CI SI PUO’ CURARE CON LA FILOSOFIA?

CI SI PUO’ CURARE
CON LA FILOSOFIA?

 CI SI PUO’ CURARE CON LA FILOSOFIA?

Questa è una tipica domanda aperta, talmente aperta che è impossibile rispondere in modo sensato se non si specifica anzitutto il significato di “cura” e, naturalmente, quello di filosofia. Oltre che aperta è anche una domada molto attuale (e al contempo antichissima), perché sta affermandosi anche da noi, dopo il suo esordio in Germania nel 198, la cosiddetta “consulenza filosofica”, in alternativa alle diverse forme di psicoterapia.

Per capire di che cosa si tratta la via migliore è riportare la definizione di chi l’ha ideata, cioè il filosofo Gerd B. Achenbach: “Essa è un’istituzione per le persone afflitte da preoccupazioni o da problemi, per persone che ‘non se la cavano nella vita’ o che pensano di essere in qualche modo rimaste ‘impigliate’; persone che sono assillate da domande a cui non riescono a rispondere e di cui non riescono a liberarsi; persone che, sì, si affermano nella loro quotidianità, ma che allo stesso tempo non si sentono sufficientemente chiamate in causa, perché hanno l’impressione che la loro vita effettiva non corrisponda alle loro possibilità ”.

Persone, quindi, che avvertono la propria esistenza come inautentica, che soffrono per la mancanza di qualcosa senza magari sapere esattamente di che cosa, e comunque vorrebbero capire che cos’è che non va nel loro modo di vivere, cioè nel loro modo di rapportarsi con se stessi, con gli altri e con il mondo. In base a questa definizione, chi non è afflitto da preoccupazioni o problemi di sorta, chi se la cava sempre e comunque nella vita e  non ritiene di doversi liberare da qualcosa (o da qualcuno), chi non è assillato da domande a cui non trova risposta, chi si sente “realizzato” e sempre al posto giusto nel momento giusto  riconoscendosi in quello che dice e che fa (e in quello che gli altri dicono di lui), senza avvertire nessuna distanza tra quello che è (o che appare) e quello che desidera essere (o che vorrebbe che gli altri dicessero di lui), ebbene costui non ha nessun bisogno non solo di consulenza filosofica ma neanche di filosofia, perché sarebbe simile a quegli dei senza turbamenti e senza vani desideri immaginati da Epicuro nella sua Lettera sulla felicità: “A seconda di come si pensa che siano gli dei, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considarano estraneo”. Gli dei vivono la loro vita beata in un mondo sopra il mondo, e non hanno bisogno di nessuna cura per stare meglio di come già stanno; ma gli esseri umani non vivono nell’iperuranio, in un mondo fuori dal mondo, e nemmeno nella mitica età dell’oro, fuori dal tempo e dalla storia, in un’età in cui non c’era differenza tra il volere e il potere e tutto era “a portata di mano”; tant’è vero che hanno sempre sognato, e ancora sognano,  o di tornare a quel mondo prima del mondo, o di raggiungere, prima o poi, un nuovo paradiso (se terrestre o celeste è una questione di fede).

Ora, il fatto che gli uomini sognino sempre un “altrove” significa che non si trovano bene nel luogo in cui stanno. E perché mai? Che cosa c’è che non va nel luogo in cui ci troviamo? Quale che sia questo luogo, è lì che incontriamo i nostri limiti “ontologici” di spazio, di tempo, di codice genetico e di temperamento, ma anche le occasioni che la vita ci offre, o meglio la possibilità che abbiamo di scegliere, entro  quei limiti, come e perché vivere. Qui ognuno ha qualcosa di proprio da esprimere, noi tutti però siamo immersi  nella stessa temperie, viviamo nell’età della tecnica, della globalizzazione e del dominio fattuale dei valori  finanziari su ogni altro valore.

E non sarà per caso che si moltiplicano e prosperano le “terapie” di ogni genere, terapie che sono a loro volta sintomo di una malattia (o mania) della società prima ancora che degli individui; e se malata è la società, come potranno essre sani i soggetti che la compongono? Inoltre, quali sono i mali da cui dovremmo guarire? Possiamo forse guarire dai rischi, dai pericoli e dall’esperienza del dolore,  cioè dalla dalla  nostra  vulnerabilità e dal modtro destino di esseri mortali?  Chi dice nascita dice anche morte, dal momento che, per morire, è necessario essere nati; la morte è connaturata alla vita, come pure il dolore; quindi non si può guarire dal dolore e dalla morte, proprio perché non si può guarire dalla vita (se non morendo). Ma allora  da che cosa è possibile guarire, oltre che, ovviamente, dalle malattie che non siano incurabili? Ancora Epicuro insegna che non dalla morte si può guarire ma dalla paura della morte, e infatti concepiva la filosofia come la medicina (il “farmaco”) che avrebbe potuto guarire così dalla paura della morte come da quella degli dei (o meglio dalle false credenze intorno agli dei). Prima di lui, anche Socrate ha insegnato a non temere la morte: “E dovete sperare anche voi, o giudici, dinanzi alla morte e credere fermamente che a colui  che è buono non può accadere nulla di male, né da vivo né da morto, e che gli dei si prenderanno cura della sua sorte” (Platone, Apologia). Oggi la malattia di cui soffre la nostra società, e quindi gli individui che la compongono, si chiama “mancanza di senso”. Chi, in Italia, ha più insistito su questa diagnosi è il filosofo Umberto Galimberti, il quale, in apertura del suo testo La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica (Milano, 2005), scrive: “Nella casa di psiche ha preso dimora un ospite inquietante che chiede, con una radicalità finora sconosciuta, il ‘senso dell’esistenza’. Gli altri ospiti, che già abitavano la casa, obiettano che la domanda è vecchia quanto il mondo, perché, dal giorno in cui sono nati, gli uomini hanno conosciuto il dolore, la miseria, la malattia, il disgusto, l’infelicità e persino il ‘disagio della civiltà’ a cui prima le pratiche religiose, e poi quelle terapeutiche, con la psicoanalisi in prima fila, hanno tentato di porre  rimedio”.

Questa domanda di senso è una domanda essenzialmente filosofica, dal momento che non riguarda solo questa o quella circostanza, questa o quella esperienza, quella determinata delusione  o quello specifico dolore, ma il senso stesso dell’esistenza. Ma non basta: “L’ospite inquietante però insiste nel dire che nell’età della tecnica la domanda di senso è radicalmente diversa, perché non è più provocata  dal prevalere del dolore sulle gioie della vita, ma dal fatto che la tecnica rimuove ogni senso che non si risolva nella pura funzionalità ed efficienza dei suoi apparati”. Questo non significa, evidentemente, che gli uomini e le donne di oggi non tendano più a rifuggire dal dolore e a desiderare il piacere, anzi, la tecnica stessa promette – e in parte mantiene, si pensi solo all’enorme consumo di analgesici – l’”aponia”, cioè l’assenza di dolore fisico, ma che all’enorme e crescente potenza degli apparati tecnici non corrisponde un’altrettanta chiarezza sulle sue finalità: conosciamo  la causa efficiente, quella materiale (e, se siamo ingegneri, quella formale) ma non quella finale. E infati: “All’interno di questi apparati, l’individuo soffre per l’insensatezza del suo lavoro, per il suo sentirsi soltanto un mezzo nell’universo dei mezzi, senza che all’orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso. Sembra infatti che la tecnica non abbia altro scopo se non il proprio autopotenziamento, per cui se nell’età pre-tecnologica la vita e il mondo apparivano privi di senso perché miserevoli, nell’età della tecnica la vita e il mondo appaiono miserevoli perché privi di senso”. Ora, di fronte all’insensatezza (e anche alla pericolosità, si pensi agli armamenti atomici e alle centrali nucleari) degli apparati tecnici, le psicoterapie, a cominciare dalla psicoanalisi, sono del tutto impotenti. Quindi, proprio lì dove vengono meno le psicoterapie, cioè di fronte alla sofferenza per la mancanza di senso, può entrare in gioco la pratica filosofica, in quanto la filosofia “fin dal suo sorgere si è applicata alla ricerca di senso“. Fin dal suo sorgere, infatti, ha cercato di “darsi una ragione” del nascere e del morire, dell’essere e del non essere, del piacere e del dolore, del caso e della necessità, del bene e del male;  ed è quello che, pur nella diversità dei tempi e dei contesti, continua ancora oggi a fare. “Ma dall’insensatezza non si esce con una ‘cura’, perché il disagio non origina dall’individuo, ma dal suo essere inserito in uno scenario, quello tecnico, di cui gli sfugge la comprensione…”. Così come gli sfugge la comprensione, direbbe Hillman, “del dèmone invisibile che determina le nostre motivazioni e le nostre scelte”, cioè del potere dei miti che dominano la nostra società e quindi anche la nostra vita quotidiana…

Fulvio Sguerso

IL MIO NUOVO LIBRO
In vendita presso la libreria Ub!K di Corso Italia
La Locomotiva di via Torino
Libreria economica di Via Pia

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.