CINEMA: Un chien andalou

RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
Un chien andalou
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RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO  

Un chien andalou

 

 Titolo Originale: UN CHIEN ANDALOU

Regia: Luis Buñuel
Interpreti: Luis Buñuel, Fano Messan, Robert Hommet, Salvador Dali, Simone Mareuil, Pierre Batcheff, Jaime Miratvilles, Marval
Durata: h 0.17
Nazionalità: Spagna 1929
Genere: drammatico
Al cinema nel Settembre 1929
Recensione di Biagio Giordano

Film visibile su You Tube in HD

 L’arte dei primi decenni del XX Secolo, secondo diversi e noti studiosi, è stata caratterizzata da numerose innovazioni formali e contenutistiche. Avanguardie più o meno note di artisti, per lo più giovani, creavano le loro opere  con idee e forme nuove, spesso provocatorie, che  affondavano le loro radici in realtà sociali e culturali in forte movimento.  Erano opere che si ponevano del tutto al di fuori dal vecchio e statico mondo fatto di regole etiche ed estetiche immobili da tempo seppur ricche di una spiritualità formale molto pregnante.


 

La forte ambizione di rottura simbolica di questi artisti era un po’ indotta da proprie fantasmagorie infantili, essi erano indubbiamente originali nel linguaggio ma molto arroganti in quanto analizzavano l’arte che li aveva preceduti con schemi generici facenti parte di un gergo segnato dalla nevrosi, i loro modi di relazionarsi facevano venire in mente quei clan artistici euforici-narcisistici famosi per essere irrispettosi, secondo loro a fin di bene,  di ogni prossimo.

 La loro idea di fondo era quella  di liberare la supposta mente chiusa degli usufruttari  tradizionali delle opere artistiche, da qualcosa di vetusto  e negativamente radicato. Si riteneva che la maggior parte delle persone fosse inconsciamente oppressa  e condizionata da un estetismo di maniera che  faceva tutt’uno con la mediocrità di ogni gesto espressivo consuetudinario, sociale, culturale, morale.

Si voleva favorire l’acquisizione nell’immaginario della gente di forme estetiche altre capaci di dischiudere inediti orizzonti di bellezza intrecciati profondamente con la vita reale più comune.


 

Gli artisti più innovativi dell’inizio del XX secolo avevano in forte simpatia gli scienziati, perché ritenevano che essi, come le avanguardie, si fossero liberati dai pregiudizi più angosciosi della religiosità e della moralità vigente,  inaugurando una corsa competitiva,  verso la scoperta e l’invenzione tecnologica, segnata da una  chiara impronta creativa, una corsa ritenuta inarrestabile che avrebbe dovuto essere in grado  di cambiare in breve tempo il modo di vivere e il costume di intere società.

Parigi diventò un po’ la capitale di questi gruppi artistici, conosciuti come avanguardie. Dopo che i Dadaisti avevano messo l’accento sulla pulsione di morte presente in qualsiasi regola, pensiero etico o valore estetico vigente, i Surrealisti con André Breton cercarono di diffondere un nuovo modo di pensare, capace di ricomporre la frattura mortale conscio-inconscio, Io e rimosso, avvalendosi di un linguaggio psicanalitico ben formulato e maturo indubbiamente già in grado di accogliere le più note propaggini dell’inconscio di ciascuno quali i sogni, i deliri, l’onirismo anche della veglia, rielaborandole e interpretandole logicamente nella direzione di una  comunicazione ad effetto del tutto disorientante per la gente ma quasi contemporaneamente ricca di un’attrazione estetica ed etica potente causata dal rigore dimostrativo che la psicanalisi  incorporava.


 

L’effetto liberatorio che ne sarebbe scaturito avrebbe dovuto giovare alla costruzione di rapporti sociali e culturali più autentici.
Notevole fu l’influenza in questi artisti di Sigmund Freud, di alcuni poeti maledetti e  delle opere del marchese De Sade.

Secondo alcuni storici, di una grossa casa editoriale sull’arte, il cinema surrealista, considerato nelle sue opere più significative, è  limitato a tre soli film, essi sono nell’ordine: La coquile et le clergyman di Antonin Artaud e Germaine Dulac, Un chien andalou (1928) di Luis Buñuel e Salvador Alì, e L’ âge d’or (1930)  sempre di Buñuel e Dalì. La coquile et le clergyman fu ripudiato dall’autore  Antonin Artaud in quanto la regista Germaine Dulac avrebbe interpretato troppo al femminile l’opera scritta di Artaud svalutandone il messaggio più specifico di chiara impronta surreale: su questa dura critica il gruppo dei surrealisti fu d’accordo.

 Nell’Aprile del 1929 uscì a Parigi il cortometraggio “Un Chien Andalou“. Gli autori erano due giovani e sconosciuti artisti venuti a Parigi da una Spagna in grande fermento creativo: Luis Buñuel e Salvador Dalì, alle prime armi con il cortometraggio.
I due appartenevano a famiglie borghesi che furono in grado di dare loro una formazione adeguata, ed erano stati compagni di scuola a Madrid. Entrambi erano molto inquieti, percepivano profondamente l’atmosfera di pathos creativo e bisogno di cambiamento che animava il mondo artistico e sociale dell’Europa di quel periodo. Animati da progetti ambiziosi decisero di frequentare Parigi, consapevoli dell’importanza del confronto culturale con realtà diverse.  Mantennero comunque una  identità artistica dallo stile inconfondibile che risentiva positivamente dei costumi della loro fertile terra di origine: così storicamente ricca di sorgenti espressive di alta qualità.


Il film inizia con un uomo giovane che tiene in bocca una sigaretta accesa (Buñuel stesso) mentre affila un rasoio. Egli guarda dal terrazzo la luna che sta per essere attraversata da una piccola nuvola, poi inaspettatamente  apre con le dita l’occhio di una donna seduta e lo taglia con il rasoio (l’occhio era quello di un animale). Durante il taglio la luna viene attraversata da qualche nuvola diradata.

Si tratta di una scena  per quei tempi molto forte, oggi forse percepibile in una forma diversa, più attenuata, perché i film e le serie televisive proposte dai media abbondano da tempo di immagini  di una certa violenza indubbiamente in grado di favorire un’assuefazione al tipo di brutalità che propongono.

Quella famosa scena ha diversi significati, tra cui forse quello di sottolineare, attraverso il taglio dell’organo della vista, qualcosa d’altro, apparentemente mancante, che riguarda un vedere diverso: quello dentro di sé.


 

Cioè una vista interiore, quella che osserva le immagini provenienti dal proprio inconscio o dal preconscio, figure e forme, simboli e metafore frutto di un processo di condensazione, metonimie legate a un lavoro di spostamento, un’attività psichica che si percepisce quotidianamente sia di notte che, in modi più attenuati, durante la veglia. Un onirismo ricco di senso e a volte di contro senso, aspetti pulsionali in certe circostanze oscuri, inquietanti, enigmatici. Un’attività dal tessuto immaginifico pregnante, dominata in particolare da immagini desiderio, che a seconda dei tempi e dei luoghi,   del pudore e della morale vigente in certe realtà sociali, non  ha trovato o non trova tutt’ora un’espressione artistica adeguata.

Il film prosegue con un montaggio alternato che mostra una donna in una camera da letto e un giovane che va in bicicletta in una via semideserta della città, il ciclista è vestito con bizzarre gale che gli conferiscono un aspetto infantile, porta sul petto una scatoletta a righe con dentro una cravatta a righe (che compare diverse volte nel film forse a significare l’importanza dell’ illusione estetica come sublimazione della angoscia della mancanza).


 

A un certo punto il giovane ciclista cade battendo la testa sul bordo del marciapiede e  muore. La donna che ha assistito alla scena dalla finestra scende giù  e lo bacia con grande commozione e trasporto. Il giovane dopo un po’ rinasce, sale le scale e dischiude la porta della stanza della donna lasciando intravedere una mano bucata da dove escono numerose formiche. La scena è molto impressionante e contiene un significato reale, relativo a una vicenda biografica infantile di uno dei due autori,  fa parte di un  sogno fatto da uno di essi. La stessa cosa vale per alte scene del film, dove compaiono simboli e metafore ricavate da sogni fatti dagli autori stessi della pellicola.

Nel complesso il film non dà mai l’impressione di essere un’opera letteraria costruita su misura per il pubblico, anzi, il fatto di trasmettere brandelli di vero onirico vissuti effettivamente dagli autori, accompagnati da un forte pathos comunicativo, sollecita nello spettatore la comparsa di immagini provenienti dall’ inconscio, e riflessioni sui limiti labili del desiderare ammesso, nonché interrogativi etici su quella zona di frontiera dove il bene e il male appaiono confusi rendendo a volte indecise  le scelte morali da fare. 

Biagio Giordano 

 

   

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