Colpa e tempo

Dall’ultimo libro del filosofo Giorgio Girard, “Filosofia salvavita”, sono parecchi i suggerimenti che si possono trarre per porsi di fronte alla realtà in modo più accorto e consapevole.
Tra essi ve ne è uno alquanto stimolante che riguarda il concetto di colpa.
Si tratta della interessantissima correlazione che egli imposta tra colpa e tempo, focalizzata icasticamente nella frase:“…la colpa si basa sulla stabilità dell’essere, e quindi non si dissolve nel divenire“.
Dal punto di vista filosofico, facile andare con la mente ad autori, puntualmente confermati dalle note bibliografiche a piè di pagina, come Emanuele Severino, Martin Heidegger, Parmenide.
Ma in generale la natura del discorso girardiano ha sempre anche una coloritura psicologica di fondo che ci indirizza, una volta individuato il concetto di colpa all’interno di una dialettica temporale, a ciò che esso può significare per l’individuo singolo, cioè psicologicamente inteso.
Certo, se non si può guardare alla stabilità dell’essere, intesa sia come immutabilità sia come verità assoluta, ma solo alla colpa inserita nel flusso cangiante del reale e di volta in volta interpretata in relazione al contesto, il senso di colpa che ne derivasse, sembrerebbe figlio di un dio minore: l’individuo verso il prossimo e verso se stesso, deve accettare di navigare a vista.
La colpa nel concetto forse più condiviso, viene collegata alla stabilità, o diciamo pure eternità dell’essere e del vero, intesi come pronunciamenti divini o idee platoniche.
In questa luce, essa è altrettanto eterna: se c’è una regola che vale sempre, la deviazione dalla regola non può essere attutita o sminuita dal tempo.
Perché una colpa di cui si è stati autori ieri, dovrebbe pesarci meno domani anziché oggi? E ancor meno dopodomani rispetto a domani?
E addirittura è giusto che il divenire, il tempo, abbia questa capacità lenitiva, taumaturgica?
Secondo la psichiatria, che si occupa tra le altre patologie anche di quelle indotte dal rapporto del tempo con la sanità mentale, è normale (e perciò relativamente giusto), che il dolo commesso dal soggetto si attenui, e non resti immutato e prepotente dinnanzi agli occhi del soggetto stesso. Quest’ultimo a mano a mano dovrebbe lasciare sempre più spazio ad altro, impedendo che la pervasività del delitto (in senso lato) lo leghi completamente al punto del passato in cui il delitto medesimo è stato commesso.
E allora ci troviamo davanti ad un dilemma: per un verso il soggetto che è schiacciato dalla colpa  vuole allontanarsene attraverso lo scorrere del tempo, e questo nella prospettiva di un’esigenza vitale; dall’altro vuole ricordarsene, e questo nella prospettiva di un’esigenza morale.
Il percorso di guarigione dalla sua depressione esistenziale è strattonato in direzioni opposte; in alcuni casi in modo così drammaticamente bilanciato da portare al totale squilibrio dello squartamento tra, senza prevalenza, il bisogno interiore di rinascere e l’obbligarsi altrettanto intimo di continuare a morire.

Dicendola in modo freudiano, il Super-io cerca di far sì che il tempo nel suo trascorrere non cancelli la colpa, perché se ci riuscisse starebbe a significare che il contenuto, ovvero l’accadere della mondanità fenomenica, ha la forza di trasformare la forma, la quale perderebbe la sua patente di immodificabilità ed eternità. Per non cadere nel relativo, nel condizionato, la condanna comminata dal supremo tribunale della coscienza deve valere sempre e allo stesso modo.

Giorgio Girard

Dicendola con Girard, che nella fattispecie si appoggia a Kant:“L’imperativo categorico non accetta qualsiasi diacronia, cioè tende a lasciar di lato la possibilità che il tempo possa cancellare i sensi di colpa ma, anzi, insiste nel mantenerli sincronicamente immutati”.
L’eterno non conosce il passato e non conosce il futuro.
In questa luce, il divenire che sfocasse la nitidezza e presenza della colpa, sarebbe un intruso, e proprio per questo da schiacciare tramite un lutto formalizzato nel faticoso procedimento di recupero della colpa. E il percorso del lutto, in quanto faticoso, viene esso stesso ad essere il fio pagato per aver acconsentito alle sollecitazioni del divenire.
La stabilità metafisica dell’essere palesa la sua super-iorità, dimostrando di saper resistere alla contingenza del tempo, e quindi al susseguirsi dei fenomeni; di saper non farsi distrarre da una colpa che fa di tutto per avere chiara finché non le sarà altrettanto chiaro quanto è il prezzo da pagare e quale è il modo per pagare, al fine di poterla ritenere cancellata.
E a volte il prezzo e il modo consistono nel tempo e nella fatica stessi atti a condurre questa ricerca.
Del tutto conseguente che questo porterebbe come corollario a discorrere del perdono, aprendo però un capitolo enorme; e allora basti evidenziare come esso si attui solo attraverso un percorso di rielaborazione e macerazione interiore, vissute qui, nel quotidiano, non nell’iperuranio dove, nella staticità della forma, avrebbe la sua contraddizione più eclatante.
Il “devi perdonare” finisce per essere una pietra in più sull’anima di chi ha subìto l’offesa, accusandolo di non esserci ancora riuscito.
Ebbene, il perdono se ha compiuto il suo libero percorso nel tempo, può rappresentare tante cose meno che la formalità di essere dovuto settanta volte sette, e solo dalla quattrocentonovantunesima acquisire il diritto di venire gentilmente concesso.

FULVIO BALDOINO

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