Che stravincano i Cinque stelle

Che stravincano i Cinque stelle

Detto da uno che non li stima affatto

Che stravincano i Cinque stelle

Detto da uno che non li stima affatto

 A Rimini, qualche giorno fa, c’è stata l’investitura ufficiale di Di Maio alla guida del movimento Cinque stelle. Una delle rare occasioni che ci sono date per capire un po’ meglio cosa ci si può aspettare politicamente dal movimento nell’ipotesi, non peregrina, che debba assumere la guida del Paese. Per ciò che mi riguarda è stata un’attesa delusa ma non ne faccio un dramma. Ho ascoltato con un certo imbarazzo un Grillo a mezza strada fra tribuna e palcoscenico, che fra un volo pindarico e l’altro evocava scenari fantasiosi di nuovi materiali e nuovi propellenti che manderanno in soffitta l’acciaio e il petrolio, strade mobili, viaggi interplanetari e seconda casa su Marte. Tutto per dire che i nodi del presente saranno tagliati dalla scure del progresso. Da un Di Maio abbottonatissimo e afasico non è uscita una parola oltre l’entusiastica accettazione del ruolo di presidente del Consiglio in pectore e leader del movimento. Di Battista era in dolce attesa insieme alla sua compagna e non si è fatto vedere. Quello che ho più apprezzato e considero di buon auspicio è l’assenza di Fico, che spero voglia contribuire a validare la teoria dei loci naturales e si trasferisca a sinistra, ammesso che ce lo vogliano.


 Detto questo, nonostante il mio passato di miscredente, sono tentato di portare un cero alla santissima madonna di Montenero, patrona della Toscana, perché guidi la mano dell’elettore italiano e faccia stravincere il movimento alle prossime elezioni. Chi mi conosce sa che io avrei voluto un patto popolare che mettesse insieme Lega e Cinque stelle e raccogliesse i consensi di tutti quelli che non si fanno spaventare dall’accusa di populismo e anzi ne vanno fieri. Ma Salvini, c’è da capirlo, ha paura di essere stritolato e preferisce non rischiare, punta sul sicuro e rimane abbarbicato a un Berlusconi sempre più infido. Quindi, almeno per ora, un Fronte popolare – questa volta autentico – dovrà aspettare. Sul fatto che nel movimento ci sono poche teste pensanti non ho dubbi, che i suoi esponenti possano fare delle sciocchezze me lo aspetto, ma mi rincuora il fatto che mantengono aperto il canale di comunicazione con la società civile, magari deformato attraverso il web, e nella loro stessa sprovvedutezza mi illudo di cogliere anche una buona dose di ingenuità e di onestà. E a chi obietta che il voto ai Cinque stelle è una cambiale in bianco se non un salto nel buio rispondo che, al punto in cui è ridotto, il Paese ha bisogno di elettroshock, o, se si preferisce, di una lavanda gastrica per poter sperare di riprendersi.


Uno sguardo al passato per capire meglio il disastro

L’imperativo categorico è quello di impedire che i comunisti, comunque camuffati, continuino a nuocere. Nel 1861 l’Italia è tornata ad essere politicamente unita, e dico tornata perché l’unificazione è stata la restitutio ad integrum del più antico organismo politico e nazionale esistente. Privato di un centro quando tutta l’Europa iniziò a regredire verso forme di economia e di organizzazione elementari, subì la sorte di altri sistemi policentrici senza che ne venissero intaccati l’unità linguistica e culturale e il sentimento della comune italianità. Non quindi una costruzione artificiale come qualche sprovveduto ritiene: in confronto con l’Italia tutti, dico tutti, gli Stati europei sono costruzioni artificiali. Nei lunghi secoli della sua frammentazione si sono differenziati usi, parlate, economie ma non sono mai venute meno la coscienza dell’italianità, una lingua letteraria comune, una comune lingua veicolare e diplomatica: varcate le Alpi si apriva all’Europa la terra “santissima” cara al Petrarca, il “bel Paese” di Dante, Dante non più fiorentino o mantovano ma italiano, come “l’italiano” era per i francesi l’odiato Mazzarino, abruzzese, italiani i banchieri fiorentini, italiano Vico, italiano Leopardi, assai prima che i maneggi internazionali, l’avventurismo di Garibaldi e l’opportunismo di Cavour consegnassero un’Italia non ancora del tutto unita ai Savoia. La Toscana, come il Lazio o la Campania erano per tutti Italia quando la Bretagna forse era inglese o forse francese o forse qualche cos’altro, quando il Rossiglione o la Catalogna forse erano spagnole o forse provenzali o forse francesi, e chi sa dire di tante regioni dell’Europa centrale e orientale se sono legittimamente o naturalmente tedesche, polacche, russe o rumene?


La nuova Italia politica sconvolgeva gli equilibri di potere fra le “potenze” europee. Una spina nel fianco della Francia, dell’impero absburgico, dell’Inghilterra, che si era indebitamente accaparrata il dominio navale in tutto il Mediterraneo. Eppure l’Italietta, come la chiamano con disprezzo i compagni, seppe imporre la sua presenza in un’Europa ostile e con una politica estera apparentemente ondivaga si sottrasse ai ruoli subalterni che Francia, Inghilterra e Germania intendevano, ciascuno per il proprio tornaconto, riservarle. Ma l’Italia impose la sua autonomia e il suo protagonismo. La guerra italo-turca segnò la fine dell’impero ottomano e il ridimensionamento della presenza inglese nel mare nostrum, l’intervento italiano nella guerra degli anglo-francesi contro gli imperi centrali fu determinante per la dissoluzione dell’impero austro-ungarico e spianò la strada all’affermazione dell’egemonia italiana non solo nell’adriatico ma in tutto il mediterraneo e nel vicino oriente fino al corno d’Africa.

 Poi la guerra, nel momento peggiore, dopo la conquista dell’Etiopia, dopo la costosissima partecipazione alla guerra civile spagnola, con un bilancio statale assorbito da opere di pace e spese militari ridotte all’osso: un errore fatale e forse evitabile. Dalla disfatta l’Italia, come la Germania e il Giappone, uscì distrutta. Eppure bastarono un paio di lustri perché i tre Paesi si risollevassero e l’Italia in particolare, sebbene isolata e potendo contare sul solo, parziale e interessato, sostegno americano, che non bastò ad evitare la dolorosa perdita delle province giuliano-dalmate, guarite le sue ferite si affermò come la seconda potenza industriale europea e la sesta economia mondiale. Lo fece nonostante l’invadenza clericale, la commistione fra pubblico e privato e il conseguente malaffare e la presenza di un partito, il Pci, quinta colonna di uno Stato nemico. E, fra alti e bassi, il Paese ha sempre mantenuto un ruolo da protagonista, sia come perno dell’alleanza atlantica sia come ponte con la Russia liberata dal comunismo sia come partner privilegiato del medio e vicino Oriente. Un ruolo difficile da mantenere, insidiato dai vicini – la Storia forse non si ripete ma ci sono delle costanti geopolitiche indifferenti rispetto ai regimi e alle alleanze formali –  e compromesso dall’evoluzione degli scenari internazionali. E proprio l’intervento attivo e scoperto dei vicini, dal proditorio attacco alla Libia alle manovre sullo spread, ha messo l’Italia nelle mani degli eredi del Pci che l’hanno affossata più di quanto aveva fatto la sconfitta. Oggi l’Italia è un Paese marcio, incapace di far fruttare le sue risorse, guidato da bande di incapaci asserviti a un gruppo di famiglie che sono a loro volta strumenti della finanza mondiale. Incapaci che hanno spalancato le porte all’invasione dall’Africa per un patto scellerato fra i burattinai della globalizzazione, la Chiesa e un partito in totale confusione mentale.


Un Paese stuprato

L’Italia è ormai una nullità sulla scena internazionale: gli eredi dei socialisti e degli anarchici che nel 1914 predicavano la fine della patria e della nazione hanno preso il sopravvento e si dispongono a consegnare alla storia i cadaveri dell’una e dell’altra. I nipotini di Antonio Cederna che accusava il regime democristiano di aver favorito lo svuotamento dei centri storici e la cementificazione incontrollata hanno trasformato le città in enormi coree anonime e tetre; quegli stessi che incitavano gli studenti contro i baroni hanno okkupato le università riempiendole di avanzi della politica, di amici e di parenti sbarrandone l’accesso agli estranei; e mentre impostavano le loro campagne elettorali contro i “forchettoni” si preparavano alla grande abbuffata che ha svuotato il Paese. Volevano le regioni e le hanno avute, col risultato di moltiplicare le mangiatoie e di mettere in mani tanto avide quanto incompetenti settori vitali per la comunità, a cominciare dalla sanità; non contenti, invece di smantellare quelle anacronisticamente a statuto speciale, ne vogliono estendere il numero approfittando della miopia dei leghisti. Hanno voluto eliminare la coscrizione innalzando la bandiera del pacifismo, complici i vertici militari che in un esercito di professionisti hanno intravisto il loro tornaconto, col risultato di lasciare alle discoteche la formazione dei nostri giovani, già inebetiti da una scuola dimentica della sua funzione. Hanno ridotto la televisione di Stato al livello delle emittenti private togliendole la sobrietà che dovrebbe distinguerla e facendone un osceno stipendificio al servizio del partito. Sono un’infezione che ha guastato tutti gli organi dello Stato e della società civile.


In tutto questo c’è però un effetto boomerang. Nel marasma che la sinistra ha creato è infatti finito anche il sistema capillare di controllo del territorio; all’interno delle scuole possono solo organizzare qualche chiassata estemporanea perché di idee o di ideali non hanno più da proporne; i sindacati sono completamente screditati, le sezioni del partito le frequenta solo qualche vecchio; gli operai non si riconoscono più nelle acide professoresse o nei viscidi avvocati ascesi al parlamento che predicano lo ius soli come la vera emergenza del Paese. La sinistra non ha più una base elettorale fuori del suo molliccio corpaccione; può contare ora su compiacenti sondaggisti che cercano di accreditarla di percentuali incredibili ma è un Dracula esausto che ha bisogno subito della iniezione di nuovo sangue A questo proposito: è legittimo che un ex Capo del governo o un archistar, per non dire dei portabandiera della “cultura” di regime, cerchino di ingannare l’opinione pubblica facendo passare lo ius soli come un diritto dei bambini nati in Italia mentre è palesemente un espediente per far votare alle prossime elezioni centinaia di migliaia se non addirittura milioni di nuovi cittadini fabbricati con lo ius culturae e la conseguente industria delle certificazioni? Non è ai negretti che parlano il dialetto che guardano i compagni ma ai loro genitori da accompagnare alle urne, sicuramente non gratis.

Ecco perché si impone l’imperativo categorico: cacciare i mercanti dal tempio, rispedirli nei loro covi e nei loro salotti, strappare la preda dalle loro fauci ingorde. La convergenza di Lega e Cinque stelle, per quanto sia nelle cose e nella volontà popolare, non è purtroppo allo stato attuale praticabile. Ma che siano i grillini o il centrodestra ad affermarsi quel che conta è che i compagni vadano a casa se si vuol concedere al Paese una speranza. La sinistra in affanno, non per le divisioni interne, che sono solo un trucco e un espediente per raccattare consenso, teme soprattutto il movimento di Grillo e un po’ lo blandisce, un po’ lo criminalizza, un po’ si illude che i suoi infiltrati possano lacerarlo, un po’ martella sulla malcapitata sindaco di Roma – calunniate, calunniate, qualcosa resterà – e intesse trame con quei galantuomini – maschi e femmine – con un piede fuori e uno dentro Forza Italia, contando che comunque una buona parte degli eletti a destra continuerà a trovare agevole spostarsi verso sinistra. Chiaramente questa operazione non potrà riuscire se il Pd e le sue gemmazioni riceveranno dalle elezioni la batosta che meritano. Una batosta che dovrà impedire loro di mettere in atto uno dei due piani preparati per mantenere il potere anche se sconfitti. Il primo: un accordo postelettorale con Berlusconi seguito dalla diaspora degli azzurri; il secondo: approfittare dello stallo dei grillini e raccogliere più Fichi possibili nell’orto pentastellato. Ma con la batosta che mi auguro nessuno di questi piani potrà realizzarsi. Si ritireranno in buon ordine? Non mi piace il ruolo di profeta di sventure ma non credo che i compagni toglieranno l’incomodo solo perché il popolo glielo chiede. Stiamo pronti.

 Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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