Cemento

I belli addormentati nel cemento
Noi dormiamo, e, come il castello della nostra omologa delle favole si riempiva di rovi e ragnatele, il nostro trabocca di cemento, palazzi, box, banchine, capannoni, strade, centri commerciali.

I belli addormentati nel cemento
Noi dormiamo, e, come il castello della nostra omologa delle favole si riempiva di rovi e ragnatele, il nostro trabocca di cemento, palazzi, box, banchine, capannoni, strade, centri commerciali.

Siamo noi savonesi. I politici, gli imprenditori, i media al loro ossequioso servizio ci hanno cullati in un incantesimo fatto di immagini e parole scintillanti, falsa sicurezza, indifferenza, o anche solo distrazione (spesso comprensibile: in mezzo a tutte le grane quotidiane, occuparsi di ciò che ci circonda, del nostro ambiente e della cosa pubblica, è un lusso che non tutti ci possiamo permettere, come tempo e come spazio mentale).

Noi dormiamo, e, come il castello della nostra omologa delle favole si riempiva di rovi e ragnatele, il nostro trabocca di cemento, palazzi, box, banchine, capannoni, strade, centri commerciali.

Non appena qualcuno accenna a muoversi, ad aprire gli occhietti, a tentare di svegliare gli altri, si sussurrano suadenti formule magiche come “sviluppo”, “posti di lavoro”, “riqualificazione contro il degrado”, “grande opportunità”, oppure si allargano le braccia, sospirando che non vi sono alternative. E noi, bel belli, a riassopirci sorridenti.

L’incantesimo è così forte, che è difficile da spezzare con un controincantesimo razionale, basato sui fatti. Cos’altro, se non un sortilegio, spiegherebbe il fatto che le vittime faticano a rendersi conto della realtà, persino di fronte alla realizzazione concreta che smentisce ogni premessa e promessa?

La realtà, per esempio, suggerisce che la famosa “riqualificazione” consiste nel provocare apposta il “degrado” di ciò che è ancora vivo, o quanto meno recuperabile in modo più armonioso, più rispettoso di continuità, più utile per tutti, per poi regalarlo a pochi, e sprecarlo, seppellirlo di cemento come soluzione. Come se un vetraio girasse a prendere a sassate le vetrine, o un carrozziere a sfasciare auto, e noi tutti contenti, ad approvare. Per primi i proprietari delle auto e delle vetrine stesse, convenendo che, intanto, l’auto aveva già una righetta e la vetrina era da rinnovare.

Eh, già: perché vaglielo a spiegare, alle persone inconsapevoli, che ogni volta che si svende al privato qualcosa di pubblico o comunque della comunità, per esempio uno spazio demaniale, un palazzo storico, dei beni di opere sociali, è come se qualcuno ci mettesse letteralmente la mano in tasca, portandosi via il portafoglio, contando le banconote, sfilandole e restituendocelo con pochi spiccioli. E non una, ma tante volte, fino a prosciugarcelo. Forse, se appena se ne rendessero conto, si scalderebbero un po’ di più, perché dopotutto al portafoglio ci teniamo eccome. E vorrei vedere.

Eppure noi sempre sorridenti e beati. Vediamo la torre Bofill e gli altri spazi semivuoti, l’incubo del Crescent (colonna sonora: Pink Floyd “the wall”), che adesso si ripeterà pari pari a Salerno, visto il successone, la darsena spopolata e degradata, sì, oso usare quel termine, perché esiste un degrado più alienato e subdolo, fatto di vetro e lastricati deserti, disumano e freddo, contrario di tutto ciò che è vita, luce e colore. Vediamo i cartelli VENDESI spuntare a ogni angolo, specie nel nuovo, e sbiadirsi al sole con la loro invocazione, a quanto pare, inascoltata.

L’ultima volta parlavo del complesso alla foce del Letimbro, altro monumento all’uso leggero e superficiale di territorio, come quello ex-Astor. Ma guardatevi anche il Matitino e quella specie di passaggio con le tettoie sospese. Nulla di più estraniato da una qualsivoglia realtà di quartiere. E si potrebbe continuare a lungo.

 

Si dirà: ormai, quel che è fatto, è fatto, dovevamo pensarci prima, protestare ora è tardi. Ma fosse finita qui! Le opere in progetto o in via di realizzazione sono molte altre, quelle che si tenta di bloccare altrettante. E senza che emerga una linea di fondo, una minima armonia, una coerenza in tutto ciò, un legame, pur piccolo, con le esigenze cittadine. Quel che chiamano PUC è un ammasso a casaccio.

Alcuni fra gli addormentati, forse, qualche incubo nel sonno lo hanno, si agitano inquieti. Altri ripetono le parole dell’incantesimo, con convinzione.

Ora che, al termine di un lungo braccio di ferro, saranno demolite le baracche della Margonara, è tutto un coro di: finalmente, era uno schifo, togliessero anche le altre in porto…

Ecco uno degli effetti tipici del nostro torpore: non riuscire ad andare più in là del nostro naso, della realtà e di ciò che chiamiamo buon senso. Come dicevo l’altra volta, mi si perdoni il bisticcio, non tutto il brutto è brutto e non tutto il bello è bello.

Si vedono delle baracche su un costone, il realista non vede l’ora di demolirle, qualsiasi cosa le sostituisca – ragiona – sarà comunque nuova, perciò stesso migliore. E approva lo scempio.

L’integralista vorrebbe ripristinare l’ambiente incontaminato. Cosa bella, auspicabile, ma ahimè, di difficile realizzazione pratica, e altrettanto difficile da sostenere contro squali famelici, con quel progetto portuale ed edilizio sempre sospeso sulla testa, perennemente riproposto come la risacca sugli scogli, addirittura, sparita la torre, rifatto quasi pari pari al precedente già bocciato.

Offendendoci e prendendoci per scemi, oltretutto.

Cosa ci porterebbe fuori da questi opposti? La fantasia, la creatività, l’impegno, l’entusiasmo, la capacità di pensare “diverso”, la proposta attiva.

Qualcosa d’altro al posto delle baracche, ad esempio, che ne mantenga però la tradizione. A me non dispiaceva l’idea di baracche rinnovate, rese più solide, colorate in tinte vivaci, magari con tendine e vasi di fiori…E anche quelle del porto, potevano essere ripulite, se si sposta il terminal carbone… E in questo contesto ambientare qualche struttura o punto di ritrovo a uso sociale, turistico, ricreativo, sportivo. Ma questo tipo di senso del bello minimale, pittoresco, allegro, naif, non ci appartiene proprio, so di essere abbastanza isolata nelle mie idee. Eppure, continuo a crederci, in questa sorta di realtà alternativa, e a credere nelle potenzialità del bizzarro e dell’insolito, dell’originale e del rinnovamento conservativo, di ciò che può essere realizzato in semplicità e dare esiti sorprendenti.

Invece i maligni – solo i maligni, eh – potrebbero sostenere che laddove non sono in ballo appalti consistenti, laddove si potrebbero ottenere buoni risultati con minima spesa e senza scomodare ditte e imprese di una certa levatura e di un certo giro, non se ne vuole sapere, né anche solo parlare.

Alle Fornaci, intanto, lo scaletto è in via di trasformazione. Qualche baracca demolita, altre rimaste, non si sa fino a quando. Va bene il doveroso accesso in spiaggia per i disabili, ma cos’altro si ha in mente? Ho sentito di un certo allarme, da parte della gelateria, minacciata anch’essa di spostamento.

Ma perché, mi chiedo, con una inquietudine di fondo? Cosa non va, in una gelateria apprezzata che è lì da sempre, punto di ristoro vicino alla spiaggia libera? Cosa dovrebbe esserci, al suo posto?

Perché con l’horror vacui che caratterizza i nostri amministratori, è chiaro che ogni spazio è fatto per essere riempito. Di cosa, a saperlo.

Mi chiedo anche cosa ne sia della proposta di Rifondazione, di ridare a quel luogo, autentico cuore delle Fornaci, la dignità e la struttura, appunto, di scaletto, con un argano e qualche barca. Mah.

Troppo semplice e banale, anche questo?

Terminata la digressione fornacina, torniamo a noi, i sonori russatori.

 

E’ chiaro che sarebbe auspicabile un risveglio. Ma di candidati principi azzurri, non ne vedo e neppure ne vorrei vedere. La figura del leader mi preoccupa sempre un po’. Come minimo, si pretende che faccia il lavoro per noi. E ovvio che poi lui si prenda pure i vantaggi, di questo potere che gli diamo, e tenda a non restituircelo volentieri.

Invece di delegare, sarebbe meglio cercare di svegliarci noi, magari scrollandoci l’un l’altro e bevendoci un litro di caffè forte.

Qualcosa si muove? Qualcosa sì. Ho sentito dire che le mamme della Margonara si stanno organizzando attivamente per fare proposte, inerenti a un migliore uso di quel luogo a vantaggio della cittadinanza. Bene: ecco cosa si dovrebbe fare, per spiazzare chi blatera di ambientalismo retrogrado, chi dice che non esistono alternative. Dargliele, le alternative. Fare i primi passi per costruire, anche qui da noi, una strategia di progetti partecipati che venga davvero dai cittadini. Con convinzione ed entusiasmo.

Anche i comitati critici contro il progetto di potenziamento della centrale di Vado si coalizzano, si muovono, con argomenti concreti. E con alternative da discutere.

Insomma, si sbadiglia, si sonnecchia, ma c’è fermento, non tutto passa liscio come prima.

Eppure, come stiamo sperimentando noi Amici di Beppe Grillo di Savona che tentiamo faticosamente di costruire una alternativa, una serie di proposte concrete da condividere con i cittadini, una base di impegno e di persone di buona volontà, perché il MoVimento Cinque Stelle possa davvero nascere anche a Savona, è così difficile scuotere l’apatia, il pessimismo, la rassegnazione.

 

Molti preferiscono ritornare a dormire. O far finta di farlo. O mettere la sveglia e sperare che ci pensi qualcun altro, per quando saranno in piedi.

Be’, non si può più fare così. Nessun altro, se non noi stessi, può toglierci le castagne dal fuoco, spezzare l’incantesimo dei poteri forti.

Chiunque, per quanto impegnato in altro o riluttante, può trovare gli spazietti per partecipare in piena indipendenza, senza essere “incastrato”.

A volte, basta la rete, un commento, una notizia, una mail. Tutto serve, per contribuire a far nascere una nuova e migliore idea di Savona.

 

Il tempo e lo spazio di un caffè. Per svegliarsi, appunto.

 

Milena Debenedetti   10/09/2010

Il mio ultimo romanzo  I Maghi degli Elementi 

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