di terreni coltivabili? Ci siamo sin qui sottratti a questo dilemma puntando sull’esportazione, ossia sul cavallo di battaglia del capitalismo; un trend calcato a forza anche sui Paesi c. d. terzomondisti. I risultati sono quelli più sopra descritti, culminati nell’esodo verso i Paesi che di quegli sconvolgimenti sono i principali responsabili.  

 

Ecco qualcuno che osa dire la scomoda verità. Si vedano due pagine intere di recensione del libro su La Stampa del 3/10/2020. Sono anni che dico le stesse cose; ma non sono americano: nemo propheta in patria

 Nessuna politica, in Italia o altrove, riuscirà ormai a raddrizzare scientemente i madornali errori sin qui fatti, spinti da quell’ingordigia predatoria che oggi tentiamo di respingere sul fondo della coscienza. Né abbiamo la forza di imporci i cambiamenti drastici necessari: dovremo subirli, come il Covid. Da attori ci stiamo trasformando in passivi spettatori dell’esito ultimo delle nostre azioni. Potremmo almeno ritardarne l’accadimento, se non fosse per i negazionisti, come Trump e Bolsonaro, e, paradossalmente, gli “umanitari” alla Soros, che lo stanno attivamente accelerando.

  Marco Giacinto Pellifroni                     4 ottobre 2020 

 

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