Chi sono io? L’altro per gli altri

CHI SONO IO?
L’ALTRO PER GLI ALTRI

CHI SONO IO? L’ALTRO PER GLI ALTRI

 Se mi pongo la domanda sulla mia identità di persona tra le altre persone, di soggetto tra gli altri soggetti, di individuo tra gli altri individui, non mi basta guardarmi allo specchio: lo specchio è muto, non parla, non è che una superficie riflettente che mi rimanda di me stesso un’immagine esterna, cioè un’apparenza che non dice nulla su quello che io veramente sono; per sapere qualcosa su di me ho bisogno di riflettermi non in uno specchio ma nello sguardo di un altro essere appartenente alla nostra specie comune e  che parli la mia stessa lingua (o una lingua comune a entrambi).

 


 In altri termini l’io ha bisogno dell’altro per riconoscersi e per riconoscere al tempo stesso che ogni identità comporta una differenza: se io sono io vuol dire che non sono un altro, e che solo un altro, uno diverso da me, può dirmi chi sono (ovviamente per lui), proprio come io posso dire a un altro chi è (ovviamente per me). Se poi considero la persona (da personam, cioè maschera da teatro) che ero anche solo dieci anni  fa e la confronto con la persona che sono oggi, quasi non mi riconosco, tante e tali mutazioni interiori ed esteriori sono nel frattempo intervenute tra il me stesso di allora e il me stesso di ora. Chi può dire di essere identico oggi al se stesso di ieri? Solo i morti non cambiano mai. Certo si può cambiare in meglio o in peggio, si può progredire o regredire, ringiovanire invecchiando o invecchiare invano, ma di sicuro non possiamo rimanere né come siamo né come eravamo: non siamo mai identici a noi stessi né gli stessi per gli altri, ciascuno ci vede a suo modo come noi vediamo a nostro modo gll altri (Pirandello docet).


 Quindi noi non sapremmo nulla di noi stessi se ci guardassimo soltanto allo specchio; inoltre, se dalla prima persona singolare passiamo alla prima persona plurale, cioè passiamo dall’io al noi, ci rendiamo subito conto che non potremmo parlare di una nostra identità collettiva (di famiglia, di gruppo, di squadra, di ceto, di comunità, di classe, di nazione, di etnia, di religione e di specie) se non a fronte di altre identità collettive differenti dalla nostra: ogni famiglia ha una propria storia diversa da tutte le altre famiglie, così ogni gruppo, ceto, comunità, classe, nazione, etnia e specie. E fin qui niente di nuovo o di strano. Senonché, come ha ben spiegato il grande sociologo e filosofo polacco di origine ebraica Zygmunt Bauman (1925 – 2017) recentemente scomparso, l’identità e la differenza tra gli esseri umani hanno significato e significano, oggi più che mai, più inimicizia che amicizia, più conflittualità che armonia, più competizione che solidarietà e, insomma, più guerra che pace. Ormai tutti confliggono contro tutti, tanto nella vita quotidiana tra individui e tra famiglie (quando non all’interno della stessa famiglia, come ci informano tristemente le cronache anche di questi giorni) quanto, a livello mondiale, tra Stati che si contendono le sempre più limitate risorse del pianeta.


Zygmunt Bauman 

Oggi più che mai, quindi, si avverte un bisogno di sicurezza sia riguardo alla salute fisica di ciascuno sia riguardo alla sicurezza economica, cioè al lavoro. Di qui la competitività che caratterizza l’odierna vita sociale, il conflitto permanente tra “noi” (italiani o francesi o tedeschi o inglesi ecc) e “loro”, i migranti, diversi anche fisicamente ed estranei alla nostra cultura e alle nostre abitudini di vita. Già, la nostra cultura (mi piacerebbe, per inciso, chiedere agli emuli di Salvini  e di Marine Le Pen che scrivono su “Trucioli savonesi” in che cosa consiste esattamente la nostra differenza culturale, se lo sapessero potrebbero rispondere con una sola parola) ma siamo sicuri che la cultura dominante  e diffusa da noi come altrove, cioè la supremazia del sapere tecnologico rispetto a quello umanistico  sia la più adatta a farci (soprav)vivere nel mondo di oggi? I nostri bambini crescono in un clima di antagonismo, li lasciamo giocare con il cellulare e alla playstation abituandoli a confondere le immagini virtuali (spesso violente) con quelle reali, diamo loro la possibilità di inviare per divertimento messaggi ingannevoli e di pessimo gusto ai genitori, ai nonni o ai conoscenti senza metterli in guardia sui pericoli seducenti ma corruttivi del consumismo che aumenta, anziché diminuire, la solitudine del cittadino globale. Se essere competitivi significa credersi migliori di qualcun altro, considerandolo quindi peggiore di noi, questo non aiuta certamente la comprensione reciproca e anzi non fa che deteriorare i legami tra gli esseri umani, legami che andrebbero invece rafforzati per combattere contro la solitudine che sempre più spesso si nasconde dietro lo schermo di Facebook o WhatSapp.

 Quanto al problema, o meglio, alla tragedia dei migranti, Bauman ha parole molto nette: “Un giorno Lampedusa, un altro Calais, l’altro ancora la Macedonia. Ieri l’Austria, oggi la Libia. Che notizie ci attendono domani? Ogni giorno incombe una tragedia di rara insensibilità e cecità morale. Sono tutti segnali: stiamo precipitando in maniera graduale ma inarrestabile in una sorta di stanchezza della catastrofe”. Una catastrofe anche dell’Europa che non sa o non riesce a governare questa continua emergenza e che lascia spazio ai cosiddetti “populismi” di destra che si fanno interpreti della paura e del comprensibile bisogno di sicurezza anche di chi teme di perdere il lavoro o di non trovarlo più a causa di questa nuova “invasione barbarica” che non sembra avere fine. Non è certo un problema di facile soluzione, e Bauman ne è ben consapevole; questo non toglie che i migranti “non per scelta ma per atroce destino ci ricordano quanto vulnerabili siano le nostre vite e il nostro benessere. Purtroppo è nell’istinto umano addossare la colpa alle vittime delle sventure del mondo. E così, anche se siamo assolutamente impotenti a imbrigliare queste estreme dinamiche della globalizzazione, ci riduciamo a scaricare la nostra rabbia su quelli che arrivano, per alleviare la nostra umiliante capacità di resistere alla precarietà della nostra società. E nel frattempo alcuni politici o aspiranti tali, il cui unico pensiero sono i voti che prenderanno alle prossime elezioni, continuano a speculare su queste ansie collettive, nonostante sappiano benissimo che non potranno mai mantenere le loro promesse. Ma una cosa è certa: costruire muri al posto di ponti e chiudersi in ‘stanze insonorizzate’ non porterà ad altro che a una terra desolata, di separazione reciproca che aggraverà soltanto i problemi”. Ma temo che anche questa, come quella di papa Francesco, sia oggi una voce clamantis in deserto!

FULVIO SGUERSO

 

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