Cent’anni del Codice della vita italiana

Cent’anni del Codice della vita italiana
(di Giuseppe Prezzolini)

 
Cent’anni del Codice della vita italiana
(di Giuseppe Prezzolini)
   Col suo carattere schivo e solitario, Giuseppe Prezzolini (giornalista, pubblicista, scrittore e aforista) fu inviso a tanti. Fu amico personale ed estimatore di Mussolini, a cui diede sempre del tu senza mai chiamarlo Duce, tuttavia non fu mai fascista. Dal fascismo non chiese niente, pur potendo avere tutto, per non dovere nulla, riuscì a fare a meno di tante cose, fuorché della libertà, la sua unica e vera dipendenza.

Si mantenne sempre lontano dalla politica e, forse per questo, non piacque mai né ai fascisti né agli antifascisti, pur avendo lanciato, con la sua rivista, le migliori penne di entrambi gli schieramenti, Croce, Gentile, Amendola, Soffici, Salvemini, Gobetti, Palazzeschi e Mussolini, tutti hanno scritto per “La Voce” da lui diretta.

Fu denunciato in Italia come antifascista e negli USA come agente di Mussolini, fu con decenni di anticipo rispetto a Longanesi e Montanelli su posizioni antifasciste e anti-antifasciste.

Morì scettico e pessimista, così come era nato, oggi la sua anima vive ancora nella Società degli apòti da lui idealizzata, al di sopra di tutto, al di sopra di tutti.

Nel 1921 Prezzolini pubblica per la prima volta il suo “Codice della vita italiana”, una raccolta di aforismi in cui fa una divertente ma allo stesso tempo seria, caricatura dell’Italia e degli italiani di quel tempo, e scrive:

“L’italiano è un popolo che si fa guidare da imbecilli, i quali hanno fama di essere machiavellici”.

Se ne desume che il Prezzolini sia un autore fuori dalle righe e abbastanza unico nel suo genere, lui si definisce “apòta”.
 
 L’apòta, è lo Scettico, colui che non presta fede ingenuamente, fu un termine divenuto oggi desueto, coniato nel 1922 dal giornalista italiano, apparso per la prima volta sulla rivista “La Rivoluzione liberale”, fondata da Piero Gobetti.
 La parola deriva dal greco apotos “colui che non beve”, composto da a- privativa e dalla radice del verbo pieno bere, potos, che si rinviene, ad esempio, in “potabile”, ovvero bevibile, in poche parole per Prezzolini:
 
“L’apòta è colui che non se la beve.”
Questa definizione fece la sua “prima uscita” nel ’22, in un articolo il mese prima che Mussolini guidasse la marcia su Roma.
Con quell’articolo l’autore, costituiva idealmente la “Società degli apòti “, poiché davanti ai tumultuosi accadimenti di quel periodo e alle nuove realtà che si stavano imponendo, la scelta che proponeva era di non lasciarsela dare a bere e sottrarvisi, al fine di ricercare la perduta limpidezza di pensiero.
Di lì a poco, infatti, Prezzolini lascerà per sempre l’Italia, per la Francia prima e gli Stati Uniti poi.
Quella dell’apòta è quindi una figura simile allo scettico, persone che non prestano fede a tutto, non credono ingenuamente a ciò che viene detto loro.
Ma l’apòta, inoltre, mostra una certa sfumatura escapista, un’inclinazione all’allontanamento, che nello scettico magari sebbene sia dissenziente, resta volentieri al tavolo, invece l’apòta no.
 
Sono molti i giornalisti e i letterati italiani che sono ricorsi a questo concetto, idealmente aderendo alla “Società degli apòti”, a volte come espressione di un desiderio di ricercare una verità diversa da quella scodellata, a volte come espressione di una volontà quasi anacoretica di abbandonare confronti ritenuti corruttivi.
Ne furono esponenti più o meno consapevoli, Montanelli, Longanesi, Guareschi, Malaparte e Pasolini.
Oggi resta una parola rara, che spesso non è neppure registrata sui dizionari, tuttavia può essere piacevole e calzante descrivere qualcuno come apòta, trasforma la descrizione dinamica del “non bersela” in una qualità più intima e generale.
Questo scrisse a suo tempo Prezzolini su “La Rivoluzione Liberale”:
“Noi potremmo chiamarci la congregazione degli apòti, di coloro che non se la bevono, tanto non solo l’abitudine, ma la generale volontà di berle è evidente e manifesta ovunque”.
Quando finì la guerra, avevo fatto altre conoscenze, ero stato negli uffici militari imboscato, ero tornato in una zona di guerra dopo Caporetto. Avevo istruito truppe nelle retrovie, avevo acquistato una maggior esperienza, il frutto era stato:
“Il codice della vita italiana”.
Mi dicon che se n’occuparon una volta in seduta del consiglio dei ministri, i capi del fascismo, indecisi se farmi bastonare, o di lasciar andare, senza permettere una seconda edizione. Non ce ne fu bisogno, pochi lo comprarono”.
Infine, questo fu il testo apparso col titolo; “Codice della vita italiana” pubblicato su La Voce, nel 1921 e successivamente a Firenze nel frontespizio editoriale dei “Quaderni della voce” (serie III – n. 45) del 1923, esiste anche una prima pubblicazione del 1917 apparsa sulla “Rivista di Milano”.
La descrizione che Prezzolini fa dell’italiano è ferocemente attuale, nonostante il testo risalga a quasi un secolo fa.
Rileggiamolo, qui in un estratto, può aiutarci a risvegliare le nostre coscienze (sempre che sia mai possibile), e poi ditemi se c’è qualcuno ancora oggi, che ha il coraggio di sostenere che ciò non è vero?
 
Capitolo I – Dei furbi e dei fessi
 
1. I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi.
 
2. Non c’è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia, non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura, nella Pubblica Istruzione ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, ecc. questi è un fesso.
 
3. I furbi non usano mai parole chiare. I fessi qualche volta.
 
4. Non bisogna confondere il furbo con l’intelligente. L’intelligente è spesso un fesso anche lui.
 
5. Il furbo è sempre in un posto che si è meritato non per le sue capacità, ma per la sua abilità a fingere di averle.
 
6. Colui che sa è un fesso. Colui che riesce senza sapere è un furbo.
 
7. Segni distintivi del furbo: pelliccia, automobile, teatro, restaurant, donne.
 
8. I fessi hanno dei principi. I furbi soltanto dei fini.
 
 9. Dovere: è quella parola che si trova nelle orazioni solenni dei furbi quando vogliono che i fessi marcino per loro.
  10. L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi che non fanno nulla, spendono e se la godono.

 

11. Il fesso, in generale, è stupido. Se non fosse stupido avrebbe cacciato via i furbi da parecchio tempo.
 
12. Il fesso, in generale, è incolto per stupidaggine. Se non fosse stupido, capirebbe il valore della cultura per cacciare i furbi.
 
13. Ci sono fessi intelligenti e colti, che vorrebbero mandar via i furbi. Ma non possono: 1) perché sono fessi; 2) perché gli altri fessi sono stupidi e incolti, e non li capiscono.
 
14. Per andare avanti ci sono due sistemi. Uno è buono, ma l’altro è migliore. Il primo è leccare i furbi. Ma riesce meglio il secondo che consiste nel far loro paura: 1) perché non c’è furbo che non abbia qualche marachella da nascondere; 2) perché non c’è furbo che non preferisca il quieto vivere alla lotta, e la associazione con altri briganti alla guerra contro questi.
 
15. Il fesso si interessa al problema della produzione della ricchezza. Il furbo soprattutto a quello della distribuzione.
 
16. L’Italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all’ammirazione di chi se ne serve a suo danno. Il furbo è in alto in Italia non soltanto per la propria furbizia, ma per la reverenza che l’italiano in generale ha della furbizia stessa, alla quale principalmente fa appello per la riscossa e per la vendetta. Nella famiglia, nella scuola, nelle carriere, l’esempio e la dottrina corrente che non si trova nei libri insegnano i sistemi della furbizia. La vittima si lamenta della furbizia che l’ha colpita, ma in cuor suo si ripromette di imparare la lezione per un’altra occasione. La diffidenza degli umili che si riscontra in quasi tutta l’Italia, è appunto l’effetto di un secolare dominio dei furbi, contro i quali la corbelleria dei più si è andata corazzando di una corteccia di silenzio e di ottuso sospetto, non sufficiente, però, a porli al riparo delle sempre nuove scaltrezze di quelli.
 
Capitolo II – Della Giustizia
 
Non è vero, in modo assoluto, che in Italia, non esista giustizia. È invece vero che non bisogna chiederla al giudice, bensì al deputato, al Ministro, al giornalista, all’avvocato influente ecc. La cosa si può trovare: l’indirizzo è sbagliato.
In Italia non si può ottenere nulla per le vie legali, nemmeno le cose legali. Anche queste si hanno per via illecita: favore, raccomandazione, pressione, ricatto ecc.
 
Capitolo III – Del Governo e della Monarchia
L’Italia non è democratica né aristocratica. È anarchica.
Tutto il male dell’Italia viene dall’anarchia. Ma anche tutto il bene.

In Italia contro l’arbitrio che viene dall’alto non si è trovato altro rimedio che la disobbedienza che viene dal basso.

In Italia il Governo non comanda. In generale in Italia nessuno comanda, ma tutti si impongono.
Per le cose grosse non si cade mai, per quelle piccine spesso.
L’autorità del grado non conta. L’italiano non si inchina davanti al berretto. Nulla lo indispone più dell’uniforme. Ma obbedisce al prestigio personale ed alla capacità di interessare sentimentalmente o materialmente la folla.
L’uomo politico in Italia è uomo avvocato. Il dire niente in molte parole è stata sempre la prima qualità degli uomini politici; che se hanno sommato il dire niente al parlare fiorito, hanno raggiunto la perfezione.
 
Capitolo IV – Della geografia politica
L’Italia si divide in due parti: una europea che arriva all’incirca a Roma, e una africana o balcanica, che va da Roma in giù. L’Italia africana o balcanica è la colonia dell’Italia Europea.
 
Capitolo V – Della famiglia
In Italia l’uomo è sempre poligamo. La donna è poliandra. (Quando può.)
La famiglia è la proprietà del capo di famiglia. La moglie è un oggetto di proprietà. Se abbandona si può uccidere. Viceversa non è ammesso che possa uccidere, se la si abbandona.
La moglie ha la sua posizione sociale segnata fra la serva e l’amante. Un po’ più in su della serva e un po’ più giù dell’amante. Fa le giornate da serva e le notti da amante.

Capitolo VI – Delle leggi
 
Tutto ciò che è proibito per ragioni pubbliche si può fare quando non osta un interesse privato. Nei vagoni dove è proibito fumare tutti fumano finché uno non protesta.
In Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio.
 
Capitolo VIII – Dell’ideale
C’è un ideale assai diffuso in Italia: guadagnar molto faticando poco. Quando questo è irrealizzabile, subentra un sottoideale: guadagnar poco faticando meno.
 
La scuola è fatta per avere il diploma. E il diploma? Il diploma è fatto per avere il posto. E il posto? Il posto è fatto per guadagnare. E guadagnare? È fatto per mangiare. Non c’è che il mangiare che abbia fine a se stesso, sia cioè un ideale. Salvo in coloro, in cui ha per fine il bere.
 
Capitolo X – Della proprietà collettiva
La roba di tutti (uffici, mobili dei medesimi, vagoni, biblioteche, giardini, musei, tempo pagato per lavorare, ecc.) è roba di nessuno.
 
Capitolo XI – Dell’Italia e degli Italiani
L’Italia non è il giardino del mondo. L’Italia è un paese naturalmente povero, senza carbone, con poco ferro, molto scoglio, per tre quarti malarico e troppo popoloso. Esso dipende e dipenderà sempre economicamente dagli stranieri. L’indipendenza dell’Italia è il mito più infondato e dannoso che un italiano possa nutrire. C’è una sola consolazione: che nessun paese è economicamente indipendente.
L’italiano è un popolo che si fa guidare da imbecilli i quali hanno fama di essere machiavellici, riuscendo così ad aggiungere al danno la beffa, ossia l’insuccesso alla disistima, per il loro Paese. Da molti anni il programma degli uomini che fanno la politica estera sembra riassumersi in questo: mani vuote, ma sporche.
I veri italiani sono pochissimi. La maggior parte di coloro che si fanno passare per italiani, sono in realtà piemontesi, toscani, veneti, siciliani, abruzzesi, calabresi, pugliesi e via dicendo. Appena fuori d’Italia, l’italiano torna ad essere quello che è: piemontese, toscano veneto ecc. L’italiano sarà un prodotto dell’Italia, mentre l’Italia doveva essere un prodotto degli italiani.
La storia d’Italia è la storia di Spagna e di Francia, d’Alemagna e d’Austria, e in fondo, storia d’Europa. Lo sforzo degli storici per creare una storia d’Italia dimostra come si possa spendere molto ingegno per una causa poco ingegnosa, come accade a quei capitani che si fanno valorosamente ammazzare per una causa infame.
L’Italiano è di tanto inferiore al giudizio che porta di se stesso di quanto è superiore al giudizio che ne danno gli stranieri. Le sue qualità migliori sono le ignorate e i suoi difetti peggiori sono i pubblicati da tutta la fama.
La famiglia è l’unico aggregato sociale solido in Italia. Il comune è l’unico organismo politico sentito in Italia. Tutto il resto è sentimento generico di classi intellettuali, come la patria; o astrattismo burocratico, come la provincia; o mito vago, che nasconde spinte economiche molto ristrette ed egoistiche, come l’internazionale.
Tutto è in ritardo in Italia, quando si tratta di iniziare un lavoro. Tutto è in anticipo quando si tratta di smetterlo.
Il tempo è la cosa che più abbonda in Italia, visto lo spreco che se ne fa.
 
Capitolo XII – Senza titolo riassuntivo indispensabile
L’Italia è una speranza storica che si va facendo realtà.
In conclusione io oggi personalmente mi sento fortemente un apòta e trovo ancora oggi che le parole di Prezzolini, dopo 100 anni di storia, con due guerre mondiali, una marcia su Roma, una guerra partigiana e civile, la Repubblica Italiana al posto della Monarchia, le lotte operaie e il ’68, la seconda Repubblica e tangentopoli ed infine la politica contemporanea e l’attualità odierna, rispecchino sempre ed ancora le caratteristiche dell’italiano medio, che si fa buggerare o cede alle lusinghe delle sirene, per suo proprio interesse o per menefreghismo e poi si ritrova a sbattere contro la dura e cruda realtà dello stato delle cose.

E non c’è teoria politica o analisi critica che regga, populismo, sovranismo, nemmeno imperialismi fascisti e comunisti che sono politicamente morti, con le proprie teorie marxiste o sobillatrici che reggano.

L’italiano è il solito anarchico ed individualista, è sempre quello che sogna di essere liberale e unitario, ma alla fine si arrangia ed arrabatta per raggiungere il proprio fine personale, familiare, di squadra, di gruppo o clan che sia, perché se è vero che nell’emergenza ci si raggruppa e ci si riconosce in congregazioni e associazionismo, una volta raggiunto lo scopo, chiunque torna ad essere il solito italiano, che guarda unicamente al proprio orticello ma limitandosi a quello.

Paolo Bongiovanni

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