Cinema: Lycantropus

RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
Lycantropus
Al cinema nel Novembre 1961

RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO

Lycantropus

 Titolo Originale: LYCANTHROPUS

Regia: Paolo Heusch

Interpreti: Herbert Diamonds, Mary Dolbeck, Lucy Derleth, Anne Marie Avis, Barbara Lass, Curt Lewens, Marta Marker, Maurice Marsac, Joseph Mercer, Grace Neame, Mary McNeeran, Patricia Meeker, Maureen O’Connor, Luciano Pigozzi

Durata: h 1.22

Nazionalità:  Italia, Austria 1961

Genere: horror

Al cinema nel Novembre 1961

Recensione di Biagio Giordano

Una ragazza di un collegio di rieducazione femminile  viene trovata uccisa, assalita si pensa dai lupi, nei dintorni boscosi dell’istituto. Le indagini portano a scoprire una fangosa storia di ricatti. La studentessa non sarà l’unica vittima di violenza. Il bel finale del film svelerà una sorpresa egregiamente costruita nella sceneggiatura.


Horror gotico di fascino cult, è la terza pellicola per Heusch (suo pseudonimo, Richard Benson) noto per il suo  esordio col film La morte viene dallo spazio, del 1958. La sceneggiatura di Licantropus è firmata da Ernesto Gastaldi che si sceglie lo pseudonimo Julian Berry.

Il lycantropus o lupo mannaro è una figura mitica popolaresca ricca di varianti raffigurative a seconda dei tempi e dei luoghi, in questo film sembra funzionare per lo più come specchio di un male reale che affligge inesorabilmente l’umanità dai primordi della civiltà, quale può essere il sacrificio dell’istinto per il bene comunitario.

 

 La teoria sul disagio della civiltà non può non trovare un legame associativo anche con questo film. L’approfondimento teorico freudiano sul tema ha tracciato percorsi mitici, storici, culturali di estremo rilievo in grado di  sostenere tutt’ora  come valida l’ipotesi dell’origine della nevrosi a causa della repressione o l’addomesticazione degli istinti, divenuti oggi sul piano della coscienza qualcosa di molto più sfumato  indicabile per esempio con il termine pulsioni ma che nell’inconscio conservano ancora un potenziale di rilievo che può divenire a seconda delle circostanze molto pericoloso.

La bestia filmica che assale per il gusto di uccidere e non per il bisogno di sfamarsi, oppure che incute paura non per timore di perdere il controllo vitale sul proprio territorio ma per prolungare il piacere, non ha niente di animalesco, si tratta  ancora e sempre di un agire umano.


 La bestia mitica dei racconti non è altro che l’uomo stesso ferito nell’istinto desiderante primario più intimo. L’uomo  non poteva e non può essere solo animale in quanto dotato di un’intelligenza e coscienza esistenziale molto diverse, per mezzo delle quali si vedeva e si vede  proiettato inesorabilmente verso la costruzione di un futuro societario diverso, più complesso di quello animale, più ricco di sicurezze.

Sono sicurezze che implicavano e implicano sempre più una tornitura dell’istinto a vantaggio della ragione civile destinata però a dar soddisfazioni pulsionali compensatorie non a tutti i membri della società. Quest’ultimo aspetto comporta conflitti umani immani, stravolgenti, deturpanti i volti e gli sguardi dei perdenti sociali fino a far assumere loro sembianze mostruose, disumane.

Il mostro allora è la figura umana deformata che dice di come qualcosa del primario istintuale represso ritorna e funziona nel presente, precisamente quando certe cose vanno storte nelle vicende del civile quotidiano, quando traumi e insoddisfazioni di desideri di tipo simbolico raggiungono livelli non più sopportabili e l’uomo non riesce più a contenere la spinta che ne deriva, che è sintomatica, creatrice cioè di un piacere spesso criminogeno, perverso e patologico


 Il mostro quindi, come in questo film, diventa una vittima, un paziente, un oggetto di studio, con responsabilità di ciò che compie limitate, diventa una testimonianza scomoda di un civile che per molti cittadini fallisce quotidianamente nelle sue funzioni.

Lo sbocco a cui porta il film è denso di conseguenze, pone  le istituzioni di fronte a un bivio drammatico: nascondere il processo primario che è in atto con tutta la sua potenza criminogena in ogni essere umano fin dalla nascita e che in questo caso comporta la condanna del mostro alla pena di morte o al carcere a vita, oppure dare rilievo scientifico ai crimini compiuti dal mostro e attuare misure di prevenzione e dissuasione dal compiere reati studiando anche il  contenente  culturale del luogo in cui avvengono i crimini. Questa seconda strada essendo più costosa e difficile spesso è abbandonata o appena abbozzata dalle istituzioni.

  Biagio Giordano

       

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