COME IL GABBARDO (genesi di un serial killer)

L’autore Massimo Bianco

 Un uomo, dotato di bei lineamenti nonostante la mole ciclopica, attraversa di gran carriera le vie di Savona, camminando con passo pesante. Da ore segue i medesimi itinerari senza neppure alzare gli occhi da terra, in preda a una rabbia sorda. È talmente in crisi da non accorgersi nemmeno se qualcuno lo saluta, ma non ha una ragione precisa per spiegare la propria furia impotente: si sente solo genericamente insoddisfatto di sé e del mondo.
Da tempo egli vede la propria esistenza sprecata e le sue capacità disconosciute, ma non sa come porvi rimedio. Ormai odia l’intera umanità in modo così profondo da star male. Vorrebbe incanalare questo distorto sentimento fino a trovar sfogo alle proprie frustrazioni, ma ignora come fare e si sente pericolosamente prossimo a una catastrofica esplosione.
Frattanto transita per l’ennesima volta lungo gli stretti carruggi del nucleo storico, serpeggianti tra i resti delle antiche case torri medioevali. Ripercorre le rettilinee strade del centro ottocentesco e gli eleganti portici di Via Paleocapa e di Piazza Mameli, principali arterie cittadine, e procede ancora avanti.
Infine sbatte contro un tizio talmente distratto da non prestare quasi attenzione all’incidente che pure gli sta facendo perdere l’equilibrio. Il gigante allora si riscuote, sollevando per la prima volta lo sguardo dal marciapiede. L’estraneo, un quarantenne come lui, occhialuto, assai più basso e snello ma coi capelli altrettanto lunghi, pare incantato da qualcosa all’altro estremo dello spazio aperto in cui si trovano. Rivolgendo l’attenzione nella medesima direzione, si avvede così di trovarsi nella maggiormente moderna Piazza Saffi, notoriamente uno dei punti più trafficati della città.
Dapprima non nota tuttavia nulla di speciale: davanti a sé vede solo l’eburneo corpo, massiccio e turrito, della prefettura d’epoca fascista e vari pedoni. Poi però s’accorge d’un confuso sbatter d’ali dentro l’enorme rotatoria, sulla superficie erbosa fitta dei palmizi che rendono più noto quel luogo col nomignolo di Piazza delle Palme.
L’uomo osserva ammaliato lo spettacolo offerto dalla massa compatta di piccioni, uno stormo di almeno un centinaio di esemplari, che dopo essere sfuggita a un attacco riatterra nel prato dell’isola spartitraffico, dove torreggia un solitario gabbiano di grandi dimensioni, mastodontico, addirittura. Il predatore ripiega quindi le ali sui fianchi, allunga la testa e si lancia in corsa laddove il mucchio è più fitto. Subito i colombi s’impennano in blocco, sfuggendo anche al nuovo assalto, ma dopo un breve quanto disordinato svolazzare qua e là, ridiscendono per la terza volta sull’erba.
L’elegante gabbiano prende allora a girovagare un poco con aria indifferente, le ali ben strette lungo i fianchi. Ma all’improvviso punta ancora la testa in avanti e si riproietta all’assalto, sempre senza sollevarsi dal terreno. Nel frattempo auto e moto sfrecciano tutt’intorno in ogni direzione, isolando i volatili dal viavai pedonale. E la tragica farsa pare destinata a continuare. Infatti, pochi istanti dopo essersi nuovamente salvati, gli stolidi pennuti tornano a zampettare nel medesimo luogo, indifferenti alle aggressioni nemiche.
Il colosso osserva, incapace di capire. Perché non fuggono dinanzi al pericoloso predatore? Possibile che siano così stupidi da non rendersi conto di esser bersaglio d’un attacco potenzialmente mortale? O forse il gabbiano non fa sul serio e si limita a giocare?
Interessato, per i dieci minuti successivi contempla affascinato lo spettacolo del fiero uccello marino che persiste, implacabile, nei propri assalti. La scena gli ricorda un vecchio documentario ambientato nella savana africana, in cui un ghepardo si lanciava all’inseguimento di un branco di gazzelle, inermi dinanzi a lui. Ma quando queste ultime sfuggivano all’attacco, non cercavano poi di trasferirsi in un luogo lontano e sicuro, anziché fermarsi a porgere metaforicamente l’altra guancia? Non se ne rammenta con certezza, ma comunque sia, quel gabbiano, anziché dedicarsi alla caccia in volo come ci sarebbe da aspettarsi, cerca di sorprendere le prede con la rapidità della corsa, proprio come se fosse un feroce ghepardo a caccia di gazzelle.   
L’uomo gigantesco, deve misurare sui due metri di statura e pesare almeno centoventi chili, resta immobile fino a quando il gabbiano killer, anzi, il gabbardo, come gli viene spontaneo chiamarlo, cioè il gabbiano ghepardo, si lancia nell’ennesimo affondo riportando successo pieno. Viene, infatti, fuori dal groviglio d’ali e penne tenendo trionfalmente un piccione nel becco, proprio quello, così almeno pare allo spettatore, che fino a un attimo prima saltellava con maggior alterigia in mezzo al prato. Quindi il cacciatore lo finisce per poi appartarsi tranquillo tra le quattro palme più alte, dove si dedica a divorarlo. E tutte quelle altre miserabili bestie ignorano l’assassino della loro compagna, restandosene stolidamente in attesa di eventuali future aggressioni.
Il colosso allarga allora lo sguardo all’intera piazza, sentendosi rinascere e giudicando l’evento a cui ha assistito un messaggio di Dio rivolto alla sua persona. Il gabbiano, anzi, il gabbardo, primeggia, grande, bello e potente, sull’insignificante e ottusa piccionaia, riducendola a suo pascolo privato. E non è forse anch’egli superiore per dimensioni, bellezza e intelligenza all’anonima folla che lo circonda? Non è, si domanda, proprio l’insoddisfazione per la sua superiorità vanificata dal pressapochismo e dalla corruzione altrui, ad averlo frustrato nel corso degli anni?
Ed ecco tutt’intorno gli inutili omuncoli tanto odiati. Perché dunque non approfittarne? Perché non sfruttarli? Il solitario quarantenne s’immedesima nel gabbardo: questi ha intelligentemente scoperto una nuova e più redditizia maniera per trovare cibo e la sfrutta, indifferente al meschino volgo pennuto a cui è superiore, e analogamente egli troverà una maniera altrettanto redditizia per nutrire il proprio spirito.
Osserva il passeggio cittadino, composto da uomini, donne e bambini d’ogni età, sentendosi superiore a chiunque. Ora sa di cos’era in cerca. Proprio come il gabbardo, fiero predatore degli stupidi colombi, inizierà l’attività di predatore d’uomini. Selezionerà le vittime ideali, quelle più futilmente belle e altere, e si sfogherà punendole della loro arroganza e vanità, seviziandole fino ad uccidere loro e star bene lui. 
Così l’uomo gabbardo s’incammina sereno, osservando attento e famelico gli uomiccioni, uomini piccioni, alla paziente ricerca della sua prima preda. E quando infine l’individua, così attraente, bionda, sicura di sé e provocante, sorride crudele, pregustandone la fine.
Qualcuno sostiene che l’autore di questo racconto sia più portato per scritti più lunghi, se siete interessati al tema dei serial killer, il racconto vi è piaciuto e voleste verificare se tale parere è vero io ho scritto un romanzo, intitolato “Capelli” (sottotitolo: dentro la mente di un serial killer). Al seguente indirizzo potete leggere gratis il prologo del romanzo e avere tutte le informazioni necessarie per l’eventuale acquisto:

INTERVISTA ALL’AUTORE

9/9/13, riveduto il 22/10/13, fine. Massimo Bianco.

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