Cinema: Il figlio di Saul

 
RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
Il figlio di Saul

RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
 Il figlio di Saul
 

 Titolo Originale: SAUL FIA

Regia: Laszlo Nemes

 
Duratah 1.47
 
Nazionalità:  Ungheria 2015

Genere: drammatico

Al cinema nel Gennaio 2016
 
Recensione di Biagio Giordano

 

 VINCITORE DI 1 PREMIO OSCAR: Miglior film straniero

 VINCITORE DI 1 PREMIO DAVID DI DONATELLO:  Miglior film dell’Unione Europea


Ottobre 1944. Saul Ausländer (Géza Röhrig) è un ebreo ungherese deportato ad Auschwitz-Birkenau. L’uomo è stato reclutato dai nazisti come sonderkommando. Saul è di costituzione robusta e possiede  competenze lavorative riguardanti la manutenzione elettrica e meccanica dei locali più industriali.

I sonderkommando sono costretti dai nazisti ad assistere al lavoro di pulizia etnica dei  detenuti ebrei destinati ai forni crematori, nonché ad avere cura  manutentiva dei locali funzionali al genicidio. 

Questo lavoro, affinché possa essere svolto con cura, e senza destare sospetti su una possibile messa a morte degli stessi sonderkommando di turno, viene  ben retribuito.


Saul assiste shoccato e profondamente umiliato, ma con in fondo all’animo ancora una misteriosa speranza, allo sterminio della sua gente contribuendo solo forzatamente alla messa in pratica delle idee organizzative naziste sul  viaggio finale programmato per gli  ebrei.

I sonderkommando  rimuovono anche i corpi dalle camere a gas e li portano alla cremazione: dopo di ché spargono le ceneri nei luoghi più impensati.

Le pulsioni di vitalità, quelle più naturali, nel gruppo dei sonderkommando, sono del tutto represse, ma alcune di esse rimangono attive, seppur rimosse, agendo tra le pieghe dell’inconscio e producendo visioni di libertà.


 Le idee su come evadere dal campo non mancano, i sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, si preparano scrupolosamente alla rivolta: intuendo che, nonostante  il servizio svolto e lo stipendio concesso dai nazisti, di lì a poco anche loro avrebbero fatto la stessa fine dei deportati ebrei.

Saul, particolarmente meditativo, partecipa passivamente ai pensieri di evasione del gruppo, sembra quasi che il suo Io sia assorto da altre cose, più urgenti, ciò è evidente dal modo stesso di riprendere delle telecamere (formato ristretto  4:3) che mettono spesso al centro dell’inquadratura  Saul ripreso di spalle, come a sottolineare la sua assenza da uno spazio più profondo e largo animato da  figure diverse disposte al dialogo.


 

In quei pochi attimi in cui ha  la possibilità di relazionare con i suoi compagni che lo circondano, Saul appare straniato: come se la sua coscienza offesa cercasse, con l’aiuto dell’inconscio animato dalla forza della fede religiosa, di dare alle cose che accadono ancora un senso profondo, un senso forse sintomatico, forse l’ultimo della sua vita precipitata ormai in un abisso di umiliazioni che sembrano del tutto incredibili tanto è inimmaginabile  l’orrore visto e patito.

Saul  un giorno depone, su una panca sistemata nei locali di morte, il  corpo di un ragazzino agonizzante, e rimane eccessivamente colpito dal suo sguardo, tanto da convincersi a un certo punto, invaso com’è da un delirio mistico, di essere di fronte a suo figlio.

 La tenue speranza di vita dell’adolescente sarà stroncata brutalmente da un medico nazista accorso precipitosamente a sopprimerlo come lui sapeva si potesse fare velocemente.


 

Il nuovo senso, sintomatico nel significato, avvolto nel delirio,  in Saul trionfa, regalandoli gli ultimi bagliori di vita affettiva immaginata dal suo inconscio. La sua vitalità non è più repressa, ha trovato una via d’uscita seppur provvisoria, tortuosa, grazie all’astuzia dell’inconscio nel creare nuovi desideri. La sua missione ha una salda configurazione, sacrale, e consiste nel dare una degna sepoltura religiosa al  ragazzo.

Saul va alla ricerca della pace, della preghiera, cercando una figura terza,  un rabbino che reciti il  “Kaddish del lutto”, preghiera costitutiva dei rituali funebri dell’ebraismo.

Saul vuol soddisfare un bisogno legato alla fede, lasciando intendere la presenza nel suo animo di un ultimo disperato appello a Dio, che l’inconscio approva e sostiene.

Una scelta che appare essere più urgente che non la fuga dal lager, perché realizzabile solo all’interno del campo.

Ciò lo porterà a delegare ad altri l’impegno organizzativo per la fuga dal campo di sterminio.


Il pregio di questo film sta nella sua originalità di idee e nella curatissima messa in campo fotografica della sceneggiatura. Per quanto riguarda il linguaggio visivo esso occupa un posto centrale nell’economia del racconto, prendendo a un certo punto il sopravvento sui dialoghi sonori che appaiono   poveri di articolazioni e pathos.

La fotografia  in questo film risulta una vera e propria scrittura altra, potente, insostituibile, trasmettendo essa sola, come in un film muto di qualità,  pathos espressivo e comunicatività significante, esaltando le parti drammatiche e tragiche  previste dalla sceneggiatura come nessun dialogo sonoro in un film, come questo, avrebbe mai potuto fare.

Una grande regia d’esordio per  Laszlo Nemes, ispirato poeticamente, e animato da una grande sensibilità umanistica. Un regista autore ricco di energia inventiva, che cerca l’originalità  nella sceneggiatura e nel modo di riprendere, lasciando stupiti per sicurezza nella direzione della telecamera e degli attori.

Tutto in questo film appare inedito, a testimonianza di essere in presenza di un autore indubbiamente molto dotato, e orgoglioso quanto basta per inventare codici visivi nuovi slegati da ogni convenzione già felicemente collaudata al botteghino.

 Biagio Giordano  

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