CINEMA: M, il mostro di Dusseldorf

RUBRICA SETTIMANALE DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
Recensore Biagio Giordano
Prossimamente in TV
M, il mostro di Dusseldorf

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 M, il mostro di Dusseldorf

M, il mostro di Dusseldorf

Regia: Fritz Lang

 
Produzione: Germania 1931
 
Genere: drammatico
 
 
Durata: 118′ (92′)
 
 
Interpreti: Peter Lorre, Otto Wernicke, Gustaf Gründgens, Theo Lingen
 
Pellicola: b.n.
 
 
Recensione di Biagio Giordano
 
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 Anni ’30. Hans Beckert (Peter Lorre) un maniaco non del tutto folle, ma senza scrupoli, pluriomicida, forse malato di pedofilia, adesca con dolci e palloncini giocattolo le bambine più belle, gettando  nel terrore un vasto quartiere di Düsseldorf. Unico indizio per la polizia una busta bianca per dolciumi con dei resti  di zucchero dentro,  usata dall’assassino come esca, trovata in uno dei luoghi dei delitti.


 Il ritrovamento  obbliga gli investigatori della polizia ad entrare in tutti i negozi di dolci della metropoli per interrogare i gestori. Viene organizzata una ricerca a cerchio con il  punto centrale nel luogo del delitto e l’espansione verso la periferia.

 

 A causa delle scarse probabilità  di trovare l’assassino unicamente attraverso la busta dei dolciumi, il capo della squadra omicidi, Karl Lohmann ( Otto Wernicke) un uomo duro e  apparentemente tutto di un pezzo, ordina su disposizione dei suoi superiori grosse retate nell’ambiente della malavita, nella speranza che la delinquenza,  pressata e impaurita, a un certo punto si decida a collaborare con la polizia.

Vengono compiuti molti arresti nel mondo della prostituzione e di tutto il mercato proibito, interrogati in modo intimidatorio parecchi uomini sospettati  di gravi reati, e messi in stato di fermo per accertamenti numerosi delinquenti comuni.


 

Quando i mala affari cominciano a diminuire in modo drastico, i boss della città,   indignati e preoccupati per la perdita dei loro guadagni, decidono di  unirsi   per cercare  il maniaco, toglierlo dalla circolazione e sottoporlo a un processo farsa, del tutto privato, con l’intenzione di ucciderlo;  organizzano a tale scopo una caccia all’uomo straordinaria, ben organizzata, senza badare a spese,  avvalendosi come spie anche dell’aiuto dei numerosi mendicanti e dei venditori da strada della città, il tutto sotto la guida di Schranker (Grundgens Gustaf) potente boss criminale ricercato dalla polizia di Los Angeles e di Berlino per l’uccisione di tre poliziotti.

 Una sera un commerciante cieco, venditore di palloncini  gonfiabili, riconosce,  da un fischiettare melodioso a lui familiare, già sentito altre volte, il maniaco. Per associazione di ricordi gli viene in mente  che tempo prima aveva venduto  un palloncino-giocattolo a una bambina accompagnata da un uomo che fischiettava lo stesso motivo, quel palloncino la polizia lo aveva poi ritrovato  tra i fili elettrici di un palo della distribuzione cittadina,  nel parco, dove era stato commesso l’omicidio della bambina.

 Sesto film di Fritz Lang, magistrale per montaggio e suggestione  magnetica della recitazione, in particolare quella più drammatica, splendido per nitidezza delle immagini (fotografia di F.A. Wagner), ancora magnificamente influenzato nel gioco luci-ombre dall’arte espressionista tedesca; primo film sonoro del famoso regista tedesco, inaugurato alla grande  con il motivetto fischiettato dal maniaco (eseguito dallo stesso Lang perché Lorre non era capace  a zufolare) che ne consente la sua cattura risultando, grazie al sonoro sincronizzato, la scena chiave, risolutiva del racconto, con degli effetti a sorpresa sullo spettatore  indimenticabili.

Il film mantiene un linguaggio per immagini ancora simile a quello del muto, e questo ne spiega in gran parte il successo di pubblico e di critica, perché, nonostante una certa verbosità  della pellicola,  le lunghe espressioni di linguaggio per immagini in semovenza, nelle  scene eseguite con lo stile muto, danno al racconto un equilibrio che piace, soddisfa, arricchendo la pellicola di due stili importanti legati uno all’emozione del muto e l’altro al piacere della  super verosimiglianza che il sonoro rilascia, due modi diversi di fare cinema ma perfettamente congiunti in questo film capolavoro con l’arte del raccontare,  pertinenti alla riuscita narrativa perché ben sincronizzati dal montaggio, aspetti questi che saranno troppo poco imitati nel futuro cinematografico,  infatti nei successivi  film con il sonoro la riduzione del linguaggio visivo legato al muto sarà sempre più forte e ciò sarà negativo per l’estetica visiva delle pellicole, in particolare per la loro composizione fotografica che ne è l’aspetto più creativo, e la qualità espressiva del cinema passerà troppo bruscamente dal classico al moderno involgarendo il gusto.

La scena nel parco in cui viene mostrato nella prima inquadratura, in discesa tra gli alberi, lo scorrere lento del pallone con cui giocava la piccola Elsie, sequestrata dal maniaco, e nella seconda inquadratura il suo palloncino volante incastrato tra i fili elettrici in alto abbandonato durante l’aggressione finale,  dicono per immagini che la bambina è stata uccisa e che il fatto, orribile, è avvenuto nel parco.


Il  fischiettio melodioso del maniaco è tratto dal Peer Gynt di E. Grieg;  la scena  del tribunale dei criminali deve, secondo i maggiori critici cinematografici italiani, qualcosa al Brecht di L’opera da tre soldi.

l film è stato rifatto nel 1951 da J. Losey, interpreti  David Wayne, Howard Da Silva, Luther Adler, Martin Gabel, la pellicola  riproduceva  a grandi linee la storia del film di Fritz Lang, anche se Losey  ha cercato di interpretarla in chiave diversa dando un senso più filosofico al pensiero del maniaco, il quale più che per maniacalità  incontrollata uccide paradossalmente per il bene del futuro dei piccoli, per evitare loro il male che incontreranno da adulti; per l’omicida Hans infatti, la vera vita, il bene e l’autenticità che essa racchiude, è vivibile solo da piccoli; il mostro perciò per Losey non è più tale ma diventa una figura salvifica del mondo umano.

Il film di J.Losey ha fatto fiasco al botteghino ed è poco piaciuto anche ai critici cinematografici, forse per l’audacia della filosofia di fondo del maniaco.

  La pellicola di Lang è girata a Berlino ma si ispira a un fatto di cronaca realmente avvenuto a Dusseldorf,  quello di Peter Kurten il celebre   Vampiro di Dusseldorf giustiziato nel 1931.

Il famoso  autore tedesco scrisse di M la sceneggiatura avvalendosi anche della collaborazione della moglie Thea von Harbou.

 Esordio formidabile dell’attore Peter Lorre  nella parte del mostro (vero nome: Laszlo Löwenstein, di origine ungherese), in una recitazione che da sola vale mezzo film, la  descrizione del proprio tormento interiore nel  processo per pluriomicidio subito  dai delinquenti  della città in uno scantinato semibuio di una birreria, rimarrà nella storia del cinema come esempio di fascino ipnotico, strettamente peculiare al dispositivo  filmico di qualità, una recitazione quella di Lorre di tipo teatrale, intensa, ammaliante, incantevole ma potenziata dall’impressione di realtà rilasciata dalle immagini in movimento tipiche del cinema che con il primo piano e il gioco delle profondità di campo crea effetti visivi impossibili per  il teatro.


Il film è uscito in Italia solo nel 1960 perché censurato dal regime fascista e trascurato dai governi democristiani del dopoguerra. Il fascismo non tollerava il ruolo da protagonista avuto dalla malavita nella cattura del mostro e i democristiani non volevano turbare i sonni dei figli piccoli dei loro elettori, idealisti e fiduciosi quest’ultimi sia dell’intervento divino nei problemi, sia della forza delle istituzioni poliziesche di quel periodo storico nel risolvere le questioni di criminalità.

  Nel film la tematica dolorosa, amara di Lang sull’opposizione  tra giustizia ufficiale e giustizia privata  è centrale ed è  ben articolata, quasi sempre in modo sicuro, competente, accompagnata da tensioni e drammatizzazioni prese in un crescendo geniale che non ha soste, esse confermano le eccezionali doti di regista di Lang.

La giustizia ufficiale per Lang è ancora in qualche modo in relazione con la democrazia in cui si vive, per via delle ampie garanzie di difesa offerte al cittadino dalle istituzioni che la sorreggono,  mentre la giustizia privata è spesso  approssimativa, selvaggia, disumana sfociante  spesso nel linciaggio fisico o morale, simile quindi ad alcune  forme di potere tipiche della  dittatura.

 E’ come se Lang  avvertisse, nel periodo in cui ha girato il film, oscuri  pericoli per la democrazia,  legati in qualche modo alla scalata al potere di Hitler del 1933 che avveniva  con ideologie già ben definite, assolutamente poco rispettose dei valori democratici più noti.

Lang  fa un film di taglio realistico, ma  la realtà che descrive non può sfuggire al simbolico, rappresenta un momento di svolta storica importante, diventa per certi aspetti metafora essa stessa, in quanto il modo di vivere della gente tedesca non può fare a meno nel ’31 di mostrare emblematicamente, nel costume e nella forma, cambiamenti inquietanti che preannunciano, attraverso anche tendenze politiche estreme delle masse, quello che di  spaventoso accadrà puntualmente a breve  in Europa.

La più celebre immagine di questo film di Lang, il manifesto incollato su un grosso sostegno cilindrico tra i  marciapiedi della città, con su scritto il valore della taglia sul mostro e l’ombra del  viso di Hans con il cappello che compare all’improvviso minacciosa tra i grossi caratteri della stampa, è un omaggio, lodevole, a tutta l’arte espressionista-cinematografica dell’epoca. 

 

 BIAGIO GIORDANO
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