Buoni pasto: buoni per chi?

BUONI PASTO:
BUONI PER CHI?

BUONI PASTO: BUONI PER CHI?

In anni ormai lontani lavoravo a Milano in una grande multinazionale anglo-olandese. La sede occupava un intero grattacielo, parte di un cui piano era dedicata alla mensa. Il concetto di buoni-pasto, o ticket, era presente già allora, in quanto ogni mese i dipendenti ne ricevevano un certo numero e li consegnavano ad una cassa dopo il self service.

Questa procedura aveva un senso: era tutto interno all’azienda, che forniva essa stessa il servizio mensa; e quindi i ticket (semplici talloncini con un numero progressivo) non erano che una partita di giro, un modo anche per far sì che a tavola sedessero soltanto gli aventi diritto: i dipendenti, che li acquistavano ad un prezzo quasi simbolico dall’azienda stessa.

 
Come in natura, quando la preda è facile i predatori abbondano

Con gli anni questo sano e giustificato sistema si è venuto deteriorando: si parte sempre da giusti principi e poi man mano si degenera ai danni dei più deboli. Le aziende (per 2/3 pubbliche) infatti hanno pensato bene di risparmiarsi l’impegno di una propria mensa, seguendo gli stessi criteri delle “esternalizzazioni”.

È venuta così nascendo una sparuta costellazione di società, anche multinazionali, che si spartiscono un florido quanto immeritato mercato: le società di ticket, ben lontane però dall’assetto intra-aziendale delle origini. Il concetto che sta alla base della loro attività, se così possiamo chiamarla, non è quello delle società di servizi –giacché non ne forniscono alcuno- né quello delle agenzie di intermediazione, bensì quello delle società finanziarie, che prosperano sul lavoro altrui, come anche i più scettici hanno dovuto constatare dopo la crisi del 2007.

Rispetto all’originario circuito chiuso azienda-dipendente-azienda, questi enti terzi si sono incuneati nel rapporto, un tempo diretto, offrendo nient’altro che pezzi di carta (e a breve solo bit elettronici), ceduti alle aziende al prezzo di facciata, salvo gli sconti per aggiudicarsi le gare, come negli appalti al ribasso. L’azienda elargisce poi questi buoni ai propri dipendenti, liberandosi dall’onere di fornire direttamente un servizio mensa; il che è più che comprensibile, se le dimensioni aziendali sono inferiori a un certo standard di convenienza, pur essendo invece perlopiù le grandi aziende a ricorrervi. Infine, i dipendenti li consegnano agli esercenti di bar e ristoranti come fossero contanti.

La cosa sarebbe pure accettabile, se contanti fossero davvero; ossia se si potessero spendere per qualsiasi pagamento. Il che invece non è. È ben vero che alcuni supermercati, forse assediati da una pletora di clienti bisognosi di disfarsi di questi contanti-non contanti, hanno ceduto alle pressioni e accettano obtorto collo alcuni ticket, ma solo fino alla metà della spesa. Ma con la normativa in fieri, che imporrà solo ticket elettronici, ciò non sarà più possibile, col risultato che gli esercizi di ristorazione saranno oberati, ancor più di oggi, da crediti illiquidi: in pratica pseudo-cambiali a 120 giorni o anche più, con tanto di bollo. Mentre magari sono in scadenza una ridda di altre spese, verso le stesse banche che elargiscono i ticket ai loro impiegati, o verso i fornitori o i propri dipendenti, o per pagare gli oneri fiscali e contributivi, ecc. Per giunta, il rimborso, oltre che lontano nel tempo, è tutto meno che agevole: a fine mese li si deve dividere tra le varie società di ticket, contarli, fare totali e fatture separati, imbustare ciascun gruppo e spedirli con altrettante raccomandate AR. Dopo di che, i rimborsi arrivano, appunto, nel giro di mesi. Ricevuti i rimborsi, bisogna verificarli, per appurare che non ci siano discrepanze –cosa non infrequente- e finalmente la trafila finisce. Tutto lavoro contabile sulla schiena dell’esercente (e del commercialista).

 
Diversi nella forma, simili nella sostanza: sono entrambi “pagherò”

Nel frattempo, questi ha magari sconfinato in banca proprio per gli ammanchi dei ticket; e gli sconfinamenti oggi sono molto più salati di ieri, tanto per non far mancare favori alle banche.

Un girone estenuante. Ma, a chi giova? Giova alle grandi aziende ed enti pubblici, che sono riusciti sia a togliersi il peso di una mensa propria, nonché a far esentare dalle tasse i ticket e a pagarli meno: dipende dalla forza contrattuale, normalmente in proporzione alle dimensioni, sia dell’azienda (che in fase d’asta riesce a spuntare anche il 20% di ribasso) che dell’esercente (che spunta commissioni ridotte se è una catena di punti vendita, tipo Coop o Mc Donald, certo non il ristorante o bar singolo). Per i dipendenti non cambia nulla rispetto a ricevere l’equipollente in busta paga, altrettanto esentasse (perché no?). Quale lobby è riuscita a suo tempo a rendere esentasse i ticket, anziché il contante del pranzo? Giova invece, alla grande, alle società di ticket, che, quasi non bastasse incamerare per mesi fior di quattrini a interessi zero, ci chiedono pure una commissione; mica leggera: dall’originale 5% all’attuale media del 12%. Insomma, un processo contrario alla norma, dove chi paga un interesse non è chi presta il denaro, ma chi se lo fa prestare. (Non fanno lo stesso i fornitori di energia, quando “stimano” i consumi, sempre per eccesso, in mancanza di auto-letture, facendosi finanziare dagli utenti?).

Chi paga per tutti questi allegri benefici? Gli esercenti, specie i più piccoli, che sono la grande maggioranza: i famigerati “evasori”, soggetti alle imboscate dei tanti controllori di cui è popolato il nostro malridotto Paese: gente che, al pari di tante altre partite Iva, si fa un mazzo dal mattino alla sera, non può ammalarsi e quando chiude per ferie fa poi fatica a pagare la valanga di spese fisse accumulate. Ogni tanto si ironizza che alcuni esercenti guadagnano meno dei loro dipendenti: forse da quanto sopra si capisce perché.

 
Quelli che pagano per tutti

 Prendiamo un pasto dal prezzo arrotondato di € 10. Il 10% se ne va nell’Iva (che il governo aumenterà, se scatterà la clausola di salvaguardia). Il 12% se lo succhiano le società di ticket. Rimangono meno di € 8. Valore della merce, stando bassi: € 3. Rimangono neanche € 5. Togliamo le spese fisse: affitto, bollette, personale, imposte locali (spazzatura, suolo pubblico, etc.), ammortamento attrezzature e arredamento, CCIAA, commercialista etc.: diciamo € 3, per essere ottimisti. Rimangono meno di € 2 di “utile”. Sui quali si abbatte la mannaia delle tasse statali e dei contributi obbligatori. Ecco, questi sarebbero gli “evasori”, il 20% del monte tasse che il governo incassa, a fronte dell’80% che spolpa a dipendenti e pensionati. Pagano meno perché guadagnano meno, non perché evadono.

Un’ultima chicca: mentre le banche hanno avuto almeno l’intelligenza di unificare i dispositivi POS, che accettano qualsiasi carta di credito e bancomat, i signori dei ticket viaggiano ciascuno per proprio conto: come le autostrade di un tempo che ti costringevano a far la fila ad ogni cambio di tratta, da una società all’altra. Quindi, se accetti, diciamo, 5 società in digitale, devi disporre di 5 macchinette…!

Ora, che senso ha l’esistenza di questi “intermediari” dei pasti che non svolgono nessuna funzione utile, se non alle proprie tasche, forzando bar e ristoranti a subire questo ricatto: o accetti i ticket o perdi clienti. Ticket che sono in effetti valuta a corso forzoso per una sola categoria di servizi, quella della ristorazione.

Concludo rivolgendomi a quei sindacati, tipo Confcommercio e Confesercenti, che su questo fronte dovrebbero impegnarsi a fondo a livello governativo per l’abolizione di questa stortura a danno di una categoria già al lumicino; infatti, a livello locale hanno a che fare con la mentalità individualista e furbesca di molti esercenti, che pensano di fare più incassi “fregando” i colleghi ligi alle giornate di protesta “NO TICKET” che già ci sono state, senza successo.

Sarà davvero un giorno di festa per il mondo della ristorazione quello in cui le aziende potranno mettere in busta paga soldi esentasse per la pausa pranzo, così come Renzi ha fatto per i famosi € 80; con tanti saluti ai buoni-pasto e a chi ne ha fatto un lucroso business.

Non è l’idea peregrina di chi scrive, essendo già stata avanzata con forza anche da Federdistribuzione …VEDI

Marco Giacinto Pellifroni                                            6 settembre 2015 

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