Cinema: Il giovane favoloso

RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
Il giovane favoloso

RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
 Il giovane favoloso
 
Titolo Originale: IL GIOVANE FAVOLOSO
Regia: Mario Martone
Interpreti: Elio Germano, Isabella Ragonese, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Edoardo Natoli, Anna Mouglalis,  Valerio Binasco, Paolo Graziosi
Durata: h 2.17
Nazionalità:  Italia 2014
Genere: biografico
Al cinema nell’Ottobre 2014
Recensione di Biagio Giordano

 Il film Il giovane favoloso non vuole essere l’ennesima erudita biografia su Leopardi e il suo pensiero, comunicati attraverso brillanti citazioni scolpite sulle immagini in movimento e approfondite da qualche buon dialogo in stile teatrale, ma un’utilizzazione artistica dello strumento cinematografico inteso dal lato del suo valore espressivo più potente: la poesia visiva. Quest’ultima per forza di cose non può essere strettamente finalizzata alla piena riuscita didattica del racconto. Per questo Il giovane favoloso  rappresenta per certi aspetti di fondo una forma del dire in versi poetici per immagini (del cinema) sul dire dei contenuti di versi più legati all’immagine psichica che sorge dagli scritti poetici (di Leopardi).


E’ una scelta espressiva questa che riabilita il valore culturale-poetico-artistico del cinema collocandolo in un altrove che seduce l’inconscio dello spettatore aprendolo a nuove forme di godimento visivo. Una qualità che riguarda soprattutto il linguaggio più vagabondo, quello che si combina con quella parte dell’inconscio più impressionabile, calandosi nel binario desiderante che aspira alla espressività creatrice. Sono questi, effetti visivi non codificabili perché per lo più durano il tempo della proiezione. E’ una sorta quindi di linguaggio alla deriva, privo della preoccupazione di dare chiarezze accademiche o didattiche immediate, e che grazie al dispositivo tecnico cinematografico diventa un linguaggio che può usare e inglobare felicemente ogni idioma esterno conosciuto: inventando perciò con più facilità nuove combinazioni estetiche, quest’ultime spesso, più sono intense, meno appaiono, nell’immediato, legabili a un senso razionale.

  Il paradosso di questo film, che pur traccia con grande precisione e ordine alcuni aspetti essenziali  della vita di Leopardi, sta nel fatto che l’identificazione dello spettatore con le scene e il suo protagonista poeta non passa attraverso la bravura degli attori né dal fascinoso nozionismo delle  opere del grande poeta né dalle difficoltà esistenziali della sua vita che appaiono  comunicate con efficacia dal film, né da tecniche letterarie ammalianti, bensì dalla originale forma artistica, caratterizzata da una ricca messe di raffinati mezzi toni drammatici che vanno a sostituire i contrasti forti, rozzi, di facile esecuzione tipici di certi film del genere. Mario Martone entra in simbiosi poetica con Leopardi, si fa partecipe come soggetto nel film, riprende e rappresenta con una propria carica poetica le cose che percepisce nella  lettura fatta del Leopardi. Contenuti e forme non appaiono mai separati l’uno dall’altra ma si alimentano  a vicenda in un gioco senza fine di contiguità tra il dire e il vedere che ha del sorprendente.


Si apprezzano dettagli significativi in primo piano in sincronia con l’introspezione dinamica di Leopardi, colori esplosivi che seguono le emozioni e i turbamenti esistenziali del poeta di Recanati, librerie ricche e dense di libri  dalle sembianze esterne di prezioso  antico, che accompagnano enunciati filosofici di gran spessore pronunciati dal Leopardi, sguardi in primo piano di grande impatto fotografico nei momenti salienti del vivere e del scegliere del grande poeta che rilasciano forti apprensioni empatiche, movimenti di macchina mai banali ma sempre impegnati nel mostrare atmosfere metaforiche e metonimiche di sostegno al dire e al fare di volta in volta del nobile protagonista marchigiano. > Mario Martone sembra voler intendere il cinema nella sua accezione artistica più fertile di passionalità: la costruzione con le immagini in movimento di un’impressione di realtà per lo spettatore che si fonda per verosimiglianza con le prestazioni reali di una macchina del tempo fantasticata capace di farci tornare indietro, nel fine ‘700.  


Il regista gioca mirabilmente con diversi linguaggi visivi presi in prestito da altre arti, ed essi, per come vengono assemblati, sono in grado di elevare la drammaticità a livelli eccelsi di credibilità. Con ciò avviene che l’impressione di realtà riguardante il  passato diventa, per una sorta di magia cinematografica, un qui e ora credibile,  vissuto  perciò con stupore, percepito come meraviglia rilasciata da una macchina del tempo inesistente ma di cui si percepisce, ed è quello che conta, con straordinario realismo la sua presenza nella cabina di proiezione.    

  Biagio Giordano  

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