CINEMA – BABYCALL

RUBRICA SETTIMANALE DI BIAGIO GIORDANO
In uscita in questi giorni nella provincia di Savona
BABYCALL

 

RUBRICA SETTIMANALE DI BIAGIO GIORDANO

In uscita in questi giorni nella provincia di Savona

BABYCALL

 Titolo Originale: BABYCALL

Regia: Pål Sletaune

Interpreti: Noomi Rapace, Kristoffer Joner, Henrik Rafaelsen, Stig Amdam, Maria Bock

Durata: h 1.36

Nazionalità: Norvegia 2011

Genere: thriller

Al cinema nell’Agosto-Settembre 2012

Recensione di Biagio Giordano

Norvegia, Oslo. Alla giovane  Anna (Noomi Rapace), reduce con il figlio piccolo di 8 anni Anders (Vetle Quenild Werring) da una separazione coniugale  molto travagliata, viene assegnato dai servizi sociali un piccolo appartamento di periferia, situato in un edificio cupo, squadrato, simile a una caserma militare.

Il padre, secondo il racconto di Anna, odiava  il figlio, lo picchiava ripetutamente. L’uomo sembra non prendere dal verso giusto la separazione e minaccia  di uccidere il figlio terrorizzando la donna. Anna vive perciò rinchiusa  nell’appartamento assegnatole ed è visitata solo dai servizi sociali che sono molto preoccupati della situazione  perché secondo loro non è tale da garantire un’educazione adeguata al figlio.

Anna rifiuta anche di mandare il piccolo a scuola perché non le sembra sufficientemente protetto dalle istituzioni, e offre quindi se  stessa come insegnante.

Un giorno la donna si reca in un negozio di apparecchiature elettroniche e compra un babycall, due piccole radio portatili che comunicano tra di loro a piccole distanze, l’apparecchio gli serve per  controllare  le condizioni del figlio nella stanza vicina o nelle vicinanze dell’appartamento.

 
 
 

Nel negozio Anna fa amicizia con il commesso Helge (Kristoffer Jones), un ragazzo timido dalle esigenze comunicative molto forti ma psichicamente bloccato, al quale la donna inaspettatamente si apre confidando cose personali di una certa rilevanza.
L’atmosfera casalinga in cui vive la donna con il piccolo è sempre molto tesa, Anna ha la mente occupata da forti preoccupazioni, e il figlio appare irritato, confuso, assente, per di più nelle radio entrano strane frequenze: si sentono voci che fanno pensare a delle violenze verso  bambini situati in un altro appartamento.

La donna inoltre è ossessionata da ricordi paurosi che sembrano in alcuni casi diventare dei veri e propri deliri con scene mentali di tipo onirico che la vedono ad esempio assistere impotente all’omicidio del figlio da parte del padre, nei pressi di un lago.

A un certo punto per lo spettatore la realtà più verosimile delle scene familiari nell’appartamento e dei luoghi filmici esterni non è più certa, essa sembra invasa dalle visioni di Anna che  diventano sempre più potenti e dai toni drammatici, tanto che si ha il sospetto a un certo punto che i deliri  si pieghino  qua e là in qualche allucinazione.

Il vero psichico e storico dell’inconscio di Anna sembra trasformarsi in potenti rappresentazioni cinematiche prive di pensieri consistenti, costituite prevalentemente da immagini dinamiche dall’andamento ossessivo, figurazioni angosciose che solo per alcuni aspetti sono simili al sogno. L’inconscio della donna è come se  sconfinasse nella coscienza, soggiogando  l’Io-realtà e diventasse in un’altra logica protagonista straniante di gran parte della  narrazione.

Via via che il racconto procede, anche il personale dei servizi sociali diventa agli occhi dello spettatore sempre più strano, la coppia di assistenti che visita frequentemente Anna  non sembra proprio comportarsi in maniera professionalmente corretta, appare  ostile, minacciosa, esagerata nella gestualità che accompagna un dire duro, burocratico, che non ammette repliche,  la stranezza degli assistenti sociali arriva al punto massimo quando chiedono alla donna la consegna del figlio per portarlo dal padre violento, che loro pensano in questo modo di calmarlo. Si fa strada  negli assistenti sociali l’idea che Anna  sia affetta da qualche patologia  mentale.

Lo spettatore però a questo punto sembra non credere molto neanche  a questo e si aspetta dal film dei chiarimenti.

La pellicola  ha un finale che  per certi aspetti lascia stupiti e sconcertati, perché svela una situazione di fatti, accaduti due anni prima alla donna, del tutto inaspettati, tenuti ben nascosti nel lungo filo della narrazione principale. Fatti  che, una volta conosciuti dagli spettatori  danno al racconto  una prospettiva interpretativa molto diversa rispetto a ciò che si poteva logicamente dedurre  da quanto fin lì visto.

Il film quindi non è altro che lo  svolgersi  drammatico della psicologia offesa di  Anna, cioè l’articolazione reattiva  della sua mente a qualcosa di traumatico avvenuto anni prima, a lei e a suo figlio, è questo un modo di presentare il racconto che  ricorda, fatte le debite distinzioni sul valore dei rispettivi messaggi culturali, quanto accadeva in alcuni film di Bergman, tra i quali ad esempio, il notevole per drammatizzazione psichiatrica: Come in uno specchio.

Quest’ultimo è un film del 1960, molto apprezzato all’epoca dai critici,  in esso  lo spettatore  assiste senza conoscerne le cause a conversazioni tra i personaggi dense di pathos  e di tensioni che via via  si articolano in scene  sempre più intrecciate, dal tono alto, da cui si può ricostruire qualcosa di quanto accaduto prima, ma solo per ipotesi in base a quanto di specifico detto o visto prima. Un meccanismo narrativo  che  viene tuttora usato nel cinema, perché favorisce una maggiore attenzione filmica dello spettatore, ciò non solo sul piano estetico ma soprattutto su quello  intellettivo perché egli deve, per capire,  connettere molteplici e diversi dettagli significanti che appaiono qua e là tra le righe-immagini delle scene e immaginarsi velocemente un breve senso logico.

A differenza di Bergman Sletaune immette nel film componenti paranormali di forte  provenienza  letteraria, che creano una composizione scenica  assai paurosa, la quale combinata con i possenti deliri di persecuzione di Anna contribuiscono a creare delle tensioni e delle attese sado-punitive indubbiamente più vicine al genere Horror che al thriller-drammatico, genere quest’ultimo con cui viene distribuito questa pellicola ufficialmente.

Il film come messaggio culturale pone una questione di fondo di una certa rilevanza etica e sociale, indubbiamente attuale: come  vive la famiglia  con figli dopo la separazione, può ad esempio  ritrovare  la felicità o la serenità? Un problema complesso perché  nella separazione il disagio psichico pare che sia notevole e sembra richiamare la necessità di interventi  psicanalitici, a volte psichiatrici, ma forse è un disagio  aggravato da una cultura contenente di tipo istituzionale-nazionale che sembra non ammettere deroghe a uno statuto di famiglia composto da caratteri rigorosi, ben marcati, netti, che sembra avvertire in caso di una loro inosservanza  un inevitabile isolamento sociale e istituzionale della famiglia, qualcosa di una certa gravità, a volte addirittura esso sembra voler far intendere che trasgredire a certe norme significa andare incontro alla infelicità e all’emarginazione anche religiosa-istituzionale.

La cultura contenente vede quindi la famiglia come una cellula base, qualcosa di definitivo e monolitico sul piano sentimentale,   una scelta sì libera ma da cui è molto difficile poi tornare indietro. E’ uno statuto regolato con rigide norme etiche riguardanti la fedeltà, l’affettività, la sessualità, del tutto prive di sfumature o aperture come potrebbe essere  ad esempio la convivenza comunitaria verso l’esterno, l’unica in grado di soddisfare una pluralità di esigenze indubbiamente fondamentali, psichiche e culturali, che ogni nucleo convivente possiede.

La famiglia divisa diventa allora secondo il film una sorta di cellula irrimediabilmente malata, incapace di comporre altre cellule sane attraverso nuove esperienze coniugali, perché le ferite precedenti  non riescono a rimarginarsi in un sociale così indifferente  al cambiamento di regole istituzionali chiuse e gravide di possibili ulteriori traumi.

Il film quindi con la sua eccezionale drammaticità sembra voler mettere sotto accusa non tanto il padre violento che vuole uccidere il figlio, quanto un complesso di istituzioni deficitarie di umanità-intelligente che ruotano doverosamente intorno alle famiglie separate con figli piccoli.

L’articolazione psicanalitica dell’immaginario offeso di Anna, il tentativo di auto guarigione messo in atto dall’inconscio  si blocca e si piega in questioni psichiatriche di estrema gravità, quando incontra con le istituzioni un ascolto difettoso, una mancanza di comunicatività  adeguata al caso, solo allora  le sue paure relegate in una zona psichica inconscia, isolata, diventano separazione dal resto sociale, e associate a istanze pulsionali primarie  crescono potenti a dismisura, correndo verso uno pericoloso straniamento totale dal reale.

 BIAGIO GIORDANO
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