CINEMA: L’angelo sterminatore

 
RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
L’angelo sterminatore
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RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO  

L’angelo sterminatore

 

Titolo Originale: EL ANGEL EXTERMINADOR

Regia: Luis Buñuel

Interpreti: Jacqueline Andère, Silvia Pinal, Enrique Rambal, Claudio Brook

Durata: h 1.35

Nazionalità: Messico 1962
Genere: commedia
Al cinema nell’Agosto 1962

Recensione di Biagio Giordano

Film completo visibile su You Tube

Trama. In una estesa e laboriosa città del Messico degli inizi anni ’60, un signore dell’alta borghesia, dopo la visione a teatro della Lucia di Lammermoor,  invita a cena nella sua lussuosa villa un gruppo di circa 15 persone.

Gli invitati appaiono subito strani, posseduti da misteriosi desideri, forse sono malati di protagonismo, si esprimono tutti con un tono molto alto tanto da sfiorare spesso l’arroganza. I contenuti dei loro discorsi tradiscono un’inquietudine incontrollabile che sembra sottendere tratti nevrotici assai marcati, è come se tutti fossero presi da uno oscuro senso di colpa: qualcosa forse da mettere in stretta relazione con la loro chiara appartenenza a un insieme  privilegiato dalle facili sicurezze istituzionalizzate, un ceto frustrato esistenzialmente, non sempre in grado, nonostante i benefici di cui gode, di appagare le numerose esigenze richieste, a volte in modo bizzarro, irrazionale, dalla vita.

E’ una colpa avvolta nel narcisismo, e pulsionalmente intrecciata con forme di paure indicibili, sia ataviche di origine primaria, sia  sociali non ben configurabili.


Gli invitati fanno parte del miglior ceto borghese messicano, ed esercitano diverse professioni, tutte di un certo prestigio: dal medico, al direttore d’orchestra, al soprano, all’architetto, al generale; sono stati educati fin da piccoli alle buone maniere, allo studio e all’apprezzamento del lusso considerato frutto di doti  lavorative particolari e colta intelligenza.

La  serata  appare  subito avvolta in una atmosfera surreale che lascia spazio  libero  all’inconscio, esso fa emergere retro pensieri passionali spesso in totale antitesi con le forme convenzionali più corrette del dire. E’ un linguaggio molto  efficace,  diverso da  quello ordinario, capace di gettare luce sul  reale più vero del sentire umano individuale consentendo di comunicarlo al meglio all’esterno.

La servitù, stranamente, dopo aver preparato il pranzo pare più che mai intenzionata ad andarsene, i cuochi e i camerieri non sembrano propensi ad informare i padroni dei veri motivi della decisione che stanno per prendere, i loro volti tirati esprimono una cordialità forzata che nasconde probabilmente seri problemi di disistima per i padroni.


 L’atto di abbandono che sta per compiersi appare fortemente simbolico, sembra preludere alla nascita di un forte ribellismo sociale nel paese, è un atteggiamento quello della servitù che probabilmente affonda le sue radici nei conflitti di classe del paese. A nulla varranno i toni prepotenti e minacciosi dei padroni di casa per dissuadere la servitù dall’andarsene.

 Un orso nero e alcuni agnelli si aggirano per la casa, sono metafore della peccaminosità e della colpa, cioè della bestia interiore di ciascuno, inconscia, intesa come costante minaccia alla civiltà e del bisogno di redenzione sacrificale per un male cosciente esteso che è tipico dell’uomo, essi fanno parte della dissociazione millenaria del comportamento  umano. Metafore e simboli del film  sono immagini attinte per lo più da L’apocalisse di Giovanni, testo del Nuovo testamento noto per essere figurativamente ricco di significati profondi riguardanti la dinamica peccaminosa del desiderare umano.

 In una parete del lussuoso salone in cui si sta cenando  vi sono tre porte dipinte con familiari immagini sacre: una raffigura la Vergine col Bambino, un’altra un santo e la terza l’Angelo dell’Apocalisse che annuncia il giorno del giudizio.

Nel corso del racconto, queste tre porte assumeranno diverse funzioni simboliche tutte dal sapore dissacrante, irriverente, attraversate tra le loro righe da una sottile parvenza di giudizio espressa da Buñuel con il linguaggio visivo della telecamera in una raffinata forma,  simile al sarcasmo, e a volte alla satira.

 

Le tre porte sembrano voler rappresentare una sorta di separazione, forse impossibile nell’ambito delle estese relazioni umane, tra, convenzionalità sociali imposte e povere di soddisfazione, l’ipocrisia perbenista delle relazioni che contano, la perturbante vista della morte, e quei desideri passionali socialmente non ammessi che si soddisfano  nell’oscurità con la sola presenza del proprio super-io  intollerante e potente.

Una porta cela preziosi vasi cinesi che svolgeranno il compito di raccogliere gli escrementi degli invitati; un’altra dà rifugio agli innamorati che vogliono amarsi senza impedimenti, mentre la terza conserva il cadavere di un uomo deceduto durante la permanenza nel salone da pranzo.

Da questo salone, nessuno uscirà per più di un mese, come se tutti fossero impediti da un inconscio divenuto potente e prepotente, apertosi improvvisamente, che vuole manifestare i suoi pensieri fatti un tempo e rimasti compressi nella psiche, che ha esigenze comunicative di più alta espressività simbolica rispetto al cosciente non ulteriormente procrastinabili, un inconscio che mostra alle  coscienze di ciascuno qualcosa di orrendo: paralizzanti divisioni del profondo dell’anima, qualcosa in grado di far dimenticare ogni tratto distintivo di classe e perfino l’educazione perbene ricevuta.

Ciascuno del gruppo diventerà in pochi giorni incivile, brutale, codardo.

L’invasione dell’inconscio nel territorio psichico del Io dove quest’ultimo sembra aver perso ogni potere di intervento esecutivo in relazione con la realtà, provocherà angosce, desideri perversi, pianti, manie improvvise, adorazioni sataniche, il tutto rappresentato magistralmente da Buñuel con potenti immagini oniriche, surreali, sorgenti tra il dormiveglia e la veglia, in una zona psichica senza precisi confini dove realtà e immaginazione si confondono irrimediabilmente. Il vero, stravolto dai desideri incestuosi, verrà rivestito dai cupi colori della  sintomaticità del lavoro onirico.

 

Il tutto avviene lungo un tempo deleuziano (teoria dell’immagine tempo) del raccontare cinematografico, costruito  come se fosse   un punto dal  movimento imprevedibile posto sulla circonferenza  della cronologia della storia.

Esaurita la sfuriata pulsante dell’inconscio, le coscienze provano a ritrovare il simbolico del reale presente, cioè a ricostruire un modo per poter uscire da una prigionia mortale dominata da un tempo dalle apparenze non più cronologiche, il gruppo ricordando esattamente la successione degli eventi dal momento del loro ingresso in quel luogo, ritroveranno, per associazione con i ricordi della loro vita esterna, il piacere del poter uscire all’aperto.

 La narrazione del film ha anche un’andatura a  cicli, alcune situazioni sceniche si ripetono in altre forme, ad esempio verso il finale, lo stesso gruppo si ritrova prigioniero all’interno della chiesa durante la celebrazione del  Te Deum quasi a voler significare il bisogno di una sorta di redenzione catartica, una purificazione risanatrice delle ferite aperte dal senso di colpa inconscio.

Commento. Contrariamente a quanto è stato scritto in molte recensioni, questo film di Buñuel non è una critica moralistica vera e propria alla borghesia, seppur a volte qua e là potrebbe sembrarlo. La  classe borghese appare nelle scene più come vittima che gaudente detentrice di un  potere senza limiti in grado di soddisfare ogni esigenza.

Buñuel evidenzia alcune contraddizioni e difficoltà esistenziali di questa classe che si piegano anche nella follia, aspetti del tutto oggettivi, intesi cioè come privi di ogni responsabilità colpevole ascrivibile al mondo borghese come soggetto.

Buñuel trova ispirazione dal costume e dalla cultura borghese in quanto questa classe, rispetto ad altre più disagiate, rende più facilmente visibile tutta una propria complessità interiore e il senso più nascosto del proprio operare. Essa è infatti in grado di dialogare autonomamente con la cultura, senza intellettuali che  interpretano i suoi modi culturali di porsi nel sociale, con il risultato di dare del  proprio profondo  maggior enfasi letteraria e chiarezza in quanto espresso direttamente.

Paradossalmente proprio perché è una classe privilegiata,  e quindi non appare mai disperata o eccessivamente ripiegata su se stessa, essa appare maggiormente aperta al dialogo culturale istituzionale, anche quello interclassista, cosa che le consente con maggiore frequenza rispetto ad altre classi più disagiate di investire in opere artistiche di livello stilistico e autenticità espressiva di una certo valore.

Il film è ispirato da un soggetto teatrale scritto da José Bergamin intitolato Los naufragos e sceneggiato oltre che dallo stesso Buñuel anche da Luis Arcoriza. L’angelo Sterminatore è uno dei film più significativi diretti dal  maestro spagnolo surrealista. La trama è un trucco raffinato per scavare meglio nei meandri dell’inconscio borghese divenuto ormai, dopo diversi secoli di dominio sociale e culturale, una sorta di magico archetipico.

Biagio Giordano 

   

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