CINEMA: La faida

RUBRICA SETTIMANALE DI BIAGIO GIORDANO
In uscita in questi giorni al cinema
La FAIDA

 

RUBRICA SETTIMANALE DI BIAGIO GIORDANO

In uscita in questi giorni al cinema

 LA FAIDA

 

 La Faida
REGIA: Joshua Marston
USCITA CINEMA: 29/08/2012
GENERE: Drammatico
SCENEGGIATURA: Joshua Marston, Andamion Murataj
ATTORI: Tristan Halilaj, Sindi Laçej, Refet Abazi, Ilire Vinca Çelaj.
FOTOGRAFIA: Rob Hardy
MONTAGGIO: Malcolm Jamieson
MUSICHE: Jacobo Lieberman, Leonardo Heiblum
PRODUZIONE: Journeyman Pictures
DISTRIBUZIONE: Fandango
PAESE: Usa 2011
DURATA: 109 Min
FORMATO: Colore
Recensione di Biagio Giordano

Nik (Tristan Halilaj) e Rudina (Sindi Lacej) sono due fratelli adolescenti, albanesi, appartenenti a una famiglia di piccoli agricoltori  proprietari dei  mezzi di produzione che utilizzano nel lavoro. Risiedono in un piccolo villaggio, nella parte settentrionale del paese, verso Scutari. Il padre riesce a far studiare i figli e a fornirli di alcuni importanti strumenti tecnologici di comunicazione, come televisori, cellulari, computer portatili,  abbonamenti a internet.

Nik  è innamorato ed  ha in progetto l’apertura in paese  di un punto pubblico di collegamento a internet per favorire gli studi dei suoi compagni e aiutare nel lavoro chi più ne ha bisogno. Nik sta anche costruendo, sopra il tetto della  propria casa,  una palestra privata.

Una mattina  il padre di Nik trova sbarrata con delle grosse pietre la strada principale che uscendo dalla sua tenuta va in direzione del paese; dopo un attimo di sbigottimento l’uomo decide di togliere i sassi. Per quel gesto il giorno dopo l’anziano  viene  aggredito dal vicino che rivendica il diritto di chiudere una strada che passa per il  suo campo.

Il conflitto tra i due si avvia rapidamente verso dure contrapposizioni, la gestualità del diverbio è violenta, il tono acceso non lascia spazio ad alcuna ragionevole argomentazione, tanto che a un certo punto si forma una controversia  drammatica, carica di minacce di morte.

Una mattina il padre di Nik  si reca con un parente nell’abitazione del vicino per convincere con la forza  l’uomo a  lasciar  libera la strada,  ma per tutta  risposta lo vede arrivargli addosso,  minaccioso, con un grosso coltello in mano. Nella sanguinosa colluttazione  avrà la meglio il padre di Nik aiutato dal suo parente, e  l’aggressore rimarrà senza vita disteso sul terreno.

Tra le due famiglie viene a istituirsi   una vera e propria faida di sangue, destinata a condizionare pesantemente la vita di tutti i giorni dei familiari di Nik.

L’anziano padre di Nik, che ha ucciso per legittima difesa, si sente innocente, ma è costretto a scappare  in collina per non essere arrestato, i componenti della sua famiglia sono costretti  a vivere chiusi  in casa perché minacciati di morte.   Per quella uccisione, secondo  il codice d’onore Kanun, che affonda le sue origini nel  XV secolo e che è una scrittura-legge tuttora vigente  in alcune zone rurali dell’Albania, la famiglia offesa da un grave fatto di sangue può rivalersi sul figlio della famiglia dell’omicida uccidendolo. Il codice è molto schematico, non si cala in tutta la reale dinamica dei fatti, non dice che è necessario  ricostruire con precisione ogni responsabilità  in qualche modo decifrabile  all’interno degli accadimenti, per cui non prende  in considerazione neanche i  meccanismi della legittima difesa, che nel caso del padre di Nik, costretto a uccidere perché aggredito con un arma, appaiono in tutta la loro evidente portata istintuale.

 

Le radici più propriamente culturali del Kanun appaiono misteriose, alcune sono storicamente comprensibili altre no, certi tratti  qua e là ricordano  antiche religioni monoteiste.  Come si  desume dal  comportamento scritturale  del mediatore della faida, intervenuto,  intravedendo un possibile compenso, a sedare gli animi. L’uomo è  ritenuto  un esperto del codice Kanun,  e in una prima fase della mediazione fa sapere alla famiglia di Nik  che le scritture propongono di perdonare il vicino responsabile del fatto di sangue,  morto nella colluttazione,  e di accettare  con  rassegnazione  la vendetta di quella  famiglia su suo figlio.  Ma il giovane Nik non ci sta a morire, farà di tutto per salvare la propria vita, il futuro della sorella e la tranquillità  del suo nucleo famigliare. Riuscirà nell’intento?

 Joshua  Marston è un regista di talento, lo ricordiamo in MARIA LLENA ERES DE GRACIA, del 2004, film drammatico ambientato a Bogotà che si cala con grande sensibilità e vena narrativa nei problemi del proletariato, sottolineando in particolare la gravità della condizione femminile.

In questo film oggi in sala, La faida,  l’andatura narrativa e la problematicità sociale del soggetto proposto, ricordano per certi aspetti il film precedente del 2004 girato a Bogotà.

Marston sembra voler fare  del cinema neorealista aggiornato tecnicamente e culturalmente al presente, e lo fa quasi oscurando la propria presenza, come se volesse sacrificare parte di sé  a vantaggio dell’opera: la sua ricerca di una oggettività e chiarezza espressiva  diventa quindi straordinaria.

Non c’è  alcun virtuosismo soggettivo nella  scrittura fotografica e sonora di Marston, ma una serie di pazienti inquadrature a finestra, con composizioni  semplici ma esaurienti nel loro voler dire  qualcosa di rilevante, di senso compiuto, per immagini. Si avvale in ciò di numerose  riprese fisse, a  temporalità lunga, che danno tempo allo spettatore di capire dettagli significativi di una situazione sociale, paesaggistica, economica, etc. Inoltre,  i contrasti  e i comportamenti in generale tra i personaggi hanno una discorsività  essenziale, diretta,  aiutano a formulare  una realtà che si vuol prendere per come effettivamente è, mai cullata nella letterarietà  o nella ricerca di un abbellimento stilistico sofisticato in grado sì di combinarsi armoniosamente con la forma  del linguaggio base iper realistico della trama, ma che rischierebbe di divenire spettacolo,  cioè inevitabile fuga da una parte di vero.

Per di più Marston non ha voluto sedurre lo spettatore attraverso proprie invenzioni interpretative del reale,  magari  ben supportate   da qualche  osservazione obiettiva  legata ad  aspetti importanti della vita  sociale  albanese.

Egli non vuole correre il rischio di  immettere  nei codici dell’estetica  cinematografica più collaudata  fantasie interpretative  proprie, che solitamente garantiscono un certo incasso al botteghino ma sono destinate a congetturare il senso del vero presente nelle cose  anziché coglierne l’essenza, frantumando quindi ogni evidente univocità  mostrata in modo iper realistico, diretto, dalla macchina da presa. Marston non cade nella trappola narcisistica dello stupire a ogni costo per farsi amare in un gioco di  spettacolo fine a se stesso, e di questo bisogna dargli ampio merito.

Il regista rinuncia a quel  gioco di intrecci ad effetto emotivo irrazionale che anziché  portare allo spettatore conoscenze e testimonianze dirette dell’occhio della telecamera sulla realtà,  spesso lo narcotizzano impietosamente catturando la sua mente con emozioni da suspense e toni di drammaticità costruite in toto a tavolino, inadatte per questo genere di film, ma che pur si usano frequentemente, testimoniate dalla storia del cinema, anche nei film con pretese culturali.

Tutto il film per Marston è già scritto nel reale. Un reale che occorre saperlo tecnicamente riprodurre, estraendolo  da ogni pudicizia ipocrita  in cui giace sepolto da tempo, sopratutto per responsabilità dei media. Un reale in questo caso che riguarda territori le cui frontiere sono a noi vicine, e la cui ricchezza di dettagli di costume  trapelava prima del film, un po’ confusamente, esclusivamente nel contatto che abbiamo avuto con gli immigrati di quei territori.

Sono costumi e realtà  sociali che solo il cinema culturale, inteso come facente parte  della potente memoria storica collettiva che caratterizza la settima arte, può  proporre efficacemente al pubblico. A patto che si  usi, come ha fatto Marston,  la massima semplicità espressiva , quella che si avvale di  uno stile fotografico in grado di dare la giusta dimensione spazio tempo dei luoghi, cioè una reale profondità di campo, scevra  da immagini fisicamente virtuali, da video gioco, tale quindi da far entrare nel film i due sensi della vista e dell’udito accompagnati da una forte allusione al tatto, al gusto, e all’olfatto.

Lo spettatore che ama questi film appare, per alcuni aspetti, sempre più  sapiente di cinema, bramoso anche nella finzione di sentirsi in mezzo al vero con tutti e cinque i sensi sollecitati e osservare il tutto non visto. 

 BIAGIO GIORDANO
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